Trump il pacifondaio cede all’americana “Israel lobby”
di Alessio Mannino - 22/06/2025
Fonte: La Fionda
Vedremo se il bombardamento dei siti nucleari iraniani, come sembrerebbe, anziché l’inizio di una guerra d’invasione è stata più una mossa alla Trump: tirare il sasso e nascondere la mano. Aver messo fin da ora le mani avanti, con quel riferimento in maiuscolo alla “pace” nel messaggio su Truth, potrebbe essere in questo senso un indizio. Inoltre, lo stabilimento di Fardow pare non abbia subìto danni, sempre che gli insediamenti atomici degli ayatollah non fossero stati spostati per tempo. Quel che è certo, è che a sfregarsi le mani per l’attacco deciso dal pacifondaio della Casa Bianca non è solo il criminale Bibi Netanyahu, o il suo pseudo-oppositore interno Yair Lapid (“Bisogna impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare”). Sono anche, ovviamente, le forze organizzate che negli Stati Uniti premono per dare soddisfazione alla politica guerrafondaia di Israele, e che possono essere riunite sotto un nome preciso: lobby israeliana.
Il tema è ancora quasi tabù, nel dibattito pubblico. La formula, infatti, evoca quella tristemente nota della lobby ebraica. Ma negli Stati Uniti il lobbismo non rappresenta il nome gentile di chissà quali agenti oscuri del Male che tramano nell’ombra: è una realtà alla luce del sole, legalmente codificata e registrata. Nel 2007, due accademici statunitensi rispettivamente dell’università di Chicago e di Harvard, John Mearsheimer e Stephen Walt, hanno delineato in un agile e aureo volume i contorni di quell’insieme di associazioni e fondazioni che oltreoceano formano dichiaratamente la “Israel lobby”, com’è stato intitolata anche qui in Italia l’ultima riedizione. Ed è significativo che a ripubblicarlo sia stata la Mondadori, casa editrice mainstream per eccellenza. Significa, come ha spiegato lo stesso Mearsheimer in un’intervista dell’anno scorso, che “la grande differenza tra quando abbiamo scritto il libro e adesso è che le attività della lobby oggi sono allo scoperto in un modo in cui non lo erano nel 2007. Penso che poche persone allora sapessero molto della lobby. E pochissime persone sapevano molto dell’influenza della lobby sulla politica estera americana, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente. E penso che abbiamo contribuito a svelarla e ora più persone capiscono cosa sta succedendo. La lobby è ora costretta a operare molto di più allo scoperto. Dal punto di vista di qualsiasi lobby, è meglio se può operare dietro le quinte ed esercitare un’influenza significativa che il pubblico non vede. Ma la lobby israeliana non può più operare in questo modo” (The New Statesman, 10 febbraio 2024).
La lobby è composta da cinque fondamentali soggetti: l’American Israel Public Affair Committee (Aipac), la Conferenza dei presidenti delle Organizzazioni ebraiche, il Jewish Institute for National Security Affairs, il Washington Institute for Near Easterns Policy e i Christian Zionists. La prima è la più importante e influente: condiziona l’attività del Congresso premiando o punendo finanziariamente i parlamentari a seconda del loro grado di vicinanza agli interessi israeliani, lancia campagne sui media per sostenere o screditare chi appoggia od osa criticare Tel Aviv, prende di mira perfino i filo-israeliani più moderati (come è accaduto in questi giorni all’organizzazione J Street), e soprattutto piazza i suoi uomini nei gangli dell’amministrazione di turno, tenendo sempre un filo diretto con chi governa nella cosiddetta “unica democrazia del Medioriente”. Sono una vera e propria quinta colonna che si muove dentro le istituzioni Usa. E non da qualche anno: da decenni. La guerra all’Irak, costata 1 milione e mezzo di morti agitando le fialette farlocche all’Onu, fu un tributo di sangue in gran parte dovuto a loro, non per il petrolio ma per assicurare maggiore sicurezza strategica a Israele.
Ci sono poi i think tank non apertamente collegati alla causa di Israele, ma la cui linea politica le è favorevole. Il più attivo nell’ultimo periodo è il neoconservatore Foundation for Defense of Democracies (FDD), che sta facendo il diavolo a quattro per boicottare ogni via diplomatica nel conflitto con l’Iran in nome del “regime change”. Ossia la solita, rifritta teoria dell’esportazione della democrazia di cui abbiamo visto i magnifici risultati in Afghanistan, dove gli straccioni talebani, con l’evidente supporto della popolazione, hanno cacciato a pedate gli occupanti yankee e i loro servi, italiani inclusi. In centri di propaganda come l’FDD, Israele si infiltra facilmente: la sua collaboratrice Merav Ceren è stata di recente nominata nel Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense. La Ceren, guarda caso, è un ex funzionario della Difesa israeliana. Scrive il giornalista Roberto Vivaldelli: “La Fdd ha lavorato per minare gli sforzi diplomatici tra Stati Uniti e Iran, giocando un ruolo centrale nel far deragliare l’accordo nucleare del 2015 (Jcpoa). Durante il primo mandato di Trump, il think-tank filo-israeliano ha sostenuto il ritiro dall’accordo nucleare siglato dall’amministrazione Obama, promuovendo la strategia di ‘massima pressione’” (InsideOver, 16 giugno 2025).
Con 3 miliardi di dollari erogati ogni anno come assistenza diretta, Israele è dal 1976 il maggior beneficiario di aiuti economici degli Usa. Non c’è lobby ad eccezione di quella israeliana, sottolineano Mearsheimer e Walt, che sia mai riuscita a portare la politica estera americana “così lontano da ciò che l’interesse nazionale vorrebbe, riuscendo anche a convincere gli americani che gli interessi Usa e quelli di Israele coincidano”. Ed è stata in grado di farlo non solo grazie a pressioni dirette, ai killeraggi politici, ai finanziamenti mirati, al martellamento mediatico. La grande arma di manipolazione è stata l’argomento ricattatorio dell’antisemitismo: chiunque azzardi una mezza critica all’operato di Israele, che da ben prima del 7 ottobre 2023 vìola i diritti umani, incarcera e ammazza arbitrariamente, ed è seduta su una montagna di ordigni atomici che ufficialmente non esistono, viene linciato come erede ed emulo del nazismo. La reductio ad Hitlerum è stata dichiaratamente teorizzata dal delinquente Netanyahu: “Chi dice Free Palestine dice Heil Hitler”. E a proposito: sia detto di passata a chi ogni due per tre tira fuori il paragone con lo sterminatore tedesco, sarebbe ora di finirla con questa riesumazione perenne di cadavere: Adolf, quanto meno, non faceva quel che faceva in nome di ideali umanitari. Né tanto meno per la “democrazia”. Era un mostro a suo modo più onesto. Di sicuro più del rivoltante Netanyahu e di tutti i piccoli Netanyahu travestiti da liberaldemocratici.