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Alla borsa iraniana di Kish il greggio si comprerà in euro

di Sabina Morandi - 11/03/2008

 
Nasce su un'isola l'Iranian International Petroleum Exchange ovvero il mercato alternativo dell'oro nero


Le notizie dall'Iran, com'è noto, difficilmente trovano spazio nei media statunitensi o in quelli europei. Peccato che stavolta, per giustificare il nuovo record storico del prezzo del barile, non ci fossero uragani in vista né rivolte in Nigeria: i telespettatori hanno dovuto subire la notizia dei nuovi aumenti - e le sibilline dichiarazioni sul taglio delle accise - senza che venisse loro presentato uno straccio di motivazione. Il problema è che la notizia più censurata del nostro mondo - perché nei paesi arabi, in Asia, in Russia e in America Latina se ne parla a profusione - si è materializzata domenica scorsa con l'inaugurazione della Iranian International Petroleum Exchange nell'isola di Kish, paradiso off shore per gli iraniani ricchi e i petrolieri d'ogni paese. Alla borsa petrolifera di Teheran per un po' si scambieranno soltanto prodotti derivati e soltanto nella moneta iraniana, il rial, anche se l'ambasciatore iraniano in Russia, Gholam-Reza Ansari, si è affrettato a dichiarare che «in futuro saremo in grado di effettuare transazioni anche in rubli» e visto che «Russia e Iran sono due dei più grandi produttori mondiali di energia dovrebbero incoraggiare l'impiego di valute diverse dal dollaro per i loro scambi di gas e petrolio così da liberare il mondo dalla schiavitù del dollaro».

Arriva dunque a compimento un percorso avviato da un ministro del petrolio iraniano, Mohammad Asemipour, insieme all'ex direttore della borsa petrolifera di Londra Chris Cook, che nel 2005 hanno formalizzato il progetto istituendo un apposito consorzio. Lungi dall'essere mera espressione del solito antiamericanismo dell'establishment iraniano, la nascita di una nuova piattaforma per gli scambi petroliferi è considerata inevitabile dal punto di vista della logica del mercato. La debolezza del dollaro danneggia tutti i paesi che sono costretti a impiegarlo per acquistare energia - soprattutto gli europei che già possiedono una moneta forte - e penalizza chi lo vende, ma soprattutto costringe produttori e acquirenti a passare per gli unici due snodi mondiali, l'International Petroleum Exchange di Londra e il Nymex di New York, entrambi di proprietà delle corporation anglosassoni che si trovano così in una posizione di vantaggio del tutto inaccettabile dal punto di vista del dogma liberista. La mano invisibile del mercato non è poi così libera se il luogo delle transazioni più importanti del pianeta - quelle petrolifere appunto - è monopolio delle compagnie petrolifere e delle grandi banche (tutte anglosassoni) che stabiliscono i prezzi e la valuta di riferimento. Basti pensare che, dal 2001, il Nymex è di proprietà di un consorzio in cui spicca un gigante come Bp, sicuramente corretta nel gestire gli scambi ma decisamente propensa a favorire i propri azionisti.

A quanto pare gli strateghi di Teheran hanno abbandonato l'idea originale che era quella di lanciare una borsa petrolifera in euro, presumibilmente per evitare le bombe che sono piovute su Saddam dopo aver abbandonato il dollaro, ma anche nel timore di una destabilizzazione globale. Una borsa in euro sarebbe davvero la mazzata finale per un paese sull'orlo della recessione come gli Strati Uniti ma, al contempo, il peso dei mediatori sta diventando insostenibile, soprattutto in vista del famoso picco che è destinato a rendere il petrolio restante ancora più caro. Resta il fatto che, a un aumento dei prezzi dovuto all'incremento dei costi di estrazione del petrolio cosiddetto "difficile" bisogna aggiungere la debolezza della valuta statunitense e, soprattutto, i lauti guadagni dei traders - leggi speculatori - che fanno affari a Londra o New York. Non è un caso che la nuova borsa interessi infatti sia antiamericani convinti come l'Iran o il Venezuela sia grandi amici di Washington come la Francia, che spinge ufficialmente perché l'euro abbia un peso più forte negli scambi petroliferi internazionali.

La Repubblica islamica aveva fatto la sua mossa decisiva a dicembre, quando aveva annunciato che avrebbe accettato i pagamenti per il greggio anche in altre monete. Da qualche mese Teheran vende al Giappone (la seconda economia del mondo e grande importatore di petrolio) in yen, sta firmando contratti in riyal con il Qatar ed è in trattativa con gli Emirati Arabi, mentre Venezuela, Norvegia e Russia (tutti grandi esportatori) hanno già annunciato di essere pronti a passare all'euro. Se a questo si aggiunge il piccolo incidente che si è verificato durante l'ultimo vertice dell'Opec quando, attraverso un microfono erroneamente lasciato acceso, si è sentito il ministro degli Esteri saudita descrivere il declino del petrodollaro, ecco che il quadro si fa completo.

Insomma, a parte il valore simbolico che la borsa di Kish può avere per gli islamisti radicali di Teheran o per i nazionalisti bolivariani di Caracas, quello che gli analisti cercano di capire è se gli importatori europei e asiatici verranno risucchiati nell'orbita della nuova borsa petrolifera. E' abbastanza inevitabile che i paesi dell'Opec, così come i produttori del Caspio, vengano sedotti dai vantaggi di vendere a Kish: sottrarsi ai ricatti dei mediatori e non vedersi i ricavi rosicchiati dalla scivolata del biglietto verde. Dal canto loro ai paesi importatori - europei, cinesi e giapponesi - conviene certamente l'acquistare il greggio con gli euro, gli yen o perfino il reminbi (la moneta cinese) e lo dimostra il fatto che le banche centrali dei loro rispettivi paesi stanno già differenziando le loro riserve. A questo punto sorge spontanea una domanda: perché invece di limare di uno o due centesimi il prezzo del carburante lavorando sulle imposte, non abbracciamo con un po' di coraggio questo nuovo corso?