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United cruelty of Benetton

di Manuel Zanarini - 30/04/2008

 

 

 

 

 

La Benetton viene fondata nel 1965 a Ponzano Veneto (Treviso). Già nel 1968 viene aperto il primo negozio all’estero, a Parigi. Gli anni ’70 sono quelli del boom economico del “Nord-Est” e la società diventa una holding. Alla fine di quel decennio, l'azienda esporta il 60% della produzione. Nel 1978 è divenuta una società a responsabilità limitata. Il primo negozio a New York viene inaugurato nel 1980, in Madison Avenue. Segue il primo negozio a Tokyo (1982). Durante gli anni ’80, il gruppo si articola in quattro grandi divisioni (lana, cotone, jeans, capospalla) ognuna delle quali agisce in modo più o meno autonomo, anche se la notevole crescita dell'impresa mette a dura prova il sistema e le sue interconnessioni, sia interne che esterne. La parziale saturazione dei mercati e una concorrenza agguerrita mettono in difficoltà il gruppo, anche se la svalutazione della lira e la diversificazione produttiva gli permettono di superare il momento critico. Tanto che tra il 1986 e il 1989 il gruppo si quota alle borse di Milano, Francoforte e New York. Gli anni ’90 sono quelli della globalizzazione sfrenata, e la Benetton non si tira certo indietro, così inizia il processo di delocalizzazione della produzione. Per evitare contraccolpi di immagine, ricordiamo che è un’azienda che punta molto sul “marketing sociale” attraverso le campagne pubblicitarie finto-progressiste firmate da Oliviero Toscani, procede in tempi lunghi, finendo così per passare inosservata. Lentamente, ma progressivamente, sposta la produzione prima affidata a terzisti italiani, verso paesi in via di sviluppo o poveri dove la manodopera è economica ed i diritti sindacali sconosciuti: dal Maghreb e dalle più vicine aree dell'Europa orientale, senza tralasciare l'India, il Messico, la Turchia e l'Estremo Oriente, da dove si può penetrare in mercati particolarmente chiusi come gli Usa e il Giappone. Il gruppo gioca la carta di un prodotto dal costo "globale", ma i laboratori italiani, pur ridotti in numero, rimangono una necessità, essendo la base del just-in-time. Nel 1991 nascono le prime licenza in Cina e India e in questi anni nasce la rivista “Colors”, scritta in 4 lingue e diffusa in una trentina di Paesi. Oggi a capo di tutti c’è una finanziaria della famiglia Benetton, la Edizione Holding che detiene il 67% delle azioni. Tra gli azionisiti di minoranza l'unico a possederne una quota maggiore al 2% è Zenit Found che attraverso la sua controllata Zenit Asset Management AB ne possiede il 2,1%. L’attività è suddiviso in due grandi arre: abbigliamento casual e sportivo più accessori e scarpe; e la vendite di materie prime, semilavorati, servizi industriali e pubblicitari e dai proventi ed oneri immobiliari. Il “reparto” abbigliamento è solo una parte del “gruppo Benetton”, detiene vari marchi (United Colors of Benetton,Undercolors of Benetton, Zerododici of Benetton, Eyewear of Benetton, Sisley, Playlife, Killer Loop, Nordica, Zerotondo, Rollerblade,ecc.) e secondo le ultime stime produce oltre 110 milioni di capi l’anno. Ma le “proprietà di famiglia” spaziano anche in altri settori, dalla ristorazione (Autogrill, Spizzico, GS, Euromercato) alle “grandi opere” (Impresilo).

 

Come tutte le multinazionali che si rispettino, la storia della Benetton è piena di pagine vergognose.

Nell’Ottobre 1998 un servizio del Corriere della Sera a firma di Riccardo Orizio, denunciava che Bermuda, una fabbrica di Istanbul che lavorava per il licenziatario turco di Benetton, impiegava manodopera infantile (bambini di età inferiore ai 14 anni). Sfruttando gli incentivi della Cassa del Mezzogiorno, apre uno stabilimento nel Sud Italia, che si rivelerà una vera e propria opera di sfruttamento imperialista. A Pignattaro Maggiore, in provincia di Caserta, ha sede la Bertrand, una fabbrica tessile esistente fin dagli inizi degli anni ’90, ma a causa di una gestione economica “allegra” si trova in gestione commissariale. Sfruttando i finanziamenti della Regione Campania, circa 50 miliardi, la Benetton fiuta l’affare sia economico che di “marketing” (la buona impresa del Nord che porta aiuto ai quei poveracci del Sud) e apre un “sito produttivo”, col nome di Olimpias. Dopo due anni, gli impegni in termini di occupazione non sono rispettati, ovviamente però i finanziamenti se li è intascati, in compenso chi ci lavora conosce le pratiche che di solito associamo ai paesi poveri del pianeta: 18 macchine da controllare per corridoio (sei più che a Treviso!), ferie trasformate in giorni di "fermo macchina" gestite dall'azienda e ciclo continuo (compresa la notte). Ma ecco che uno dei reparti di lavoranti alza la testa e osa rifiutare il ciclo continuo ! Che fa allora il nostro mecenate?:prendi i soldi e scappa: se non accettano le sue condizioni minaccia di trasferire tutto a Gorizia!

Sempre nel Sud Italia, tra i paesi di Bronte e di Randazzo, in provincia di Catania, alcune indagini condotte dai carabinieri, mettono in luce casi di lavoro illegale (15 minori e 170 adulti) fra i laboratori tessili che producono per prestigiose aziende nazionali fra cui Benetton.

Ovviamente la politica “coloniale” di Benetton non conosce confini, così si segnala per alcune mostruosità anche fuori dai confini patri.

Tramite la Compania de tierras Sud Argentino SA, si è “appropriata” di 900.000 ettari di terra, dove vengono allevati circa 280.000 bovini, per la produzione della lana, da sempre abitata dal popolo dei Mapuche, confinandoli in una striscia di terra dove le famiglie sono costrette a vivere in condizioni di sovraffollamento, diventando, talvolta, manodopera a basso costo, ma sopratutto senza il rispetto delle ore di lavoro giornaliero. Non contenta, la multinazionale ,nei periodi di siccità, chiude con fili spinati l'accesso alle acque del Rio Lepa per darle alle proprie pecore, mentre molti indigeni muoiono per mancanza di acqua potabile.

Anche sull’acquisto delle materie prime, la Benetton si attiene alle politiche del Nuovo Ordine Mondiale delle multinazionali. Infatti oltre a quella Argentina, utilizza lana proveniente dall’Australia, ottenuta tramite il processo denominato “mulesing”. I simpatici allevatori australiani bloccano le pecore con delle barre di metallo e tagliare grossi lembi di carne viva dall'area perianale senza usare alcun anestetico. Gli allevatori affermano che questa pratica viene effettuata sulle pecore per prevenire che le larve di mosche infestino la pelle rugosa, una caratteristica fisica per la quale le stesse pecore sono appositamente selezionate e allevate.

 

Insomma, penso che il nuovo motto non dovrebbe essere “united colors of Benetton” (colori uniti di Benetton), ma più correttamente “united cruelity of Benetton”(crudeltà unite di Benetton)!

 

Manuel Zanarini