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Crac

di Federico Rampini - 02/10/2008

   
I crac finanziari e le crisi economiche sono stati eventi frequenti nella storia economica dell’Occidente. Federico Rampini ne traccia una lunga storia che parte dal crollo della Borsa di Amsterdam nel 1637, per giungere fino all’attuale crisi dei subprime, passando per quello che rimane il momento economicamente più critico del nostro secolo: il Black Tuesday del 1929.
Da allora, nonostante le politiche keynesiane e l’avvento del Welfare State, le crisi finanziarie si sono susseguite alimentate ogni volta dagli stessi meccanismi di speculazione. Secondo Rampini, le differenze principali fra i tracolli finanziari del passato e quelli attuali stanno nella maggiore rapidità e nel maggior impatto sociale dovuto al coinvolgimento degli investimenti delle famiglie.


Insolvenze, bolle, crisi finanziarie. Tremano le fondamenta dei santuari del capitalismo. Tra speculazioni e sfiducia l’Occidente si interroga su cosa occorre fare per evitare la catastrofe.
[...] Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo. Anzi, le loro origini risalgono al proto-capitalismo, visto che uno dei crac più celebri della storia fu il grande panico del febbraio 1637 alla Borsa di Amsterdam, quando dopo due anni di speculazioni forsennate crollarono di colpo le quotazioni dei futures sui bulbi di tulipani. La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crac più recenti è l’ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime. Si infittisce l’interconnessione tra tutti i settori dell’economia, e tra nazioni molto lontane. Cresce il risparmio popolare investito in strumenti finanziari, nonché la previdenza privatizzata che affida i suoi capitali alle Borse, alle banche, alle assicurazioni. Potenzialmente l’impatto sociale dei crac si fa quindi sempre più profondo: ma per la stessa ragione si è irrobustito l’armamentario delle politiche economiche per attutirne le conseguenze. Infine, grazie alle tecnologie, i crac di oggi hanno ritmi sempre più rapidi. Le crisi di una volta sviluppavano i loro sussulti nell’arco di molti mesi; oggi possono conoscere capovolgimenti straordinari in poche ore. Un annuncio fatto a New York si ripercuote in millesimi di secondo sugli indici di Shanghai e Tokyo, Londra e Mosca.
Visto che oggi l’epicentro di una drammatica crisi finanziaria è in America, va ricordato che la nascita stessa degli Stati Uniti fu tenuta a battesimo da un crac. Il primo presidente, George Washington, era al suo primo mandato quando dovette fronteggiare il primo panico finanziario. All’origine vi fu la spregiudicata speculazione sui titoli pubblici emessi durante la guerra d’indipendenza dagli Stati del Massachusetts e della South Carolina. Nel marzo del 1792 la “bolla” scoppiava, costringendo la neonata nazione a misure di emergenza. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton diede disposizione alle banche di accettare anche titoli scadenti come garanzie per far prestiti e sostenere l’attività economica: qualcosa di molto simile ai vari sportelli d’emergenza creati dalla Federal Reserve di Ben Bernanke in questi mesi per provvedere liquidità al sistema.
Se da oltre due secoli i crac in America colpiscono puntuali come gli uragani, anche la loro dimensione internazionale non è del tutto nuova. Centouno anni fa il grande panico del 1907 fu la prima crisi “globale” del Novecento. Nel solo mese di ottobre l’indice azionario di Wall Street perse il 37% del suo valore, in tutta l’America folle di risparmiatori diedero l’assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione, il sistema del credito rimase paralizzato per settimane. La “tempesta perfetta” di quell’anno ebbe per protagonisti dei giganti della storia, dal presidente Theodore Roosevelt al banchiere J.Pierpont Morgan. Le ripercussioni furono immediate e profonde anche in Europa, e l’Inghilterra dovette accorrere in aiuto agli ex sudditi americani con una spedizione navale di lingotti d’oro. L’eco di quegli avvenimenti non si è mai spenta. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la “maledizione del 1907” quando Wall Street subì un’altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell’indice Standard & Poor’s 500. Già nel 1908 il finanziere Henry Clews nelle sue memorie indicava tre cause principali del disastro dell’anno precedente che suonano familiari: «L’eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell’alta finanza».
Il crac più nefasto resta quello del 1929. Non solo per la violenza della caduta subìta dall’indice Dow Jones, che perse il 13% nella sola seduta del 28 ottobre, seguito dal botto finale nel successivo Black Tuesday, il 29. In realtà a fissare nella storia la gravità di quel crollo furono gli eventi successivi. Per gli errori commessi nella politica monetaria e nella manovra economica del presidente Herbert Hoover, il collasso di Wall Street contribuì a innescare una spirale di protezionismi, la caduta del commercio internazionale, infine la Grande Depressione. Nel 1931 la Borsa americana aveva perso l’89% del suo valore dai massimi del 1929 ma ben più gravi furono le conseguenze sociali. Il mondo intero fu prostrato dalla deflazione: i prezzi agricoli scesero del 40-60%, salari e produzione industriale precipitarono, il tasso di disoccupazione in America arrivò al 25% nel 1933. Quattro anni dopo il crac di Wall Street, nel 1933 in media mille americani al giorno subivano il sequestro giudiziario della loro casa per insolvenza. La miseria di massa e le tensioni sociali contribuirono all’avvento del nazismo in Germania. La gravità di quella crisi ispirò innovazioni di portata storica: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt pose le fondamenta del Welfare State, delle politiche keynesiane di sostegno dell’occupazione, dei grandi programmi di investimento statale nelle infrastrutture. Ma fu solo l’incremento di produzione bellica legato alla seconda guerra mondiale a “curare” definitivamente la più lunga recessione del XX secolo. Nel dopoguerra in America il crac più celebre fu quello delle Savings and Loans. Una crisi bancaria prolungata per anni. Fra il 1986 e il 1995 quasi la metà delle 3.234 casse di risparmio dovette chiudere per bancarotta. Nel 1989 il Congresso creò un’apposita agenzia federale, la Resolution Trust Corporation, per accollarsi le perdite, rimborsare i depositanti, assorbire i portafogli-titoli degli istituti falliti, e indagare sulle responsabilità del disastro. In quanto liquidatore fallimentare il governo federale si ritrovò temporaneamente proprietario dei più disparati oggetti che i clienti avevano fornito come garanzia alle banche per ottenere fidi: nella Resolution Trust Corp. finirono tra l’altro quadri di Picasso e Andy Warhol, una distelleria di whisky dell’epoca coloniale, e 800 boccette refrigerate di sperma di un toro Brahma da riproduzione. I crac più recenti sono ancora freschi nella memoria: gli scossoni provocati da choc internazionali come l’insolvenza del Messico (il crac dei Tequila Bonds nel 1995), la crisi finanziaria dei dragoni asiatici nel 1997, la bancarotta della Russia nel 1998. [...] Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una “bolla”, un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una “teoria” per dimostrare l’assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l’avvento della bolla successiva.