Come è morta la democrazia occidentale
di Thomas Fazi - 13/08/2025
Fonte: Krisis
In Germania, la polizia ha recentemente perquisito le abitazioni di centinaia di cittadini accusati di aver insultato politici o di aver pubblicato online “messaggi d’odio”. In Francia, la procura ha aperto un’indagine penale contro X, la piattaforma di Elon Musk, accusandola di interferenze straniere attraverso la manipolazione degli algoritmi e la diffusione di contenuti “d’odio”. Ciò è avvenuto dopo una perquisizione della polizia nella sede del Rassemblement National, il principale partito d’opposizione francese, in seguito all’apertura di una nuova indagine sul finanziamento della campagna elettorale, solo pochi mesi dopo che Marine Le Pen, ex leader del partito, è stata condannata a cinque anni di ineleggibilità per uso improprio dei fondi UE.
Nel Regno Unito, oltre 100 persone sono state arrestate semplicemente per aver portato cartelli con la scritta «Mi oppongo al genocidio, sostengo Palestine Action», organizzazione recentemente messa al bando per terrorismo. Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump sta attuando una vasta stretta sulla libertà di espressione, soprattutto relativamente alle critiche nei confronti di Israele.
Questi casi non sono eccezioni, ma sintomi di una deriva autoritaria più profonda e sistemica. In tutto l’Occidente, la censura è diventata prassi, il dissenso viene sempre più criminalizzato, la propaganda è sempre sfacciata e i sistemi giudiziari sono usati come armi per mettere a tacere l’opposizione. Negli ultimi mesi, questa tendenza è degenerata in attacchi diretti alle istituzioni democratiche di base: in Romania, per esempio, un’intera elezione è stata annullata perché aveva prodotto «l’esito sbagliato» e altri Paesi stanno valutando mosse analoghe.
Ufficialmente, tutto ciò viene fatto «per difendere la democrazia». In realtà, lo scopo è evidente: consentire alle classi dirigenti di mantenere il potere di fronte a un crollo storico della loro legittimità. Se ci riusciranno, l’Occidente entrerà in una nuova era di democrazia controllata – o solo nominale. Se falliranno, e in assenza di un’alternativa coerente, il vuoto potrebbe aprire la strada a instabilità, disordini sociali e crisi sistemiche. In ogni caso, il futuro della democrazia occidentale appare cupo.
Manifestazione di solidarietà pro-Palestina a Francoforte, il 3 febbraio 2024, con uno striscione recante la scritta: «Stop alla criminalizzazione della resistenza palestinese e della solidarietà con la Palestina». Foto conceptphoto.info (da Flickr). Wikimedia Commons. Licenza CC BY 2.0.
Gli avvertimenti su questo arretramento democratico guidato dall’alto non sono nuovi. Già nel 2000, il politologo britannico Colin Crouch aveva coniato il termine «post-democrazia» per descrivere il fatto che la democrazia in Occidente, pur conservandone gli aspetti formali, era diventata una facciata priva di sostanza. Secondo Crouch, le elezioni erano ormai spettacoli controllati, organizzati da professionisti della persuasione all’interno di un consenso neoliberale condiviso – pro mercato, pro impresa, pro globalizzazione – che offriva agli elettori ben poca scelta su questioni politiche o economiche fondamentali.
Crouch scriveva all’apice di quella che Francis Fukuyama aveva definito «la fine della storia»: la vittoria globale della democrazia liberale occidentale, sancita dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della Guerra Fredda. L’argomento centrale di Fukuyama era che, da allora in avanti, non ci sarebbero state sfide reali alla democrazia liberale e al capitalismo di mercato, considerati l’apice dello sviluppo sociale.
Per un certo periodo, la previsione si rivelò corretta. La sconfitta storica del socialismo aveva ridotto drasticamente lo spazio ideologico in Occidente, impedendo qualunque sfida strutturale al capitalismo e favorendo un modello di governance tecnocratico e depoliticizzato, sostenuto dal mantra “TINA” (There Is No Alternative): centralità del mercato, responsabilità individuale, globalizzazione.
Le proteste di sinistra dei primi anni Duemila – contro la globalizzazione o la guerra in Irak – non sono riuscite a tradursi in forza politica formale. Anzi, gran parte della sinistra post Guerra fredda, abbandonata la lotta di classe in favore di un identitarismo liberal-cosmopolita, ha finito per legittimare varie forme di «neoliberismo progressista»: un mix di retorica pseudo-progressista e politiche economiche neoliberali.
Sul piano geopolitico, l’egemonia statunitense ha permesso a Washington di imporre un «nuovo ordine mondiale» unipolare. Nel frattempo, trasformazioni economiche profonde avevano colpito il cuore dell’Occidente: il declino della manifattura tradizionale e del patto fordista-keynesiano, sostituiti da un’economia dei servizi, lavoro frammentato e precario. Nella maggior parte dei Paesi occidentali l’occupazione manifatturiera è calata fra il 30 e il 50%, frantumando la classe operaia come soggetto politico unificato.
Riunione straordinaria del Consiglio europeo, a Bruxelles, nel marzo 2025. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen è con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj e il presidente del Consiglio europeo António Costa. Foto Dati Bendo/ © Consiglio dell’Unione Europea. Licenza CC BY- SA 4.0.
Questa tendenza storica è stata esacerbata da politiche mirate a indebolire il potere contrattuale del lavoro (leggi anti-sindacali, flessibilizzazione del mercato del lavoro) e a promuovere consumismo privatizzato e apatia politica. Nel frattempo, i processi decisionali venivano sempre più sottratti alle pressioni democratiche, trasferendo prerogative nazionali a istituzioni sovranazionali e a burocrazie sovrastatali come l’Unione europea.
Ne è nata quella che alcuni hanno definito «post-politica»: un regime in cui lo spettacolo politico prospera, ma dove le alternative sistemiche allo status quo neoliberale vengono escluse a priori. Il giornalista americano Thomas Friedman ha descritto il regime neoliberale post-politico come un sistema in cui «le scelte politiche si riducono a Pepsi o Coca-Cola»: differenze di facciata all’interno di un quadro immutabile.
Sebbene la democrazia formale sia rimasta intatta, la democrazia sostanziale, intesa come reale capacità dei cittadini di incidere sulle scelte di governo, si è erosa drammaticamente. Senza un’alternativa sistemica, la politica e la democrazia sostanziale sono appassite, portando a un calo della partecipazione elettorale. E il potere reale si è concentrato nelle mani di una ristretta élite.
Nell’ultimo decennio e mezzo, la situazione è notevolmente peggiorata. il regime neoliberale si è ulteriormente irrigidito e radicalizzato. All’interno dell’Ue, con il pretesto della crisi dell’euro, istituzioni come Bce e Commissione Europea hanno ampliato i loro poteri, imponendo regole di bilancio e riforme strutturali al di fuori di qualsivoglia processo democratico.
Basti pensare a episodi come il «colpo di stato monetario» della Bce contro Silvio Berlusconi nel 2011, quando la banca centrale di fatto costrinse il premier a lasciare l’incarico ponendo la sua uscita come condizione per continuare a sostenere i bond e le banche italiane. O il ricatto finanziario nei confronti della Grecia di Alexis Tsipras. Considerati nel loro insieme, questi eventi hanno spinto alcuni osservatori a suggerire che l’Ue stesse diventando un «prototipo post-democratico», fortemente avverso sia alla sovranità nazionale che alla democrazia.
Le macerie lasciate dalla crisi e dalle politiche di austerità hanno alimentato, a metà anni 2010, le prime grandi rivolte anti-establishment del secolo: Brexit, Trump, i gilet gialli, l’ostilità crescente verso Bruxelles. Ma queste ondate di proteste sono fallite, assorbite o neutralizzate dall’establishment, mediante repressione e contrattacchi ideologici.
Manifestazione dei gilets gialli a Belfort, il 19 gennaio 2019. Foto di Thomas Bresson. Wikimedia Commons. Licenza CC BY 4.0.
In questo senso la pandemia, al di là dell’emergenza sanitaria, può essere interpretata come un evento che ha accelerato la centralizzazione autoritaria del potere. I governi hanno gonfiato il pericolo del virus per sospendere procedure democratiche, militarizzare la società, limitare la libertà civili e introdurre misure di controllo senza precedenti, paralizzando le spinte populiste della fine degli anni Dieci.
La guerra Russia-Ucraina ha riportato alla ribalta dinamiche simili: dissenso etichettato come «propaganda nemica», voci critiche censurate o sanzionate. Pochi mesi fa, l’UE ha compiuto un passo senza precedenti, sanzionando tre suoi cittadini con l’accusa di fare presunta «propaganda filo-russa».
Allo stesso tempo, stanno emergendo nuove minacce populiste, soprattutto di destra. Ma finora neanche queste sono riuscite a scalfire lo status quo, in parte perché le élite occidentali, impopolari e delegittimate, hanno adottato forme di repressione sempre più sfacciate per influenzare i risultati elettorali.
Il caso rumeno ha segnato una svolta: con l’appoggio di Nato e Ue, è stata annullata un’intera elezione presidenziale, successivamente squalificando il candidato populista, con accuse non provate di interferenze russe. Queste misure repressione vengono giustificate come misure necessarie a difesa della democrazia da presunte minacce interne (i populisti) ed esterne (i nemici stranieri). Ma appare sempre più evidente che il vero obiettivo è blindare il potere delle élite.
Resta però una domanda: posto che oggi la democrazia occidentale – sicuramente da un punto di vista sostanziale e sempre più anche da un punto di vista formale – versa in uno stato comatoso, possiamo davvero affermare che la democrazia dell’epoca pre-neoliberale fosse una «vera democrazia»? Per un periodo relativamente breve – dal Dopoguerra agli anni Settanta – abbiamo senz’altro conosciuto una forma di democrazia più sostanziale di quella attuale.
Agenti di polizia a Trafalgar Square, Londra, il 14 ottobre 2023, durante una manifestazione pro Gaza. Foto Wikimedia Commons via Flickr. Licenza cc-by-sa-2.0.
In quegli anni, le classi lavoratrici sono state integrate per la prima volta nei sistemi politici occidentali, ottenendo un’estensione senza precedenti diritti sociali, economici e politici in un contesto di forte politicizzazione di massa. Detto ciò, non bisogna nemmeno cadere nella tentazione di idealizzare eccessivamente quel periodo. È fondamentale riconoscere che anche allora la democrazia, nella sua accezione sostanziale, rimaneva fortemente limitata.
Sebbene le élite al potere si siano trovate costrette – sotto la pressione dei movimenti popolari, della Guerra fredda e del timore di rivolte sociali – a estendere il diritto di voto e a riconoscere una serie di diritti politici e sociali, non lo fecero certo di buon grado. Al contrario, furono spesso animate dal timore che l’ingresso delle masse nel processo democratico potesse tradursi in una minaccia reale per l’ordine sociale costituito, ovverosia che i lavoratori usassero la democrazia per sovvertire i rapporti di potere.
Contrariamente alla retorica secondo cui tali meccanismi sarebbero serviti a «difendere la democrazia da se stessa», la loro funzione storica è stata un’altra: tutelare gli interessi della classe dominante dalla «minaccia» della democrazia, impedendo che l’eventuale volontà popolare potesse tradursi in trasformazioni sostanziali degli assetti di potere esistenti.
Nel frattempo, a partire dagli anni Sessanta, in tutti i principali Paesi occidentali, le istanze di maggiore democratizzazione dell’economia e della politica – avanzate da movimenti operai, studenteschi e popolari – furono sistematicamente contenute, neutralizzate o apertamente represse.
Laddove la partecipazione politica dal basso rischiava di mettere in discussione gli equilibri consolidati, le élite reagirono con una combinazione di repressione poliziesca, delegittimazione mediatica e riassetto istituzionale, al fine di riaffermare il controllo sul processo decisionale e impedire che la democrazia si estendesse a sfere considerate «intoccabili», come quella economica.
Allo stesso tempo, gli «Stati profondi» occidentali – composti da apparati militari, di intelligence e di sicurezza – esercitavano già allora un’influenza significativa dietro le quinte, generalmente sotto la direzione strategica degli apparati di sicurezza statunitensi. Questa influenza si manifestò, per esempio, attraverso una serie di operazioni clandestine, che includevano anche attività di destabilizzazione e, in alcuni casi, vere e proprie azioni terroristiche, generalmente orientate a contenere l’ascesa delle forze di sinistra.
In Europa, il caso più noto è quello di Gladio, una rete paramilitare segreta sotto l’egida della Nato, coinvolta in numerose attività occulte – inclusi attentati attribuiti a gruppi della sinistra radicale – con l’obiettivo di creare un clima di paura e giustificare misure repressive. In alcuni casi, queste operazioni sono state collegate anche a omicidi politici di alto profilo, contribuendo a orientare l’opinione pubblica e l’agenda politica in senso conservatore e anticomunista.
Logo dell’associazione Stay-Behind Creato da Massimiliano Covella. Wikimedia Commons. Licenza CC BY-SA 4.0.
Per questo motivo, accanto alle concessioni, furono introdotti – o mantenuti – una serie di vincoli, limiti istituzionali e dispositivi di contenimento volti a contenere o neutralizzare il potenziale trasformativo della partecipazione popolare. Il suffragio universale fu così accompagnato da meccanismi politici, economici e culturali pensati per arginare l’impatto della democrazia sostanziale e garantirne un controllo dall’alto. Ad esempio, i moderni sistemi costituzionali posero limiti ben definiti alla sovranità popolare, ovvero a ciò che può essere deciso democraticamente attraverso il voto.
Nonostante ciò, per un certo periodo, il potere delle masse organizzate riuscì effettivamente a contenere, più di quanto fosse mai accaduto prima, la forza organizzata dell’oligarchia. Tuttavia, questo equilibrio era strettamente legato a specifiche condizioni economiche e sociali: l’esistenza di grandi concentrazioni industriali, economie fortemente incentrate sulla manifattura e forme di lavoro relativamente omogenee e sindacalizzabili.
A partire dagli anni Settanta, queste condizioni iniziarono a sgretolarsi, per cause in parte strutturali (legate ai processi di deindustrializzazione e globalizzazione), in parte politiche (legate all’offensiva neoliberale). Il punto decisivo, però, è che da quel momento abbiamo assistito a una graduale polverizzazione della classe operaia come soggetto politico unificato, con conseguente indebolimento irreversibile della sua capacità di incidere sull’agenda politica.
Dunque, fin dai primi giorni della moderna democrazia liberale, le classi dirigenti hanno operato attivamente per delimitare il campo della democrazia entro i confini di una politica considerata accettabile. Questo è avvenuto sia in modo aperto – attraverso la repressione dei movimenti operai, studenteschi e popolari – sia in modo più occulto, tramite campagne di infiltrazione, disinformazione e, in casi estremi, azioni violente e persino assassinii politici.
Manifestazione edili a Roma, nel 1972. Foto Fillea Roma e Lazio, caricata su Flickr. Licenza CC BY-NC-ND 2.0.
Questo processo ha aperto la strada a una vera e propria controrivoluzione dall’alto, volta a smantellare le conquiste, pur parziali, ottenute dalle masse nei decenni precedenti. Qui diventa rilevante il concetto di «stato di eccezione» di Carl Schmitt: la sospensione delle garanzie costituzionali per imporre decisioni che sarebbero impossibili attraverso i normali canali democratici. Ma, come ricordava oltre 20 anni fa il filosofo italiano Giorgio Agamben, questo stato di eccezione è ormai diventato permanente in Occidente. Il che, ovviamente, rappresenta un paradosso: se è permanente non è più, per definizione, uno stato di eccezione.
Il futuro, purtroppo, appare cupo. Le condizioni che avevano reso possibile quella breve stagione di democrazia sostanziale sono svanite e difficilmente torneranno. In questo senso, possiamo affermare che la democrazia sostanziale sia morta. Eppure, il disfacimento dell’ordine geopolitico occidentale – con l’emergere di un mondo multipolare guidato anche da potenze come la Cina – segna un passaggio politico ed economico cruciale.
Il declino dell’egemonia occidentale sta indebolendo le sue élite nazionali. E la perdita di influenza globale alimenta il malcontento interno, soprattutto in presenza di crescenti e sistemiche disuguaglianze.
Questo crollo sta mettendo a nudo le debolezze strutturali del sistema occidentale: venuta meno la stabilità geopolitica e il predominio economico che per decenni hanno attutito o nascosto tali tensioni, le élite occidentali si trovano ora esposte a sfide per le quali appaiono sempre meno attrezzate, non solo sul piano della legittimità, ma anche su quello della capacità di gestione politica e sociale.
Tale disfacimento apre potenzialmente lo spazio per l’emergere di un nuovo ordine che potrebbe andare ben oltre una semplice riconfigurazione del potere geopolitico: potrebbe segnare l’inizio di una reinvenzione radicale dei sistemi politici ed economici nel loro complesso.
Ma questo nuovo inizio richiederà un ripensamento radicale non solo del modo di fare politica, ma anche dello stesso concetto di democrazia, andando oltre le forme svuotate e rituali della democrazia liberale. Citando Antonio Gramsci, si può dire che il vecchio ordine sta crollando, ma il nuovo non è ancora nato. In questo vuoto, può accadere di tutto.