Karma e Kurtz
di Lorenzo Merlo - 12/08/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
Cosa non è il karma. Cosa dice il colonnello Kurtz.
La visione persistente di se stessi, titolari, indiscussi per inconsapevolezza di sé, di un certo ruolo, è una forza che tende, effettivamente, alla realizzazione di se stessi sempre immaginata e – motivazione permettendo – a mantenerla una volta raggiunta. Così, per qualunque campione umano, si potrà trovare una continuità di allenamento di tutti gli elementi necessari allo scopo.
Tutto ciò, tanto nel meglio quanto nel peggio. Un’idea sottomessa di sé sarà una forza che ci tiene giù, che non spinge in alto. Solo un eventuale aggiornamento solare delle proprie visioni di sé, potrà generare le forze per ritrovarsi in contesti non più arrendevoli.
Nel bene e nel male, motivazione permettendo, l’allenamento mantiene e migliora lo standard del fare. È una verità spirituale, che possiamo riscontrare anche attraverso l’osservazione del comportamento del corpo di un essere vivente, in particolare dei mammiferi, con facilità nell’uomo. Solo a mezzo di orientamento spirituale permanente, quanto si pensa – anche inconsapevolmente – di sé, ciò che si vorrebbe o si crede di essere, corre il massimo rischio di realizzarsi.
Il contatto con un agente esterno, che diviene nocivo in funzione del terreno su cui si posa, è per il corpo un’informazione tanto sottile quanto materiale, che mette in essere una reazione delle sue strutture biologiche e metafisiche. Queste, concepite come due separate entità solo secondo la modalità analitica della scienza, potranno o meno rendere innocuo l’ospite, in funzione del grado di consapevolezza e di intossicazione in noi disponibile. Tanto più potremo risalire alle cause che ne hanno permesso l’attacco, tanto più potremo disporre della migliore difesa. Non solo. Tanto più potremo riconoscere la nostra responsabilità, tanto più, ulteriormente, alzeremo il potere difensivo che è in noi.
In questo contesto, tra questi argomenti e queste prospettive che coinvolgono il soggetto in merito alle responsabilità della malattia, malessere e inconveniente, che non considerano una vittima casuale inerte e pure sfortunata, fanno testo le emozioni violente che possono averci travolti soffocando l’io di cui disponevamo, lasciandoci al centro di una terra bruciata dove nessun soccorso organizzato può venire in aiuto e dove le difese si riducono fino ad azzerarsi.
Dicevamo, un’informazione tanto sottile quanto materiale... Sottile, in quanto energetico, vibrazionale, emozionale. Materiale, in quanto il corpo somatizza il significato di quelle vibrazioni. Quindi anche simbolico, per chi lo sa intelligere, in quanto dall’aspetto materiale e dalla sua localizzazione nella persona, si possono cogliere la natura della persona stessa, i suoi punti oscuri, le consapevolezze di cui non dispone e quindi il relativo gradiente di difesa, che, a questo punto, è opportuno chiamare relazione con sé e il mondo, intesi come un’unità.
È il potere della cosiddetta epigenetica, a mio parere meglio configurabile con la persistenza cronica di un’emozione che lentamente genera la sua dimensione materiale, che va a raccogliersi e depositarsi nell’archivio generale detto Dna. Così gli uccelli e le prede si alzano in volo e fuggono allo scoppio, gli uomini usano la forza, senza la quale si sentono impotenti, le donne l’astuzia e hanno una resilienza superiore.
Il contatto con l’agente avvenuto con l’assunzione di un vaccino non è assimilabile alla processione di esperienze utili al mantenimento della specie, anzi. Il valore epigenetico relativo all’assunzione di vaccinazioni rema contro la crescita e il mantenimento del sistema immunitario.
Il potere delle vaccinazioni è, invece, della medesima natura dell’informare, dell’insegnare, del formare o condizionare qualcuno in funzione delle proprie esperienze e convinzioni. Una dinamica nella quale il soggetto destinatario – anche se stimolato al pensiero critico, necessariamente entro l’ordinamento che gli si sta impartendo – è passivo. La sua opera – fisica e metafisica – creativa è assente. Il suo potere naturale – nella natura c’è tutto il necessario a se stessa, quindi all’uomo – viene castrato. La natura viene indebolita. La vanità umana, travestita da opera di bene, viene alimentata. Il sistema di sopravvivenza della specie viene disorientato, al pari di quello di orientamento dei pesci, dei cetacei e delle tartarughe in stretta relazione con la rete di energia tellurica, che viene imbrattata dagli inquinamenti elettronici di origine antropica.
Le reazioni del sistema immunitario, relative alla modalità provocata e a quella spontanea, potrebbero avere una corrispondenza spirituale con il potere intellettuale-razionale per la prima e estetico-emozionale per la seconda. L’esperienza non è trasmissibile, indurla a suon di inoculazioni, di qualunque genere si voglia, in contesto socio-politico fa il pari con l’esportazione della democrazia, con l’imposizione-coercitiva in quello pedagogico.
Nella nostra cultura la modalità intellettuale è ordinaria e considerata superiore a quella del sentire, estetica, del corpo. In essa il capire ci appare come il maggior acuto umano possibile. Ne consegue un procedere che pone al centro la dialettica dei concetti. È un criterio uniformatore e meccanico che lascia l’uomo e i suoi universi ai margini. La maggioranza lo rispetta pedestremente e giudica il prossimo in funzione della dimostrazione di replica che questo è in grado di fornire.
Tuttavia, se il concetto in questione è ricreato, ovvero esperito come culmine di un percorso individuale, implica la disponibilità a poterlo impiegare nelle innumerevoli e improvvise occasioni secondo la condizione creativa del momento, che sarà tanto più libera tanto meno i condizionamenti delle consuetudini l’avranno costretta.
Ne deriva che, senza esperienza diretta della ricreazione, resteremo prede della rete offertaci dall’ambiente culturale e circostanziale in cui viviamo.
Quando il corpo fa conoscenza di un surrogato del virus, sul lungo periodo pregiudica la resistenza della vita stessa. A questo argomento, individualisti, materialisti e scientisti reagiscono celebrando il valore egoico della vita individuale. Azzannati dai concetti che hanno imparato e replicano senza sosta in un teatro dell’esistenza sempre tutto esaurito – come se la rappresentazione fosse altro da noi – non hanno modo di cogliere come la loro scienza stia indebolendo la specie a favore di un suo campione. Del suo vergognoso criterio separatorio-analitico-scompositivo, ma guai a criticarlo, supportato da un moralismo ad essa colluso, ne sono riflesso la chirurgia dei trapianti e quella estetica.
Moralismo che non elegge la vita ma la vanità umana, che annacqua la rete di relazioni che fanno della natura un organismo. Quest’ultima, così indebolita, non potrà che ridurre la sua forza e la sua conoscenza, necessarie alla sua stessa sussistenza.
Si può raggirare impunemente la natura? Lo pensi davvero? Come fa a mantenere costanti le percentuali di maschi e femmine senza neanche un sussidiario della scienza che le dica come?
Se, ordinariamente, come fanno tutti gli organismi, da una sua espressione/esperienza endogena eccezionale, che sia animale, minerale o vegetale, essa trae informazioni utili, quando queste divengono anomalie esogene la sua bussola viene disturbata, alzando così il rischio di collassi e cortocircuiti imprevedibili, altrimenti tendenzialmente improbabili.
È quanto avviene a una persona coinvolta in circostanze fuori dal suo ordine abituale, per la quale il rischio di instabilità e malattia tende a elevarsi.
Così, nella convinzione che il principio di causa ed effetto corrisponda a una legge universale e non semplicemente a un mondo e a una realtà esaurita e schiacciata nella dimensione logica-meccanica-materiale – buona per replicare e amministrare il finito, ma invalida per creare e liberare l’infinito – il karma viene egoicamente concepito come un filo rosso che collega le nostre misere vicende. Tutte regolarmente travisate, storpiate, violentate dalla nostra interessata – sebbene inconsapevole – interpretazione. Tutte erano state giuste o ingiuste, tutte sono passate al pedante e ottuso vaglio del senno di poi al fine di restituirci il senso coerente a noi stessi, di mantenere e rinforzare la struttura dell’io, ciò che crediamo di essere. Una dinamica karmica siffatta è molto simile al Pater noster imposto dal confessore per la remissione dei peccati. Tuttavia, non è meccanica la questione del karma.
Ed è proprio meccanicisticamente pensando che la semantica sottile, e il relativo suo potere evolutivo, viene obnubilata, come qualunque altra azione umana impigliata e imbrattata da interesse personale, e perciò slegata dalla natura, dal cosmo.
Un karma in forma di causa effetto corrisponde alla vulgata del concetto. Restare legati a questa prospettiva è seguitare a correre nel vicolo cieco della conoscenza. Concepirla invece come flusso energetico, che, come un rio, sfocia nel mare del tutto, ci offre il movente per riconoscere la nostra responsabilità su come va il mondo, e quello per agire secondo amore, non più per bieco suprematismo individualista.
Consumando un’esistenza vincolati al giogo dell’importanza personale, tronfi o succubi della propria – ma quale propria? – personalità, il corrispondente spirito egoico che incarniamo, dopo la morte fisica del corpo, tornerà ad animare altre esistenze finché una di queste realizzerà – incarnerà – le consapevolezze utili alla liberazione dal samsara o ciclo delle rinascite, ovvero della sofferenza. Allora quello spirito non avrà più bisogno di un corpo in cui stare.
È una bufala? Può darsi. La questione è un’altra: non cambia nulla se tale descrizione dell’emancipazione dalle strutture dell’ego è solo una descrizione fantastica. Il suo valore sta nell’essere simbolicamente un espediente motivatore per il bene. Fa ridere? Sì, molti, moltissimi ridono, forse perché, obnubilati da quel giogo, non hanno visto nelle loro personali relazioni come il male si perpetua o, viceversa, come si risolve nel bene proprio nel momento in cui l’esaltazione egoica viene messa a tacere e il perdono, o il semplice lasciare perdere, entra in campo, e la sofferenza, di qualunque gradiente sia, non ha più terreno in cui riprodursi.
Dunque, la cosiddetta legge del karma mostra il modo in cui la sua dinamica aleggia su noi solo quando sentiamo il potere dell’amore incondizionato – quello che, per chi ancora ride, è sperimentato da tutti, in particolare dai genitori verso i figli – dell’appartenenza al cosmo, della condivisione del prossimo, del giogo delle consuetudini, delle abitudini e della realtà certa, quella da noi descritta.
Essere vincolati all’ego è di pari vischiosità all’essere legati a un’ideologia, a un’ossessione, a una passione. Finché si guarda il mondo beandosi delle differenze tra sé e ciò che osserva, non c’è scampo. Le forme sono infinite, se ne troveranno sempre, come le strade di un labirinto geniale. È, invece, riconoscendo le identiche dinamiche imposte dall’io, che si può trovare la via di uscita dalla sofferenza, o riconoscere come questa si genera.
Un karma energetico, come sostiene il buddhismo, comporta la liberazione dal ciclo del samsara, quello che i cristiani chiamano inferno.
Ce lo hanno fatto presente in tanti, dai Veda, al Buddha, al Cristo e anche successivamente, e pure i nostri contemporanei, tra cui l’orrore del colonnello Kurtz. (1)
Per chi non ha orecchie per intendere, quell’orrore appare solo quando il sipario della vanità e dell’arroganza si alza, mostrando le ombre platoniche che avevamo creduto realtà, per le quali, senza interrompere la nostra superbia, avevamo interrotto lo scorrere della nostra bella morale e ci eravamo permessi di tutto.
Note
1. https://www.facebook.com/lafinestrasulcinema/videos/i-monologhi-del-cinema/1401308153397967/