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Quinte colonne e piccoli inquisitori

di Franco Cardini - 10/11/2008

Spetta a uno splendido apolide d’origine russa e di nazionalità prima francese quindi russa, Vladimir Volkoff, l’aver impareggiabilmente descritto nel suo romanzo L’interratoire la tecnica inquisitoria in uso nel sistema sovietico: quella che ebbe come suo massimo esponente un genio dell’accusa tanto implacabile quanto bugiarda, il grande Andrej Januar’evich Vishinskij, sempre imitato e mai eguagliato protagonista delle “purghe” staliniane. Volkoff ne descrive a meraviglia la tecnica: si tratta di non addurre mai prove (specie quando obiettivamente non ce ne siano), ma di accumulare sull’imputato particolari magari eterogenei, accorpando accuse durissime e dirette ma anche sospetti generici, indizi colorati ma insignificanti, particolari estranei alla questione dibattuta, coincidenze, spezzoni di vita privata, fino a comporre un quadro del tutto incongruo ma avvolgente, coinvolgente, in un certo senso irrefutabile.

Al pari di Thomas de Torquemada, Andrej Vishinskij ha tuttavia la sfortuna di aver attratto l’attenzione d’una miriade di piccoli e talora miserabili imitatori. Di questi tempi, chi viva nel nostro felice Occidente, e in particolare nel Bel Paese, se non è allineato e coperto nei ranghi della maggioranza o dell’opposizione istituzionale, chi non ha a disposizione speciali mezzi massmediali per far valere le sue ragioni e nonostante ciò non rinunzia né alla sua libertà né al suo diritto di critica, può venir fatto oggetto delle fastidiose e un po’ repellenti attenzioni di questi inquisitori in sedicesimo. I quali a quel che pare riescono abbastanza spesso, se non proprio a farsi iscrivere sui Libri-Paga di chi conta, quanto meno a ottenere qualche lavoretto più o meno sporco: tipo calunnia, denigrazione e via discorrendo. A me, càpita abbastanza sovente di venir punto da questo tipo di zanzara. Fa parte del costo della libertà, quando si decide di non entrare nel mean stream del conformismo.

Alla vigilia della presa di Madrid, alla fine dell’inverno del ’39, un giornalista chiese al generale nazionalista Emilio Mola quale delle quattro colonne militari che stavano convergendo sulla capitale l’avrebbe conquistata. “La Quinta Colonna”, rispose il militare, alludendo a quanti, in silenzio e nel segreto, stavano preparando l’insurrezione dall’interno (fra perentesi, non andò così). Per appartenere a una “Quinta Colonna” bisogna pertanto stare all’interno di una città o di un paese assediato e lavorare in silenzio, facendo il sobillatore e la spia.

Se non c’è uno stato di guerra, e se si parla a voce alta magari per sostenere pareri minoritari, non si può – per definizione – essere “Quinte Colonne” di un bel niente e di un bel nessuno. Ma questi sono particolari minimi, che possono ben essere trascurati da chi abbia ricevuto il còmpito, da una tribuna che si sente ben sicura e che sa o ritiene d’appartenere a una forte e schiacciante maggioranza, di denigrare sistematicamente chiunque sostenga opinioni fuori-schema. Specie, e soprattutto, se le appoggia a buoni argomenti.

E’ quindi accaduto che un piccolo Vishinskij, qualificato peraltro nientemeno che come “inviato speciale” (!) di un settimanale distribuito al giovedì insieme con un quotidiano milanese, abbia scovato nientemeno che le “Quinte Colonne” del regime iraniano in Italia, la Radio Ayatollah che evidentemente lavora nell’ombra per consegnare la nostra patria ai tiranni di Teheran. I fortunati lettori di tale periodico sono quindi venuti a conoscere, nel numero del 30 ottobre, le Frequenza pericolose. Le quinte colonne del regime iraniano. Come possano essere Quinte Colonne se non siamo in guerra con l’Iran, e se esse non lavorano in segreto ma al contrario hanno nomi e cognomi, e parlano, e rispondono delle loro opinioni, sfuggirà ai più: ma nel Sistema della Menzogna tutto ciò conta poco, anzi nulla. Il rispetto della verità e quello delle persone su cui si parla, anche se e quando siano da considerarsi avversari, sono dimensioni sconosciute a certi indefessi difensori della democrazia occidentale. Non si tratta, evidentemente, di valori democratici.

Ed eccole all’opera, allora, queste Quinte Colonne. Parlano da una radio iraniana che trasmette in italiano due ore al giorno. E di che cosa? Ecco qua: “Calunniano Israele, attaccano l’America e negano l’11 settembre”. Lo scoop ha evidentemente, guarda caso, “fatto notizia”. L’ha raccolto nientemeno che “Il Corriere della Sera”, che gli ha tempestivamente dedicato un articolo quello stesso 30 ottobre.

Fra le “Quinte Colonne” di Teheran c’è naturalmente Franco Cardini, che sarebbe un “famoso negazionista dell’11 settembre” ( ?) e che avrebbe “giustificato” l’uccisione dei nostri militari in Afghanistan; si tratta di un “accademico con le idee un po’ confuse” al quale indirettamente si attribuisce anche l’epiteto di “sanguinoso” (nel senso ovviamente di “sanguinario”: ma via, perdoniamo volentieri qualche confusione lessicale a un giornalista, anzi a un Inviato , per giunta combattente di una Nobile Battaglia per la Verità...) .

Naturalmente, siamo dinanzi a un miscuglio di eterogenee mezze verità messe insieme secondo il metodo e lo stile del Vishinskij, ma senza il suo genio. Va da sé che io, con Radio Teheran, non c’entro nulla. I suoi redattori mi hanno telefonato due o tre volte chiedendomi pareri su varie cose, tra cui mai su Israele. Non ho particolare simpatia per il signor Akhmedinejad, cui avrei senza dubbio preferito Kathamy al quale gli occidentali hanno a suo tempo fatto una guerra spietata, favorendo così l’ascesa del suo rivale fondamentalista. Ho risposto ai giornalisti iraniani, sempre gratuitamente e senza assumere alcun impegno con loro, perché ho sempre osservato la regola di dialogare con chiunque mi chieda pareri storici o politici: non ho nulla da nascondere e non credo che al mondo esistano lebbrosi intellettuali indegni di dialogo solo per le idee che sostengono. Siccome la realtà iraniana è – nel bene e nel male – poco nota agli italiani, ho provveduto insieme con gli amici Marco Tarchi e Danilo Zolo, con i quali condivido la direzione della collana “Ordine e Caos” dell’editore Jouvence, a far pubblicare il libro L’Iran e il tempo. Una società complessa (2008), che cerca di far onestamente il punto su alcune questioni meritevoli d’attenzione. Credo che il contributo di uno studioso serio al dibattito nel suo apese si debba condurre in questo modo, senza calunnie e senza forme di terrorismo giornalistico.

Ma andiamo avanti. Non so che cosa sia il “negazionismo sull’11 settembre”: ho esposto in più occasioni i miei dubbi sulle ricostruzioni ufficiali di quel tragico episodio solo perchè di esse v’è motivo di dubitare: punto e basta. Oltre che con la mia partecipazione ad alcune pubblicazioni a più voci, ho espresso responsabilmente quel che pensavo al riguardo, fornendone le prove, nei due libri Astrea e i Titani e La fatica della libertà. Li ha letti l’Inviato, prima di accusarmi? O ha preferito risparmiare le sue preziose forze intellettuali affidandosi al calomniez, calomniez con quel che segue?

Ancora. A proposito dei nostri soldati caduti in Afghanistan o altrove, non nutro per loro se non rispetto e riconoscenza: sono caduti in missioni ufficialmente condotte dal nostro paese. Ciò non toglie tuttavia che tali missioni io non approvi, che non abbia alcuna intenzione di coprire con il mio assenso chi li ha mandati a morire in una causa che stimo ingiusta, e che non me la senta di condannare con la sbrigativa etichetta di “terroristi” quanti, nel loro paese, prendono le armi contro un’occupazione straniera; va da sé che l’idea che i nostri soldati siano tra gli occupanti di un paese che non li ha mai attaccati, in un’invasione nata dietro falsi e pretestuosi motivi, non mi fa per nulla piacere. Ma la responsabilità della loro tragica scomparsa ricade su chi li ha inviati laggiù: che sono poi persone molti vicine a chi finanzia il giornale sul quale scrive l’Inviato. Si faccia quindi lui per primo un bell’esame di coscienza, prima di accusare gli altri: chi è che manca davvero di rispetto a quei caduti? Del resto l’Inviato, pur scrivendo su un giornale che si dice cattolico, ha evidentemente poca dimestichezza con la differenza canonica tra ius in bello e ius ad bellum e ignora che si possano e si debbano rispettare i caduti del proprio paese ma al tempo stesso si abbia il diritto di denunziare che essi stanno combattendo una guerra ingiusta. In tale situazione, si sono trovati milioni di cittadini italiani durante la seconda guerra mondiale. Sarebbe questo avere “le idee un po’ confuse”?

Su altre cose, l’Inviato esprime del resto pareri che, al di là della sua immagine morale, qualificano bene anche quella intellettuale e al sua conoscenza della storia. Come quando ironicamente rimprovera all’islamista Scarcia Amoretti una sua supposta visione irenistica dell’Islam: “...quei pacifisti che si sono limitati a smontare l’Impero Romano d’Oriente, conquistare Sicilia e penisola iberica, occupare i Balcani e mettere l’assedio a Vienna”. Ebbene, se episodi accaduti nell’arco di circa un millennio vanno tutti messi in conto, genericamente e indiscriminatamente, all’Islam, si rende conto l’inviato di un periodico sedicente cattolico di darsi la zappa sui piedi? Che cosa mai si potrebbe dire, se con altrettanta malafede si mettesse col suo stesso sistema sul conto del cristianesimo i massacri dei pagani nel IV-VI secolo, dei germani e dei balti tra VIII e XIII, degli indios e dei Native Americans tra XVI e XIX, lo schiavismo e gli innumerevoli crimini del colonialismo? Non erano forse perpetrati spesso da gente con la Bibbia in tasca? Via, non scherziamo.

Non ho comunque intenzione di polemizzare né con l’Inviato, né col foglio che lo invia. A chi si abbassa a discutere a certi livelli e con certi metodi, si può solo rispondere – quando ne valga la pena – con le armi della citazione in giudizio.

Diverso è il discorso relativo a colleghi che stimo anche amici, al di là della differenza di opinioni. Si può essere amici e litigare ferocemente: e ciò nonostante mantenere intatti stima e rispetto. Mi dicono che, a un meeting romano sempre di fine ottobre organizzato per sostenere Barak Obama, l’amico e collega Massimo Teodori – che mi conosce da più di trent’anni - mi ha attaccato aspramente, e proprio sulle non troppo solide basi delle calunnie giornalistiche di cui sopra, definendomi “parafascista”. Non ero personalmente presente all’evento: quindi, se esso è accaduto in termini differenti da quelli che mi sono stati riferiti, me ne scuso in partenza e ritiro tutto. Altrimenti, sia chiaro che non accetto un linguaggio simile da un collega con il quale ho più volte polemizzato, anche duramente ma sempre lealmente, e sempre mantenendo corretti e cordiali rapporti: ricorderà che anche di recente ci siamo visti e salutati con reciproco calore. Io leggo le sue cose, e sono un po’ divertito ma per nulla stupito per il fatto che adesso, dopo otto anni di accanita difesa della politica bushista, egli abbia optato per Obama: del resto, su ciò sono d’accordo con lui, anche se per ragioni differenti dalle sue. Congratulazioni vivissime dunque, dalla sponda di uno che sa solo stare con le minoranze, all’abilità di chi riesce sempre a schierarsi col vincitore. E’ senza dubbio più comodo e redditizio. Ma credo che anche lui legga le mie cose, perché quando gli fa comodo ne cita alcune, magari estrapolando: e allora dovrebbe sapere benissimo che con le mie idee e il mio passato ha fatto ripetutamente i conti (cito almeno tre libri: Testimone a Coblenza, Scheletri nell’armadio, L’intellettuale disorganico). Se si vuol citare un collega esprimendo il proprio dissenso con lui, padronissimi; quando si vogliano in qualche modo presentare le posizioni politiche, lo si faccia pure, e sia la polemica sia l’ironia sono legittime. Ma che un collega che sa chi sono mi definisca “parafascista” è inaccettabile esattamente come sarebbe inaccettabile se qualcuno definisse lui un “venduto agli americani”. Lasciamo queste volgarità queste calunnie, queste miserie ad altri: esse squalificano chi proferisce l’offesa, non chi la subisce. l’Università è già malridotta così com’è: non sviliamola ulteriormente dando spettacolo con queste polemiche da pollaio e da marciapiede.