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Woody Allen cantore postmoderno

di Marco Iacona - 04/05/2009

 

Non crede nella scienza, non crede nella politica e non crede in Dio. Ed è certo tuttavia che due sole cose esistano: il sesso ed il decesso. Stiamo parlando di Woody Allen, sempre lui, il grande Woody, capace come pochi di incarnare, in un sol colpo, i difetti del cittadino occidentale medio in lotta con se stesso e col mondo intero. Un tipo-d’uomo che confonde una religione all’altra finendo per beffarsi del sacro, che non ha superato la fase di conflitto aperto con i genitori ed è rimasto un po’ bambino e un po’ cretino (come in fondo sono tutti i rispettabilissimi geni). Un tipo-disastroso insomma, che è sempre lì a spingere il carro di un’esistenza fra nevrosi e paure. Fra gioie e dolori. Proprio come il protagonista del suo ultimo film (Whatever works), appena visto in anteprima in America al Tribeca film-festival (e sembra anche che sia un ottimo film, una commedia romantica che ricorda perfino vizi e vezzi del giovane regista).
Ma il mondo senza Woody-l’imperfetto, potete giurarci, sarebbe cosa assai peggiore. Un luogo abitato da prodighi predicatori pronti a regalarvi il loro parere, regolarmente superiore e  regolarmente mai richiesto su ogni molecola del creato; un luogo ove nessuno possa farsi beffe dei profeti surgelati e inscatolati a dovere (e quanti ce ne sono!); un luogo così pieno di “dei” da farvi pensare di essere già morti e passati a miglior vita (migliore?). Anche per questo ci piace la sua aria da cane senz’osso, per questo preferiamo le sue sincere spesso silenziose sconfitte (come da tradizione ebraica) alle tronfie vittorie dei so-tutto-io, per questo consideriamo Woody il caposcuola degli anarchici e dei serenissimi libertari cui voler bene con cuore, cervello, interiora e tanto altro.
Quarant’anni fa (1969) Woody era un giovane comico con occhiali e lentiggini che si misurava con la regia cinematografica (in realtà la seconda regia dopo il poco noto What’s up, tiger Lily? del ‘66, che in Italia ebbe però scarsa diffusione), e che pescava dal cilindro del proprio talento il primo film “alleniano” della storia del cinema (un film ad un tempo buffo, delicato e amorale), quel Take the money and run (Prendi i soldi e scappa), dal quale, appunto, si è soliti datare l’inizio di un’era alleniana colma di storielle belle-e-brutte e di autentici capolavori - Zelig per dirne uno- ben lungi dall’essersi conclusa (siamo, peraltro, oltre il 40° film come regista).
Woody era nato 33 anni prima (alla fine del 1935), come Allen Stewart Königsberg, in una New York dolceamara, amata e detestata allo stesso tempo ma costantemente – almeno fino ad un certo punto – fonte di ispirazione, ed aveva iniziato come autore di programmi televisivi, come scrittore e uomo di teatro e cabarettista. Nel ’69 era già stato sposato due volte (con Harlene Rosen dal ’56 al ’62 e con Louise Lasser dal ’66 al ’69), era un autore di successo, aveva già recitato come attore (pur non essendolo!) e aveva firmato sceneggiature fin dal ‘62. Guadagnava mica male per un trentenne ed era lì lì per incontrare il suo vero grande amore, quella Diane Keaton, prossima protagonista della saga di Coppola, Il Padrino, con la quale girerà, fra gli altri, lo splendido Io e Annie premiato agli Oscar nel 1978.
Il primo periodo alleniano che comincia con Prendi i soldi e scappa e va avanti, appunto, fino alla seconda metà degli anni Settanta, è quello dei film cosiddetti slapstick (ove la comicità è per così dire ordinaria, molto fisica); film pieni zeppi di trovate e battute fulminanti che ne arricchiscono - e di molto - la trama (spesso essenziale) e ne costituiscono la vera e propria spina dorsale (insomma, il film è quasi un insieme di sketch). Nel caso delle pellicola di Woody però le gag sono sovente arricchite da retroscena filosofici e psicanalitici e (soprattutto negli ultimi anni) da intrecci ben studiati. Da qui peraltro l’accusa periodica, se di accusa si può parlare, di film cerebrali o manierati (quando non ben riusciti), sulla quale sarebbe utile inaugurare un discorso a parte.
Andiamo però con ordine. L’inizio di Prendi i soldi e scappa non potrebbe essere più autobiografico (ma attenzione non tutti i film di Woody sono autobiografici come si potrebbe credere!). Il protagonista, il giovane Virgil Starkwell, ladruncolo maldestro e giovane disadattato, è nato proprio il 1° dicembre del 1935 data di nascita dello stesso Allen, come lui è appassionato di musica (ma suona – si fa per dire – il violoncello), come lui non è uno studente modello e come lui crede che la fortuna ed il caso siano le vere protagoniste dell’esistenza umana. Il film è un finto documentario, con tanto di testimonianze, sulla vita di Virgil che si conclude col suo ennesimo (e definitivo?) arresto avvenuto da parte della F.B.I. che lo crede un sovversivo (perché ateo). In mezzo ci stanno tante altre cose: il ruolo genitoriale, la mancanza di talento ed il fallimento del protagonista, infine la presa di coscienza che il delitto – che è un lavoro come un altro – possa rendere bene. Temi che non possono appartenere ad un umorismo di tipo “tradizionale”, ma che Allen riesce ad incastrare all’interno delle scene più divertenti (come quella dei genitori di Virgil che, intervistati, indossano naso e baffi finti per non farsi riconoscere), creando una combinazione di concetti e immagini reali e surreali davvero singolare e del tutto personale. Piaccia o non piaccia è questo il Woody che abbiamo imparato a conoscere: il critico delle tradizioni, l’eterno obiettore, il personaggio che confonde ruoli e idee e l’ateo che non crede in nulla ma a cui sarebbe piaciuto nascere con quella che i comuni mortali chiamano fede. Insomma, L’Allen che vive la (post)modernità senza alcuna certezza. È tale tuttavia l’interesse che deriva da questo strano miscuglio di svantaggi che riesce davvero difficile pensare di non parteggiare per il protagonista e per la maggior parte dei personaggi che l’attore-regista riesce a creare volta per volta.
Allen ci risparmia il comune moralismo da happy-end ed il “tutti vissero felici e contenti”, e ci risparmia valori del tipo “coscienza civile”, “solidarietà”, eccetera (cosa che, peraltro, gli riesce bene anche quando si dedica ai racconti), il suo personaggio è un naufrago che convive con la forza della natura, l’altro da sé, è un viandante che qualcosa o qualcuno ha spedito sulla terra, per vivere e per convivere con le proprie sofferenze. Sì, c’è qualcosa di quasi-religioso - nascostamente religioso - nella sofferenza che Woody impone ai suoi personaggi. Quasi una missione da compiere, la conferma che all’interno della casualità del vivere ci sia chi è costretto a subire per “decisione dall’alto”; proprio come in una guerra l’essere scampati alla morte dopo un bombardamento è di fatto solo pura fortuna.
Così il dramma della condizione umana può essere reso più sopportabile solo con la sua stessa svalutazione o meglio con la trasformazione in fatto artistico. Nulla cambia se non il grado di sopportazione dell’orrore quotidiano. Virgil Starkwell non può sfuggire alla propria condizione di ladruncolo a causa di un’educazione imperfetta ma il suo vissuto ancorché atroce è una continua burla che rende più sopportabile la sua strada verso il the end.
Insomma, del male si può e si deve ridere, perché è l’unico modo per non viverlo come tale. Allen è perfettamente consapevole che le ferite del suo personaggio non si potranno mai rimarginare (un padre inadeguato che peraltro voleva insegnarli il Vangelo a bastonate, la sua diversità anche fisica da tutti gli altri…), sa che il se stesso che gironzola per i quartieri dell’America degli anni Sessanta prima o poi subirà l’ennesima punizione. Il trucco (se non la si può scampare, questa punizione) sta nel rendere il castigo più lieto a se stesso e, visto che in fondo si tratta di un film, anche a chi è comodo in platea e assiste allo spettacolo.
A noi questo Woody ricorda molto  - cambiando tutto quello che c’è da cambiare, of course – anche un certo Ernst Jünger (il giovane Jünger). L’eroe che subiva gli assalti della modernità durante la grande guerra e che subiva tutta la violenza (Jünger è solo un “povero” soldato che sconosce le decisioni degli stati maggiori) di quel mondo maledetto che in quel momento sembrava rivoltarglisi contro. Peraltro anche in merito alla condotta di Jünger sono state date interpretazioni di tipo psicologico (Francesco Fiorentino ad esempio nel suo La sentinella perduta).
Alla fine, quasi freudianamente, Jünger affidava ai suoi diari le riflessioni in merito all’esperienza di guerra (e alla sorte della Germania), creando così un nuovo linguaggio all’interno del ‘900. Certo, ci convinceva la voce di chi aveva visto e combattuto una guerra mondiale, perché spettava a lui farsi sentire, coprendo a suo modo con il suono dell’arte, il rumore delle macchine e delle pallottole che fischiavano tra i fossati. Ebbene, perché non dire che anche la comicità di Woody Allen è stata un codice dei nostri tempi? In fondo, dietro le sue irriverenti prese in giro c’è un mondo che non ha mai smesso di essere in guerra con se stesso e coi suoi protagonisti più fragili.