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Gran Bretagna: la tortura si fa in "outsourcing"

di Mario Braconi - 27/07/2009

 

Anche chi non mastica il gergo del management, tanto popolare presso consulenti ed alti papaveri delle aziende, forse riesce a capire a che cosa ci si riferisce quando si parla di “outsourcing”: una data attività, un tempo gestita all’interno di una certa azienda, viene affidata ad una società esterna specializzata. Secondo chi lo promuove, l’outsourcing consente di svolgere quel lavoro meglio ed in modo più economico: è, naturalmente, solo un modo di vedere le cose, perché il bel termine anglosassone spesso è un velo ben poco pietoso attraverso cui si intravede la cruda realtà: tagli alla forza lavoro e/o delocalizzazione verso Paesi con basso costo della manodopera. Finora, però, si sono “esternalizzati” solo processi industriali; dunque è una novità assoluta il caso portato alla ribalta nel Regno Unito dal deputato conservatore David Davies ad inizio luglio: in questo caso la polizia e MI5 hanno subappaltato alla polizia segreta pachistana la tortura di cittadini accusati (sia pure a ragione) di attività terroristiche.

Non è carino torturare le persone, anche se si tratta di criminali e, quando il governo di un paese occidentale rimane invischiato in faccende di questo tipo, la sua immagine ne risulta gravemente compromessa. A quanto sembra, però, i suddetti governi dalla tortura non riescono a star troppo lontani: apparentemente inconsapevoli del fatto che usare violenza sui propri “sudditi” demolisce il fondamento stesso del monopolio nell’uso della forza che ogni stato si auto-attribuisce, nelle stanze dei bottoni evidentemente si continua a pensare che estorcere confessioni a sospetti ricorrendo a lesioni o altri comportamenti crudeli, disumani e degradanti, sia un’eccezione alla regola particolarmente utile alla sicurezza nazionale.

Come noto, i pragmatici americani, che amano viaggiare, hanno pensato bene di organizzare allegri trasferimenti aerei mediante i quali i sospettati di terrorismo vengono trasferiti in un Paese di serie B, dove per motivi di diritto o più semplicemente politici, è possibile farli torturare a piacimento dagli “alleati” (le ormai celebri “extraordinary rendition”). Il caso di Rangzieb Ahmed, se generalizzato, pare dimostrare che i servizi segreti britannici abbiano adottato un atteggiamento leggermente più prudente ed altrettanto ipocrita. Vediamo i fatti: tra il 2005 e il 2006, la polizia di Manchester e i Servizi Segreti addetti alla sicurezza nazionale (MI5) tengono d’occhio il cittadino britannico Ahmed. Durante quel periodo, vengono raccolte prove incontrovertibili della sua affiliazione ad Al-Quaeda, che vengono però utilizzate solo nel 2007, anno in cui Ahmed viene finalmente arrestato e processato. David Davies, ex Ministro dell’Interno Ombra dei Conservatori, giustamente domanda al Governo: come mai Ahmed non è stato arrestato al momento in cui si erano raccolti elementi sufficienti contro di lui?

Una decisione apparentemente inspiegabile. Che Polizia e MI5 fossero al corrente dell’intenzione del terrorista di recarsi in Pakistan è dimostrato dal fatto che i servizi hanno continuato a pedinarlo anche quando si trovava a Dubai, dove si era recato per sviare le indagini. Quando Ahmed è arrivato in Pakistan, è stato il Governo britannico ad avvisare i servizi locali: Davies si dice in grado di dimostrare che le agenzie britanniche hanno “suggerito” per iscritto il suo arresto ai “colleghi” della Direzione Interservizi di Intelligence (ISI, secondo l’acronimo inglese). Il 20 agosto del 2006, infatti, Ahmed viene arrestato dall’ISI, anche se è la polizia di Manchester, assieme a MI5, a scrivere le domande dell’interrogatorio cui lo sottoporranno i pakistani.

Perché non porre ad Ahmed quelle stesse domande quando si trovava in Gran Bretagna? La risposta è semplice: come suggerisce Davies, è stato dimostrato che l’ufficiale che ha chiesto ai pakistani di arrestare il sospetto lo ha fatto avendo ben presenti i metodi normalmente adottati dall’ISI nei confronti delle persone da esso fermate, al punto che, secondo il deputato britannico, “suggerire l’arresto equivaleva a suggerire l’uso della tortura”. Ed in effetti, Ahmed è stato percosso con bastoni delle dimensioni di una mazza da cricket e frustato con un pezzo di pneumatico; gli sono state inoltre strappate via tre unghie. Ahmed, dopo una “vacanza” nelle carceri pakistane durata tredici mesi, nel settembre del 2007 è stato deportato in Gran Bretagna, dove è stato processato e condannato per terrorismo (a fine 2008) sulla base delle sole prove raccolte nel 2005 / 2006 tanto in Gran Bretagna che a Dubai. Davies, che non minimizza le responsabilità di Ahmed, è fermo anche su quelle del Governo: “Non mi riesce di immaginare caso più chiaro di ‘passive rendition’”.

Ma gli errori delle autorità britanniche non finiscono qui: ben consapevoli che il caso Ahmed rischia di diventare un caso emblematico della tolleranza del governo inglese verso la tortura, si sono decisi ad una mossa patetica, disperata e controproducente. Secondo quanto riferito da Ahmed stesso al quotidiano The Guardian, lo scorso aprile egli avrebbe ricevuto in cella la visita di un poliziotto e di un agente di MI5, che gli avrebbero proposto una transazione: se avesse fatto cadere le accuse di essere stato torturato, avrebbero fatto in modo di ridurgli la pena, sempre che Ahmed non preferisse, invece, un “indennizzo” in denaro. Anche in questo caso Davies non fa sconti al suo Paese: “Se questa trattativa fosse dimostrata, sarebbe una faccenda francamente mostruosa. Come minimo, la si potrebbe definire un utilizzo criminale e perverso dei poteri e del denaro che il governo ha investito nel programma antiterrorismo; nel peggiore dei casi, una cospirazione finalizzata ad impedire il corso della giustizia”.

Nel suo discorso al Governo, Davies ricorda giustamente che “la battaglia contro il terrorismo non è solo una lotta per la vita: è una battaglia tra ideali, tra bene e male, tra civiltà e barbarie. In questo combattimento non dovremmo mai permettere che i nostri standard precipitino al livello di quelli dei nostri nemici; non possiamo difendere la civiltà abdicando ai suoi stessi valori fondanti”. Parole forse ovvie, ma che fa piacere sentir dire da un politico in un mondo in cui, l’ossessione per la sicurezza, sembra aver ridotto ad un accessorio i diritti dei cittadini.