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Malati moderni

di Luciano Fuschini - 29/07/2009

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Le conquiste della medicina e della chirurgia sono un vanto della scienza moderna. Negarne i successi sarebbe pura stravaganza, bizzarrìa di chi vuole esibire un anticonformismo. Basti ricordare che in epoca premoderna anche la semplice estrazione di un dente era un’operazione dolorosissima. Non esistevano anestetici, le sofferenze erano inaudite. Anche rispetto ad anni recenti i progressi sono stati impressionanti. Oggi il dolore è praticamente scomparso dalle pratiche mediche e chirurgiche e si guariscono malattie un tempo mortali.
Fatto questo doveroso riconoscimento, non ci si può esimere dal rilevare tutte le aberrazioni del sistema sanitario. Un cittadino avverte un dolore o un malessere. Si fa visitare dal medico di base. Costui non azzarda alcuna diagnosi. Non può farlo, nemmeno se lo volesse. Il suo compito consiste nel prescrivere una serie di controlli e analisi, costosissimi, a spese del paziente se vuole ricorrere al canale della medicina privata a pagamento, a spese della Regione, vale a dire della comunità, se sceglie l’assistenza pubblica. Individuata la causa del malanno, vera o presunta, lo specialista provvederà a intervenire per via medica o chirurgica. La specializzazione è sempre più localizzata su una funzione, come se l’organismo fosse la somma di tanti pezzi. C’è lo specialista del cuore, quello del fegato, quello dei reni, quello della tiroide, quello delle emorroidi...Addirittura ormai è troppo approssimativo parlare di ortopedico: ci sarà lo specialista della rotula, quello della caviglia, quello dell’anca, quello del gomito...La medicina occidentale ha completamente smarrito la visione di un’organicità che comprende psiche e corpo in un tutto che deve recuperare la sua armonia complessiva, quell’armonia in cui consiste la salute. La cura del fegato avrà controindicazioni su altri organi, allora bisognerà ricorrere allo specialista dell’organo che ha subìto danni collaterali, come quelli dei bombardamenti “chirurgici” vantati dalla tecnologia bellica.
Il sistema deve vantare i suoi successi, per cui dopo lunghe cure il paziente verrà dichiarato guarito. Però dovrà sottoporsi a controlli periodici e dovrà continuare ad assumere farmaci per consolidare i risultati ottenuti e per prevenire complicazioni e ricadute. Diventerà un malato cronico, oppresso da ansie e pratiche burocratiche infinite. Questa è la prassi che quotidianamente trascina milioni di individui nel vortice di un ingranaggio che per automatismo verbale ormai comunemente definiamo kafkiano. Chi ha la sventura di entrare nel meccanismo non ne esce più.
Tolstoj diceva che si ammalano solo gli stupidi e i viziosi. Affermazione stravagante di uno scrittore creativo, un romanziere. Anche una persona accorta e morigerata può beccarsi un virus, può subìre un incidente, può essere contaminata da un’epidemia o dai veleni dell’ambiente. Però come in tutte le asserzioni paradossali delle persone intelligenti, in quella frase c’è del vero. La condizione naturale e normale del nostro organismo è  il buon funzionamento, vale a dire la salute. Abbiamo sistemi autoimmunitari fortissimi e funzionanti senza bisogno di supporti chimici. In questo senso è vero che il segreto dello star bene consiste in una vita sana e in un’alimentazione moderata ed equilibrata. Questo è il senso del paradosso tolstoiano. L’esasperazione salutista della nostra follia ha medicalizzato tutta la nostra vita, rendendoci dei malati perpetui che alimentano un giro d’affari colossale, in un apparato di medici, infermieri, burocrati che si autogiustificano attraverso le paure indotte ai veri e falsi pazienti; in questo giro d’affari le Case farmaceutiche, con i loro investimenti che esigono la resa in termini di profitto, diventano vere e proprie potenze finanziarie.
Tutto questo enorme apparato e questo groviglio di interessi colossali contribuiscono potentemente a creare quello stato di ansia e nevrosi che segna nel profondo l’uomo di oggi e ha un costo enorme per la collettività.
Urge pertanto giungere a conclusioni che siano coerenti con le premesse. Intanto bisogna agire per ridurre drasticamente costi ormai insostenibili. A questo proposito è evidente che il maggior peso viene dall’assistenza agli anziani. Gran parte degli assistiti sono vecchi afflitti dai normali malanni dell’età. Allora azzardo una modesta proposta: dopo il compimento del settantacinquesimo anno, all’anziano siano garantiti gratis solo gli analgesici. Se vuole curarsi lo faccia a proprie spese. Se non ne ha i mezzi provvedano familiari e parenti. Se nemmeno loro possono farlo provvedano enti assistenziali e caritatevoli privati, religiosi o laici. Forse sarebbe una via per ricreare un clima di solidarietà sociale. Così andavano le cose in epoche più civili di quella, barbara, in cui siamo condannati a vivere. Mi rendo conto di come una simile proposta appaia folle e si esponga all’accusa di cinismo e insensibilità. Chi l’avanzasse in un programma elettorale sarebbe sicuro di ottenere una percentuale di voti da prefisso telefonico. Ma forse che è logico, umano e caritatevole tenere in vita a costi altissimi per la collettività dei vegliardi la cui esistenza è uno stanco e lento trascinarsi alla tomba, mentre si incoraggiano giovani donne ad abortire perché il mondo è sovrappopolato? Ci rendiamo conto dell’abisso di follia in cui siamo precipitati? Bisognerà pure che qualcuno abbia il coraggio e l’onestà intellettuale di dire le verità anche spiacevoli.
In ultima analisi, la salute pubblica è qualcosa che ha a che fare con lo stile e i ritmi di vita, col rapporto che abbiamo con noi stessi, con gli altri, con la natura. Si tratta di un problema sociale e politico in senso alto, un problema di civiltà, non medico. Sulle paure indotte in chi viene convinto di essere bisognoso di cure si è costruito tutto il mostruoso apparato del servizio sanitario. Per uscirne occorre una civiltà radicalmente diversa, una mentalità radicalmente diversa, che accetti serenamente il naturale corso delle cose, il nascere, il crescere, il declinare, col suo inevitabile carico di sofferenza, la morte. Ma le mentalità, le civiltà, non si riformano con le prediche. Sono l’effetto di un modo di produrre, di consumare, di una modalità di rapporti fra individuo e collettività. In una parola, di una rivoluzione, quella rivoluzione che etimologicamente è un ritorno alle origini. Il ribelle che sa dire il vero senza infingimenti, in questo senso è  anche un rivoluzionario.