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Il conflitto tra Federico II e il figlio Enrico

di Paolo Mieli - 15/12/2009

 

Nuovo interesse per Federico II. Dopo i tre volu­mi sull’imperato­re svevo che l’Enciclopedia Treccani ha pubblicato tra il 2005 e il 2008, la casa editri­ce Salerno sta per dare alle stampe l’altra opera monumentale, Federico II e l’apogeo dell’Impero di Wolfgang Stürner, nel­la impeccabile traduzione di Andrea Antonio Verardi. Un’attenzione particolare meriterebbe l’introduzione di Ortensio Zecchino, dove si analizza come diverse correnti storiografiche nonché diversi regimi hanno tentato di far pro­pria la figura del sovrano vissuto tra il 1194 e il 1250, che segnò di sé l’epoca in cui visse e an­che quelle successive. Ma l’imponente libro di Stürner è uno strumento indispensabile per fa­re luce su importanti questioni connesse al­l’esperienza fridericiana e ad alcune sue vicen­de esistenziali, prima tra tutte il conflitto che oppose l’imperatore al figlio Enrico, destinato a diventare il suo erede, e che invece segnò dram­maticamente la loro vita per risolversi, infine, in tragedia. In passato Enrico è stato quasi sem­pre trattato dagli storici come uno stolto e spes­so la denigrazione a suo danno appariva motiva­ta più dalla necessità di cantare le lodi del pa­dre che da suoi peccati di comportamento. Og­gi — come vedremo — ci sono studiosi che ri­valutano Enrico re di Germania e quasi sposa­no, per così dire, le ragioni che lo indussero al­lo scontro con l’imperatore Federico. Non è il caso dell’opera di Stürner, che però anche su questa vicenda appare più approfondita, dotta e sottile delle innumerevoli che l’hanno prece­duta.

Enrico, nato nel 1211, trascorse i primi cinque anni di vita con la madre, Costanza d’Aragona, alla corte di Palermo. In seguito, su disposizio­ne del padre, si recò con Costanza in Germania (1216) e lì, allorché Federico ottenne da papa Onorio III la corona imperiale a Roma (1220), crebbe in assenza dei genitori. Incoronato re ad Aquisgrana (ma sotto la tutela di un reggente) a undici anni, a quattordici fu costretto a sposare Margherita d’Austria, che era molto più anzia­na di lui. Quando nel 1231 Enrico manifestò l’in­tenzione di divorziare dalla moglie per sposare Agnese di Boemia, Federico si oppose. Il proble­ma di fondo, ha scritto Hubert Houben ( Federi­co II , Il Mulino), era di natura politica: Federico voleva che il figlio governasse attenendosi scru­polosamente ai suoi ordini; Enrico dovette pe­rò considerare il divieto di separarsi da Marghe­rita come lesivo del suo rango regale, una sorta di limitazione della sua autorità. E fu scontro. Che si concluse con la deposizione di Enrico, la sua lunga prigionia, il suo ammalarsi di lebbra e infine il suicidio (1242). Alla morte del figlio, Federico lo fece seppellire con tutti gli onori nel duomo di Cosenza e nella lettera (scritta dal capo della sua cancelleria Pier della Vigna) con la quale esortava il clero del regno di Sicilia a pregare per il defunto, si soffermò con queste parole sul conflitto che li aveva divisi: «Anche se non siamo stati piegati dalla superbia di un re vivo, siamo commossi dalla morte di questo nostro figlio; non siamo i primi e non saremo gli ultimi a sopportare i danni delle trasgressio­ni dei figli e ciò nonostante a piangere dopo i loro funerali… Né l’acerba sofferenza generata dalla trasgressione è per i genitori una medici­na efficace contro il dolore: la natura, pungen­doli, li fa dolere per la morte dei figli, anche se essi li hanno offesi con la loro irriverenza, che si oppone alle leggi della natura stessa».

Stürner — come si diceva — dedica grande attenzione al dissidio tra Federico e suo figlio Enrico, mettendolo in relazione, almeno per quel che riguarda la fase iniziale, alla rivolta di Messina che esplose nell’agosto del 1232 e che costrinse l’imperatore a rimanere in Sicilia dal­l’aprile del 1233 al febbraio del 1234. La som­mossa di Messina — che si era poi estesa a Sira­cusa e a Nicosia — era stata provocata dalla du­rezza, o meglio dal rigore di Riccardo di Monte­negro, rappresentante di Federico in quella re­gione. Era stato del resto lo stesso Federico a disporre il divieto alle città di eleggere propri funzionari e giudici, a decidere per un consi­stente aumento degli oneri fiscali e a stabilire il mancato rinnovo dell’esenzione dalla dogana per il porto di Messina. Come reazione ebbe una sommossa di cui Riccardo di Montenegro fu solo un bersaglio apparente. E per aver ragio­ne dell’insurrezione l’imperatore si vide costret­to a promettere un perdono generale; poi però, una volta che ebbe domato la rivolta, non tenne fede alla sua stessa parola: fece arrestare i capi di quei moti, ne impiccò o mise al rogo la gran parte, imprigionò o bandì dalla città i loro se­guaci e fece distruggere completamente alcune colonie che si erano distinte in quei tumulti. Perdonò, invece, e promosse di rango Riccardo di Montenegro.

Scottato da quell’esperienza, Federico affron­tò la questione del figlio con particolare durez­za. Enrico era stato assai leale, alla fine degli an­ni Venti, nei confronti del padre, scomunicato da Gregorio IX nonostante avesse ottenuto — al termine di un negoziato con il sultano d’Egit­to — la restituzione di Gerusalemme ai cristia­ni. Enrico si era scontrato con tutti coloro che si andavano alleando con papa Gregorio (in pri­mis Ludovico di Baviera) in cospirazioni che sembrava avessero come fine la destituzione dell’imperatore. Ma il padre non gliene fu affat­to grato. Anzi. Secondo Stürner l’imperatore prese spunto dal complesso rapporto tra il fi­glio e i principi tedeschi per rendere pubblica la sua contrapposizione a Enrico. La dieta di Worms del gennaio 1231 «aveva costretto Enri­co a revocare le concessioni fatte in un primo tempo alle città sulla Mosa ma anche a ratifica­re il ruolo di predominio dei principi che gover­navano le città». I cittadini non potevano con­cludere patti o alleanze tra loro contro la volon­tà dei principi e il re non avrebbe potuto appro­vare tali alleanze. La successiva dieta che si tenne di nuovo a Worms, alla presenza del sovra­no, dalla fine di aprile all’inizio di maggio dello stesso anno, «si spinse più in là. Richiamando l’accordo che Federico aveva stretto con i princi­pi ecclesiastici nel 1220, i principi imperiali ot­tennero la ratifica della loro posizione di domi­ni terrae attraverso un privilegio reale. Il re ri­nunciava espressamente a fondare città, a co­struire castelli o nuove strade, istituire mercati o zecche nei loro territori senza il loro consen­so ». Oltre a ciò, il re «concedeva ai principi l’esercizio indisturbato della giurisdizione e dei diritti feudali e si impegnava a tenere a freno le tendenze espansionistiche delle città sul suolo regio, cui quelli guardavano, come sempre, con preoccupazione». Il re proibiva altresì «alle cit­tà di occupare i suburbi e di appropriarsi di be­ni, di accogliere i servi della gleba fuggiti dai loro signori, di estendere la loro giurisdizione e il diritto di scorta nei territori limitrofi e di com­piere atti amministrativi a spese dei principi». Questo documento metteva in luce la forte posi­zione che i principi tedeschi avevano acquisito rispetto al re. A differenza del 1220, inoltre, «i principi imperiali, laici ed ecclesiastici, rappre­sentarono i loro interessi in maniera compatta, come un unico ceto, e il re — ciò che può risul­tare importante nel giudizio su Enrico — non ricevette nulla in cambio della propria compia­cenza, del suo ufficiale riconoscimento del­l’evolversi degli eventi a loro favore».

Nel 1232 l’imperatore convocò in modo assai brusco suo figlio ad Aquileia (non si vedevano da dodici anni, da quando Enrico ne aveva no­ve) dove riconobbe in maniera formale e piena le sue decisioni e la sua dignità regale, ma riba­dì anche l’assoluto predominio della propria po­sizione «obbligando Enrico a una drastica, rigo­rosa e perfino umiliante sottomissione al suo potere imperiale». Il re rientrò in Germania molto scosso e ferito nell’orgoglio, il padre da quel momento non si fidò più di lui. E fu la ri­volta di Messina con la feroce repressione che ne seguì. In quell’occasione papa Gregorio IX, scrive Stürner, «non solo sospettò che Federico avesse messo al rogo i suoi avversari, facendoli passare per eretici, ma biasimò anche le dure misure imperiali contro l’insurrezione sicilia­na, definendole senza troppe perifrasi crudeli e ingiuste, e accusò inoltre Federico di aver spin­to alla ribellione i sudditi con la sua politica di oppressione invece di conquistarli con l’amore, come si conveniva a un regnante cristiano: sem­brava quasi che volesse negare al sovrano tem­porale il diritto di usare la forza».

E il dispetto dell’imperatore fu assai grande allorché nell’agosto del 1233 Enrico, accompa­gnato a sorpresa dal vescovo di Strasburgo, ma anche dall’arcivescovo Sigfrido di Magonza e dal vescovo Ermanno di Würzburg, per oscuri motivi mosse con un grande esercito contro Ot­tone, figlio di Ludovico e nuovo duca di Bavie­ra, infliggendogli una pesante sconfitta. Dispet­to che si trasformò in collera quando nel dicem­bre del 1234 Enrico strinse un accordo con Mila­no e le città della Lega: «Agli occhi dell’impera­tore », scrive Stürner, «quell’accordo dovette ap­parire un crimine assurdo e orrendo, che dimo­strava con assoluta chiarezza i propositi di alto tradimento di suo figlio, miranti alla rovina del­l’impero ». Nel 1235 Federico scatenò la guerra contro Enrico e, nonostante quest’ultimo aves­se inviato ambasciatori per chiedergli perdono e annunciare la sua sottomissione, non si fer­mò finché non lo ebbe sconfitto e imprigiona­to, con le conseguenze di cui si è detto all’ini­zio.

Stürner a questo punto si misura con i lavori su Federico II di due importanti storici tra loro contrapposti: Christian Hillen e Theo Broek­mann. Concorda con Hillen, il quale ha sostenu­to che «i principi imperiali, al pari dei nobili tedeschi, ebbero contatti molto più intensi con il padre, che dimorava nella lontana Italia, che con il giovane re, furono sostenuti da Federico e contribuirono a plasmare la sua idea sugli av­venimenti tedeschi, mentre attuavano i suoi propositi. E che Enrico non riuscì, evidente­mente, a creare un’analoga rete di rapporti per­sonali incentrata su di sé: e così alla fine non ebbe più appoggi tra le personalità di rango, co­me pure tra i rappresentanti della ministeriali­tà ». Dissente invece da Broekmann, che ha ap­profondito il conflitto tra padre e figlio soste­nendo che «Federico sarebbe stato influenzato dal modo di risolvere le divergenze vigente in Sicilia, fondato sul rigor iustitiae , sull’autorità e la spietata durezza, mentre Enrico, agendo in conformità con il sistema di valori vigente a nord delle Alpi, avrebbe combattuto in difesa del suo onore e del suo prestigio di re; dalla sua sottomissione egli si sarebbe quindi atteso, fi­no alla fine, non solo di ricevere il perdono im­periale, ma anche, grazie a questo, il proprio ho­nor regio » .

Di fatto Broekmann accusa Federico di non aver saputo dar prova di misericordia. Un impe­ratore duro, spietato, contro un re tedesco mi­te. Ma Stürner gli contesta che «Federico biasi­ma sempre, senza eccezione, la durezza del di­ritto romano che egli intendeva alleviare con la mitezza e la misericordia delle proprie costitu­zioni ». Naturalmente, prosegue, «nella prassi politica lo svevo dimostrò di saper punire in maniera estremamente crudele; ma si trattò quasi sempre di casi di aperta e palese infrazio­ne della legge o di alto tradimento, come la ri­volta dei Saraceni in Sicilia o la congiura del 1246. D’altra parte fin da giovane Federico mo­strò di saper perdonare le ribellioni, una volta sconfitte, richiamandosi alla propria misericor­dia e pietà, e promulgò il corpus di Melfi… sol­tanto dopo un’accurata consultazione con i rap­presentanti del regno». Né «gli erano estranee le usanze nordiche, e quando giunse in Germa­nia praticò per lungo tempo, con convinzione e successo, le forme di sovranità consuete in quei luoghi (perciò biasimate ancora da qual­che storico dei nostri giorni) come dovette spe­rimentare anche suo figlio». Da quest’ultimo «lo separava forse soprattutto la divergenza di fondo circa il ruolo dei principi imperiali; e que­sta divergenza spiega il rifiuto di Enrico di re­carsi alla fine del 1231 alla grande dieta organiz­zata dal padre a Ravenna, come pure la sua alle­anza, certamente sfortunata, con i tradizionali antagonisti dei sostenitori più fedeli dell’impe­ratore, nonché il patto da lui stretto infine con Milano, l’acerrima nemica di Federico». Tutte decisioni, queste, che «portarono al duro con­trasto tra padre e figlio, fino a renderlo insana­bile; sicuramente Enrico maturò la profonda convinzione di essere stato costretto alla lite con il padre dalla volontà di tutelare la propria dignità e orgoglio regio. Ma di certo Federico poteva rivendicare lo stesso, con altrettanta convinzione, forte anche delle concezioni vive nell’impero e insistere inoltre sul suo superiore rango, come pure — fatto per lui decisivo — sull’obbedienza che il diritto divino e naturale prescriveva al figlio nei confronti del padre».

Stürner, pur inserendosi nel solco degli stori­ci tradizionali tutti impegnati a sostenere le ra­gioni di Federico, attenua — ed è la prima volta — il giudizio sui torti di Enrico. Imputa a que­st’ultimo una «percezione troppo ottimistica dei propri spazi di azione» e gli muove l’accusa «politica» di non aver tranquillizzato — con la mutevolezza delle sue prese di posizione — la borghesia cittadina, ma soprattutto, nella colla­borazione che ebbe con i principi dell’impero, di aver parteggiato per coloro che era evidente prima o poi sarebbero entrati in conflitto con la causa sveva, mettendosi in urto con quelli che erano destinati a restare fedeli alla sua fami­glia. Ma il libro contiene rilievi anche per il pa­dre. «Da parte sua», sostiene Stürner, «Federi­co non facilitò certo le cose, pretendendo dal figlio, senza avere con lui rapporti o vincoli per­sonali, la sottomissione al comandamento che ingiungeva l’obbedienza al padre, ossia un atto tanto infantile quanto formale: per risvegliare nel figlio il senso di un simile dovere e al con­tempo conquistarlo alla propria concezione po­litica, avrebbe dovuto offrirgli un’attenzione pa­terna continua, con parole e consigli personali. Se il figlio fallì per le sue debolezze caratteriali e per un’errata percezione delle possibilità di manovra della dignità regale tedesca, il padre mancò nel compito di trasmettere al figlio que­sta percezione». Siamo solo agli inizi della revi­sione di quel rapporto tra padre e figlio, ma il riequilibrio di giudizio c’è ed è di sostanza.