Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Irak, la conta dei morti

Irak, la conta dei morti

di Eugenio Roscini Vitali - 27/12/2009

 

Nel 2003, alle domande dei giornalisti sui danni collaterali in Afghanistan ed Iraq, il comandante delle truppe d’invasione, il Generale Tommy Ray Franks, rispondeva: “noi non contiamo i morti”. Alla fine del novembre scorso, fonti governative irachene annunciavano che, a sei anni e mezzo dall’inizio dell’occupazione, gli 88 civili rimasti uccisi negli ultimi trenta giorni  rappresentavano un record positivo, il minimo storico mai raggiunto dall’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”. La mattina dell’8 dicembre 2009, otto giorni dopo il confortante annuncio del contestato governo al-Maliki e a poche ore dalla notizia di nuove elezioni, fissate dal Parlamento per 7 marzo 2010, una serie di potenti deflagrazioni, avvenute nell’arco di pochi minuti, colpivano varie zone di Baghdad causando la morte di 127 persone ed il ferimento di almeno 450 civili.

Un bilancio di sangue causato da cinque autobombe fatte esplodere nel centro della capitale e che verrà accompagnato dai quattro attentati del 15 dicembre, tre nei pressi della Zona verde della capitale ed uno nella città di Mossul, nei quali perderanno la vita cinque persone e altre 14 rimarranno ferite. Si è aperta così la strada verso la transizione democratica, una strada fatta anche di numeri, vittime su cui si misura il successo o il fallimento della colossale operazione messa in piedi dall’amministrazione Bush nel 2003, una guerra che secondo il presidente americano avrebbe dovuto rendere quel paese una nazione libera e democratica, un modello per tutto il Medio Oriente, “un esempio di nazione vitale, pacifica e capace di auto governarsi”.

Per intensità gli attacchi dell’8 dicembre sono stati simili a quelli avvenuti il 25 ottobre scorso contro il Ministero della Giustizia e il Governatorato di Baghdad, in cui erano morte 155 persone, e a quelli del 19 agosto in cui avevano perso la vita 95 iracheni. Prima di allora altri quindici grandi attentati con centinaia di vittime.
 
Dall’8 dicembre l’idea di Baghdad come una città sicura inizia ad offuscarsi e dopo il panico dei primi momenti iniziano ad emergere i soliti dubbi, interrogativi su questioni che come al solito rimarranno irrisolte. Il primo riguarda sicuramente il numero delle vittime, anche in questo caso diverso da quello diramato dagli organi di governo: 77 secondo le autorità, 127 per i media iracheni indipendenti; una replica di quanto avvenuto due giorni prima con le vittime della scuola elementare di Sadr City, notizia liquidata dai telegiornali vicini al governo con un servizio di circa quaranta secondi. Numeri ufficiali sui quali si gioca la credibilità di un establishment che cerca di trascinare il paese fuori dal pantano della guerra civile e per farlo continua a sostenere che negli ultimi 18 mesi gli attentati in Iraq sono fortemente diminuiti.

In ottobre le autorità di Baghdad hanno diffuso una notizia secondo la quale tra il 2004 ed il 2008 i morti causati dalle violenze sarebbero stati 85 mila. Prendendo in esame l’intero conflitto, l’Iraq Body Count, il progetto sulla sicurezza che dal 2003 registra le vittime della guerra irachena, parla di 94.705 -103.336 morti; nell’ottobre 2006, Lancet aveva pubblicato numeri numero totalmente diversi: 655 mila iracheni rimasti uccisi a causa degli effetti dell’invasione.

Anche se molti analisti ritengono che a partire dal 2008 l’Iraq è diventato un paese sicuramente più sicuro e che questo è dovuto principalmente alla consolidata distribuzione settaria avvenuta in seguito ai violenti scontri registrati tra il 2005 e il 2007, c’è comunque chi si interroga  ancora sugli effetti della guerra scatenata dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein. Dubbi che riaffiorano soprattutto ora che dall’altra parte del mondo si comincia a puntare il dito contro chi continua a giustificare le finalità di quel conflitto. Tony Blair, che nel 2010 sarà chiamato a rispondere della decisione di invadere l’Iraq, continua infatti ad affermare che deporre il dittatore iracheno sarebbe stato comunque “giusto”, anche di fronte alla certezza che non esisteva alcun arma di distruzione di massa. A convincere Blair della necessità di schierarsi al fianco di George W.Bush sarebbe stata la “consapevolezza” che il leader iracheno “rappresentava una minaccia per tutta la regione”.

Sta di fatto che a sei anni e mezzo di distanza dall’invasione e a pochi mesi dal ritorno a casa di tutti i militari americani, l’Iraq deve ancora fare i conti con la sicurezza, un’emergenza che con il passare del tempo diventerà sempre più un affare iracheno, un affare che può essere riassunto nelle parole di Abbas al Bayati, membro della Commissione Difesa del Parlamento iracheno: “la popolazione ha bisogno di risposte convincenti dai comandanti della sicurezza” perché “se la sicurezza verrà meno, crollerà tutto”.