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Storia condivisa? Intini indica una via

di Luciano Lanna - 23/02/2010

 
 


Una cosa è certa: la possibilità di far riemergere nel discorso pubblico una vera memoria nazionale condivisa, una memoria "per unire", non passa per la storiografia dei cosiddetti esperti, per l'abilità degli accademici a maneggiare scartoffie e documenti, ma piuttosto attraverso la trasmissione di atmosfere ed emozioni presenti nel vissuto delle persone, attraverso la potenza della cosiddetta "macchina del tempo", «azionata dalla parola, dall'ascolto, dalla memoria e dalla passione politica: motori formidabili (e sottovalutati) che a differenza dei libri consentono di toccare con mano i fatti storici». Proprio questo è quanto ha fatto Ugo Intini, un giornalista che è stato anche un uomo politico, con il suo ultimo libro: Un bambino e la storia (Nuova editrice Mondoperaio, pp. 270, € 16,00) con un sottotitolo che è tutto un programma: "1941-1950: memoria per unire. I bombardamenti, la guerra civile, la ricostruzione". Nato a Milano nel 1941, già direttore dell'Avanti! e Il Lavoro, portavoce del Psi dal 1987 al 1993, ex parlamentare e sottosegretario, Intini è autore di tutta una serie di saggi - tra tutti, Lib-Lab (scritto con Enzo Bettiza) e Le parole di piombo (con Paolo Franchi) - nei quali però, adesso spiega, «la politica prevaleva sui sentimenti». Stavolta invece fa «parlare il cuore», costruendo un libro sui ricordi di lui bambino tra i tre e i dieci anni.
Ne viene fuori un libro di storia vissuta, oltre tutta quella storiografia che - spiega l'autore nell'introduzione - «talvolta deforma i particolari, o addirittura li cancella. Lo fa perché spinta dalle ideologie e dalle teorie, dal rispetto per il "politically correct", dalla egemonia dominante, quella culturale o quella imposta dal vincitore. Spesso i particolari diventano invece frammenti di verità importanti, contribuiscono a ricostruire il puzzle, ovvero il quadro più generale, talvolta più credibile di quello tradizionalmente accettato». I flash nella memoria di Intini bambino, i racconti dei suoi genitori e degli uomini da lui conosciuti da adulto, i giornali dell'epoca, fotografano nella pagine nel libro gli anni dei bombardamenti sulle città italiane, quelli della guerra civile e infine il periodo della normalizzazione e dell'avvio della ricostruzione. «Tedeschi, fascisti, partigiani - si legge in un passo del libro - visti più da vicino, partendo dal microcosmo di un ragazzino sfollato con la sua famiglia, non hanno caratteristiche squadrate con l'accetta, i buoni e i cattivi non stanno tutti da una parte o tutti dall'altra. Andando a scavare, tracce di sentimenti virtuosi si trovano addirittura in ciascuno...». E parte proprio da queste considerazioni il senso di una memoria "per unire": «Poco più che adolescenti, molti giovani sono finiti sull'uno o sull'altro fronte, spesso più per caso che per scelta, per tradizione familiare o senso di appartenenza, come ai tempi dei guelfi e dei ghibellini. E il caso o sentimenti virtuosi ci sono stati anche per i tanti che non se la sono sentita di schierarsi, si sono nascosti o hanno trovato espedienti per non uccidere da una parte o dall'altra...».
Intini riprende il filo dei suoi ricordi quando, non molto tempo fa, si è ritrovato a passare in macchina a Balangero, il paesino vicino Torino, dove lui con alcuni suoi familiare si era ritrovato sfollato dopo i bombardamenti su Milano del 1943: «Lì ho trovato un "buco nero", sono tornato in dietro di mezzo secolo in pochi secondi». E via con i ricordi: «C'erano proprio tutti, lì in salvo, meno il mio papà, che non avevano mai conosciuto e averei visto a guerra terminata. Cresciuto ed educato da fascista, era partito per la Grecia come tenente di artiglieria da montagna prima che nascessi. Prigioniero in Germania, era tornato arruolato nella divisione San Marco della Repubblica di Salò...». Poi, nella confusione generalizzata, riesce anche a disertare e raggiunge, nel '45, i familiari... E in quella casa di Balangero il piccolo Ugo che ascolta, col nonno, i dischi della Voce del Padrone e canta Lìlì Marlene... E "quel" 25 aprile: «La mamma mi chiamò dall'altro lato della strada e senza guardare attraversai d'impero. In quell'istante, un partigiano col fazzoletto rosso al collo arrivava lanciato di gran corsa sulla sua bicicletta e mi investì in pieno. Feci un gran volo... Dopo la botta, aprii gli occhi su un uomo con un cappello di carta da quotidiano, di quelli allora confezionati dai muratori. E la foto di quel cappello di carta resta impressa nella mia memoria...». Così come restano ancora impressi nella sua memoria i fuochi e le luci dei bombardamenti: «Alle spalle di questi c'era - commenta oggi Intini - una dottrina nuova e mai prima affacciatasi nella storia dell'umanità: la teoria che la strage dei civili fosse lecita e perseguibile, che la distinzione tra soldati combattenti e cittadini indifesi si potesse cancellare». Ma l'abbattimento di quella barriera millenaria ha avuto, come lui spiega, conseguenze profonde sul piano dell'immaginario collettivo, che si riverberano anche sul nuovo secolo. Non è vero, sembra suggerire, che sarebbe stato dopo l'11 settembre 2001 «che niente sarà più come prima». No, ribatte Intini, è dai giorni di "quei" bombardamenti del '43 che «la vita non è più stata la stessa». D'altronde, aggiunge, una nuova storiografia anche americana comincia adesso a riconoscerlo, con dati impressionanti. Un solo esempio: durante e dopo lo sbarco in Normandia gli aerei dei liberatori, per ripulire la città dove i tedeschi resistevano, le bombardarono indiscriminatamente a tappeto, uccidendo 70mila cittadini francesi: molto più di tutti gli inglesi morti sotto i bombardamenti tedeschi. «Sì, i bambini della mia generazione - ammette Intini - hanno vissuto sotto quella nube nera, sotto l'incubo delle bombe scagliate dal cielo».
Non mancano pagine sui cosiddetti "punti oscuri" della resistenza: «Dubbi, episodi oscuri sono numerosi e poci citati sui libri degli storici...». Intini è esplito: «Fu un eccesso la mitizzazione della resistenza e la sostanziale censura sui crimini compiuti in suo nome anche dopo la liberazione, ad esempio nel "triangolo rosso" tra Modena, Parma e Reggio». Fu un vero e proprio occultamento della verità infatti il negare l'esistenza di un lungo filo rosso di violenza eversiva che purtroppo trovava origine in una componente della resistenza stessa. Un occultamento di verità scomode, sottolinea Intini, che non ha giovato alla pacificazione, perché contraddizioni e reticenza su una parte anche non essenziale di un processo storico finiscono «per togliere credibilità alla storia nel suo complesso, di fronte alle nuove generazioni e a quanti conservino spirito critico». Intini ricorda il ruolo del suo partito nella chiusura delle ferite psicologiche provocate dalla guerra civile: «Craxi mandò osservatori al congresso del Msi e stabilì rapporti corretti con Almirante. L'Avanti! che io dirigevo aprì le sue pagine alla voce degli sconfitti, ad esempio alla collaborazione di un intellettuale fascista repubblichino come Giano Accame...». Si tendeva la mano, dopo mezzo secolo, riconoscendo anche i torti e i lati oscuri della lotta partigiana e «dando atto ai fascisti della buona fede e del patrriottismo di tanti loro giovani». D'altronde, leggiamo ancora nel libro, già nel 1960 nel consiglio comunale di Milano l'ex ministro repubblichino Angelo Tarchi, l'ex capo dei Gap Giovanni Pesce e il giovane Bettino Craxi mangiavano insieme i panini al buffet. E a questo punto Intini spiega che il peggioramento ha origine nell'antipolitica degli anni '90: «Durante la guerra civile, i fascisti e la resistenza si affrontarono nel modo più atroce, ma né da una parte né dall'altra si mettevano in discussione le Cinque Giornate, Garibaldi, Mazzini, l'Italia e la sua unificazione. Oggi sì. Oggi c'è chi contesta il processo di unità nazionale. C'è chi tenta di strappare le radici della nazione nella quale i giovani partigiani e i giovani repubblichini comunque si riconoscevano, innalzando entrambi il tricolore». Sì, è proprio ora di ripartire dalla memoria condivisa.