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Camicie rosse: ore contate

di Francesca Dessì - 18/05/2010

http://blog.panorama.it/foto/files/2009/12/bangkok-camicie-rosse-10.jpg


“Resistenza. Resistenza e ancora resistenza”. Con questo motto le camicie rosse, barricate nel cuore finanziario di Bangkok, hanno risposto all’ennesima minaccia del governo thai di dare il via all’operazione militare per sgomberare l’ occupata.
Scaduto infatti l’ultimatum del governo, circa 100 soldati e agenti della polizia, ieri si sono radunati a Ploen Chit, sparando in aria qualche colpo di avvertimento.
Prima degli spari, altoparlanti, annunci in tv e messaggi ai telefonini sono stati usati per intimorire i manifestanti e spingerli a lasciare il quartiere finanziario.
Per scongiurare nuovi disordini, il governo ha offerto una sorta di salvacondotto a tutti i ribelli che intendano abbandonare le postazioni, minacciando condanne fino a due anni di reclusione per chi rifiuti di collaborare.
“Resteremo qui”, ha risposto uno dei leader della protesta, Weng Tojirakarn,  e parlando alla folla ha detto: “non rispondiamo alla violenza, e se ci vogliono uccidere, che lo facciano”.
E i cinquemila dimostranti, venuti dal nord e nord est della Thailandia, non si sono mossi di un passo, pronti a morire per la loro causa.
Tutti uniti nel chiedere un nuovo governo che tuteli quelle classi sociali da sempre dimenticate dalla società thai.
Una protesta che sconfina in tutti i settori sociali. Non ci sono solo poveri, contadini e plebei, nella mischia si sono buttati anche ricchi borghesi che non sono ben visti dall’oligarchia thai e che guardano con favore al ritorno dell’ex premier Thaksin, miliardario delle telecomunicazioni.
Inoltre, la protesta incarna la frattura regionale tra Bangkok e il resto della Thailandia, storicamente abitato da minoranze nazionali e culture diverse.
Per questo la battaglia delle camicie rosse – che non rappresentano solo i poveri ma tutti gli esclusi –  ha fatto tremare le fondamenta della monarchia e del governo corrotto di Abhisit, che non può che usare la forza per mettere fine alla lotta.
È infatti chiaro che il premier tailandese non ha nessuna intenzione di trattare con l’opposizione: non solo nei giorni scorsi ha ritirato il piano di riconciliazione nazionale, ma domenica ha rifiutato l’offerta di un ritorno al dialogo proposta delle camicie rosse dopo gli scontri del fine settimana, che hanno provocato la morte di 36 persone e circa 250 feriti, tra cui un fotoreporter italiano.
Il governo ha infatti fatto sapere che riprenderà i negoziati con i rappresentanti delle camicie rosse solo dopo che queste ultime avranno posto fine ai presidi e saranno cessati i disordini.
Una clausola inaccettabile per i dimostranti, che sanno bene che, posata l’ascia da guerra, il governo arresterà i capi dell’opposizione e non aprirà alcun negoziato.
Intanto, l’ex premier thai Thaksin, in esilio a Dubai, ha lanciato ieri un nuovo appello al dialogo fra le due parti per evitare “il terribile abisso” delle violenze di queste ultime ore.
“Le foto che ho visto vanno al di là di ogni peggiore incubo” ha dichiarato Thaksin, che si è detto preoccupato per il rischio di una guerra civile nel Paese.
Un pericolo sempre più concreto, che ha attirato l’attenzione di mass media e osservatori politici, ma non quella della comunità internazionale, che non ha speso una parola su quanto sta accadendo in Thailandia.
Viene il sospetto che dietro a questo silenzio ci sia l’interesse degli Stati Uniti a far rimanere la repressione politica nel Paese asiatico una questione interna.
La Thailandia è infatti un alleato strategico per gli Usa, un importante partner commerciale e, soprattutto, un baluardo contro l’espansionismo cinese. Già in passato Washington, appoggiando il colpo di Stato che nel 2006 ha cacciato Thaksin dal Paese, ha mostrato di non vedere di buon occhio le camicie rosse, molto vicine a Pechino.