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Julius Evola e la tradizione del Sanatana-dharma (I parte)

di Giuseppe Gorlani - 27/05/2010

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Julius Evola fu un attento studioso delle dottrine cosmogoniche e metafisiche dell’India, poiché ne comprese il carattere normativo e universale. Egli focalizzò la sua attenzione in particolare sul Sankhya, sullo Yoga, sul Vedanta, sul Tantrismo e sul Buddhismo, in India considerato un darshana eterodosso. Grande fu anche il suo interesse per il Taoismo filosofico dell’antica Cina, del quale Lao Tzu e Chuang Tzu furono i principali esponenti. È importante sottolineare come il suo approccio alle discipline sovramenzionate non si riducesse ad un esercizio di carattere eruditivo, bensì sollecitasse in lui istanze di natura realizzativa. Egli cioè cercava nello studio delle tradizioni orientali elementi illuminativi e pratiche ascetiche capaci di risvegliare nell’uomo occidentale, purché dotato di particolari qualificazioni, la consapevole presenza di un Principio extra-samsarico. Le sue opere quindi, pur contenendo valutazioni talvolta errate oppure semplicemente opinabili e pur attingendo ad informazioni ormai superate alla luce delle più recenti acquisizioni nell’ambito dell’indologia, sono tutt’ora in buona parte valide per chi ambisca trovarvi spunti orientativi.
L’oggetto del presente studio verte essenzialmente sulla relazione tra Evola e il Sanatana-dharma, tentando di individuarne gli aspetti convergenti e quelli divergenti. Con la locuzione Sanatana-dharma non ci si riferisce ad una religione particolare, ma ad un insieme di prospettive sulla Realtà accomunate da una conoscenza cosmogonico-metafisica basata sull’esperienza diretta e da una particolare sensibilità che Max Müller tentò di riassumere nel termine “enoteismo”.
José Pereira, nel suo “Manuale delle Teologie Induiste”,(1) indica tre forme teologiche fondamentali: della Differenza, della Differenza-nella-Identità, dell’Identità, sostenendo, con ragione, che la teologia del Sanatana-dharma è tricotomica, poiché le include tutte.
Il termine “hinduismo”, impiegato comunemente, venne coniato dagli invasori islamici e in seguito, nell’Ottocento, i colonialisti inglesi ne fissarono definitivamente l’uso. Trattasi di un’espressione di natura geografica (indicante genericamente gli abitanti della Valle dell’Indo), nella quale, almeno sino a poco tempo fa, quei popoli non si riconoscevano. A dire il vero, neppure la locuzione Sanatana-dharma sarebbe del tutto appropriata per definire la tradizione indiana. Scrive il Jagadguru Sri Chandrasekharendra Sarasvati in un articolo intitolato “Dharma Hindu”: «Ultimamente è stato molto usato il termine Sanatana-dharma, ma neanche questo si può dire che sia esattamente il nome tradizionale della nostra religione, poiché in tal caso dovrebbe essere conosciuto anche dal povero contadino e dall’umile vedova, come avviene per le altre religioni create dall’uomo. [...] La vera grandezza della nostra fede consiste nel fatto di non avere un nome».(2)  Il Buddhismo ebbe inizio con Buddha, il Cristianesimo con Cristo, l’Islam con Maometto, Il Zoroastrismo con Zoroastro,  ecc., ma in questa tradizione, che percepisce se stessa quale religio eterna, non vi è alcun fondatore, umano o divino, e quindi essa non ha nome e le sue origini si perdono nella notte dei tempi.     
Dato lo spazio esiguo a disposizione, ci vediamo costretti a sintetizzare in alcuni punti cardine un argomento vasto e complesso.
Innazitutto ci avviamo ad esaminare la questione delle origini del Sanatana-dharma, tradizione che non è lecito designare tout court come “vedica”, poiché essa include popoli che hanno punti di riferimento diversi; Shiva, per esempio, è una divinità pre-ariana, pre-vedica, della quale si hanno i primi segni in India già dal VI millennio prima della nostra era.(3) Secondo Evola, il Dharma eterno venne portato in India dai popoli ariani di razza bianca, originari del nord, latori di una visione spirituale virile, olimpica, secca, i quali incontrarono nella Valle dell’Indo e nelle vaste pianure gangetiche i popoli dravidici autoctoni – che i Veda chiamano dasa o dasyu –, di razza scura, di natura “mistica”, dalla forte immaginazione, propugnatori di dottrine panteistiche e universalistiche e organizzati secondo strutture sociali matriarcali.
Orbene, la questione non è così semplice. Secondo Alain Daniélou, che visse in India tre lustri, gli ariani erano poco più che orde illetterate di pastori e di nomadi barbari calati dal nord e dunque: «[...] era inevitabile che lo sviluppo della cultura ariana si fondasse quasi esclusivamente sulla letteratura storica, religiosa e scientifica dei loro predecessori».(4) L’India a tutt’oggi sconosciuta è quella dei “Purana” – fonti spesso sottovalutate dagli occidentali perché considerate di matrice popolare – che vennero tradotti in sanscrito, non si sa da quali lingue, in epoca piuttosto tarda. «Essi – afferma ancora Daniélou – rappresentano l’antica tradizione, comune a tutta la popolazione indiana, che non solo è riuscita a sopravvivere all’invasione ariana, ma che successivamente l’ha anche assimilata. [...] Tutto lo svolgimento del pensiero sanscrito poggia su fonti pre-sanscrite».(5) Si noti come gli ariani avessero una tradizione orale, ma non conoscessero la scrittura, che appresero dai dravidi. Il sanscrito è in realtà una lingua artificiale che venne elaborata su basi linguistiche pre-esistenti (vedico e pracriti) per prendere il posto delle lingue pre-ariane più antiche, creando così un punto di coesione tra il mondo pre-ario e quello ario.(6)
Daniélou, nella sua “Storia dell’India”, nota come l’apporto dato al cosiddetto Hinduismo dai popoli autoctoni sia senz’altro superiore a quello dato dalle tribù ariane: «Sul piano della religione e della filosofia, gli Arii adottarono gli dèi e soprattutto le idee, la cosmologia, la metafisica degli antichi Indiani. È da questa influenza che nacquero i testi filosofici denominati “Upanishad” e i riti dell’Hinduismo. Molti dei saggi menzionati nei testi più tardi dei Veda e nelle “Upanishad” sono antichi profeti o filosofi degli Asura, uomini dalla pelle nera, rappresentati in un primo tempo come demoni, ai quali successivamente si riconobbe una dignità pari a quella dei profeti arii».(7)  E ancora: «La religione vedica assorbì, incorporò e preservò le forme e i riti degli altri culti. Invece di distruggerli, essa li adattò ai propri bisogni. Prese in prestito talmente tanto dai Dravidi e dalle altre popolazioni indigene dell’India che è molto difficile separare dagli altri elementi gli antichi elementi ariani».(8)
Secondo questa prospettiva, Evola, se da un lato ha ragione a contrapporre le concezioni di tipo moderno alla visione tradizionale, erra nell’opporre drasticamente tra loro:  «le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie».(9) Ogni razza è sicuramente portatrice di particolari caratteristiche spirituali, non lo si può negare, e in India questo si è sempre saputo; il destino o dharma del Bharatavarsha è stato, infatti, quello di tentare di preservare il più possibile le varie identità etniche e razziali, permettendo però loro di riconoscersi ed armonizzarsi in una sorta di ortoprassi fondata sulla verità metafisca enunciata nelle “Upanishad”. Nel caso invece degli ariani – da qualunque parte essi provenissero – e dei dravidi c’è stata nel corso dei millenni una tale integrazione a tutti i livelli che ormai è inattuabile la pretesa di distinguerli in modo categorico.
Lo scontro-incontro tra la religiosità ariana e quella dravidica e l’imporsi, per certi versi, di quest’ultima sulla prima si riflette nel mito del sacrificio di Daksha, epifania di Brahma. Daksha non amava Shiva, pur avendogli dato in sposa la figlia Sati, poiché lo considerava un dio lubrico, impuro, non osservante dei riti e selvaggio. Perciò, quando Shiva non si alzò al suo arrivo al sacrificio del Prayaga, lo maledisse e lo escluse dal Sacrificio. A causa di ciò, Sati, che in Shiva vedeva la natura di Parmeshvara, fu presa da vergogna e si arse nel fuoco yogico da se stessa suscitato. Shiva allora distrusse il sacrificio, decapitò Daksha, uccise tutti gli altri partecipanti e mutilò gli dèi. «Dopo che Virabhadra [personificazione dell’ira di Shiva] ebbe distrutto il sacrificio, Shiva stesso si levò dalla fossa sacrificale, e Daksha lo venerò con un inno che celebrava i milleotto nomi del Signore».(10) In questo mito Shiva rappresenterebbe la spiritualità dei dravidi e Daksha quella degli arii.
Scrive ancora Daniélou, in un’altra sua importante opera: «Lo Shivaismo era stato per secoli una religione perseguitata, presentata come la religione degli anti-dèi e dei demoni. [...] Dopo secoli di dominazione ariana, tuttavia, il rituale vedico e la connessa filosofia erano stati talmente pervasi dalla saggezza degli antichi asura, che erano stati profondamente trasformati. La differenza tra pensiero ariano e non ariano era diventata così esigua che fu facile far posto apertamente ad aspetti del culto di Shiva per i quali i primi ariani avevano ostentato orrore e disprezzo».(11)
Chiunque sia penetrato in profondità nella conoscenza della cultura e della religiosità indiane sa che le iniziazioni shivaite sono le più elevate.(12) Evola lo ammette nel suo notevole studio “Lo Yoga della Potenza”, ma, considerando Shiva già contenuto in nuce nel dio vedico Rudra, non ne trae le debite conseguenze.(13) Tra l’altro, «Rudra potrebbe essere stato, in origine, una divinità prevedica, come indica un inno a lui rivolto nell’Atharva-veda (XI.2, 1-17)».(14) Per uno shaiva, comunque, Rudra e Shiva sono i due volti, irato e pacifico, del medesimo dio.
Shiva è il dio imprescindibile, poiché dona agli uomini del Kali-yuga – il cui dharma e la cui intelligenza si sono ridotti dei tre quarti – lo Yoga, la prospettiva tantrica, la cosmogonia Sankhya e la metafisica realizzativa non dualista. Egli, in quanto Dakshinamurti, presiede al nivritti-marga, ovvero alla via di riassorbimento dell’ente nella sua più intima verità non-duale e, in quanto Paramashiva, è assimilabile al Brahman nirguna che contiene e trascende Ishvara (nei suoi tre aspetti, Trimurti), e la sua Shakti.
Inoltre, non soltanto Shiva apparteneva alla spiritualità pre-aria, bensì pure Krishna, Rama e la Devi dalle molteplici manifestazioni (Durga, Kali, Parvati, ecc.), tutte divinità al cui culto è dedita la maggioranza della popolazione indiana attuale.(15) Osserva Giuseppe Tucci: «[...] mentre gli dei vedici sono quasi del tutto scomparsi, al loro posto sono subentrati altri, i cui prototipi si ritrovano appunto nei remoti albeggiamenti della religione autoctona».(16) È importante altresì notare come la “Bhagavad-gita” – che Evola pregiava assai – sia il resoconto di una battaglia tra dravidi (i Pandava) e ariani (i Kaurava); ed è significativa la vittoria dei primi sui secondi.
Alcuni studiosi eminenti, in primis Colin Renfrew, mettono addirittura in discussione l’origine extra-indiana degli ariani; egli, nella sua opera “Archeologia e linguaggio”, scrive: «Quando Wheeler parla dell’“invasione ariana della Terra dei Sette Fiumi, il Punjab” egli, per quanto ci è dato vedere, non ne ha alcuna prova. Se si controlla la dozzina di riferimenti del Rigveda ai Sette Fiumi, non vi è nulla, a mio avviso, che implichi un'invasione: la Terra dei Sette Fiumi è la terra del Rigveda, la scena dell'azione. Nulla implica che in essa gli Arii fossero stranieri, né che gli abitanti delle città fortificate (compresi i Dasyu) fossero più indigeni degli Arii stessi».(17) Poco più avanti si legge ancora: «Vi sono certamente elementi di continuità tra la civiltà dell’Indo e quelle ad essa successive. [...] Gli Allchin non suggeriscono che la stessa civiltà dell’Indo fosse probabilmente di lingua indoeuropea, ma semplicemente che potrebbero già essere riconosciuti elementi, al suo interno, che saranno caratteristiche successive della cultura indoariana come appare nel Rigveda».(18)
In India la teoria che attribuisce un’origine nordica, in senso geografico, alla propria tradizione non viene in genere accettata. Il Monte Meru, l’axis mundi, viene identificato simbolicamente nell’Everest. I pandit hindu sostengono che il Sanatana-dharma non sia stato portato in India da popoli provenienti dal nord, ma che fosse già lì. Scrive ancora il Jagadguru Sri Chandrasekharendra Sarasvati appartenente al lignaggio shankariano: «[...] per lungo tempo la nostra è stata la sola religione esistente sulla faccia della terra. Tutte le altre religioni del mondo hanno ripreso e sviluppato alcuni aspetti della fede maggiore degli Hindu che li contiene tutti».(19)
È vero che Bal Gangadahar Tilak – i cui studi vennero pregiati sia da Evola che da Guénon e che i suoi contemporanei chiamarono Lokamanya «maestro onorato nel mondo intero» – non fu un Hindu occidentalizzato, tuttavia si deve sapere che le sue ipotesi su “La Dimora Artica nei Veda” (titolo di una sua celebre opera) vengono rifiutate da eminenti rappresentanti della tradizione indiana. In proposito ho avuto l’occasione di visionare personalmente una lettera di uno Swami dell’ordine Sarasvati in cui si afferma che Tilak, pochi anni prima di morire, abbia sconfessato le proprie teorie in un breve scritto che poi andò smarrito.
A conferma di come sia opportuno procedere con cautela nell’ambito della questione delle “origini”, Jan Gonda, in “Veda e antico Induismo”, scrive: «[...] il disseppellimento delle città di Mohenjodaro e Harappa aveva dimostrato come errata l'opinione sino ad allora in vigore, secondo la quale gli ariani sarebbero stati i fondatori della cultura superiore dell'India antica. L'origine, i portatori e la struttura politica di questa cultura sono questioni aperte».(20) Come se non bastasse, nel libro “Antica India. La Culla della Civiltà”,  Georg Feuerstein, Subhash Kak e David Frawley riassumono in diciassette punti le ragioni per le quali l’invasione ariana non si sarebbe mai verificata.(21)
La mole delle citazioni riportabili sarebbe enorme; qui ci si è limitati ad alcuni cenni, i quali però dovrebbero quantomeno suscitare una certa prudenza nell’attribuire alla tradizione del Sanatana-dharma origini prevalentemente ariane.  
Alla luce di quanto sovraesposto, si deve ammettere come la critica mossa ad Evola di eccessiva schematizzazione nell’ambito della morfologia delle civiltà non appaia del tutto errata. Nuccio D’Anna, nel suo ottimo lavoro “Julius Evola e l’Oriente”, osserva: «Il rischio delle analisi di tipo rigidamente “dualistico” quale Evola visibilmente riprende dall’orientalismo accademico del suo tempo, è quello di separare ciò che in se stesso è uno, di considerare artificialmente contrapposte dottrine che invece appaiono come aspetti diversi di un’unica realtà spirituale».(22)
Un’altra questione essenziale da esaminare è la concezione dell’“io”. Ad essa sono connessi per derivazione altri temi controversi: il significato e il valore dell’azione, la gerarchia, i poteri o siddhi, la contrapposizione libertà-liberazione, la rinuncia, l’interpretazione evoliana del Buddhismo, la trasmigrazione e le vie post-mortem.
Nelle opere di Evola viene più volte riproposta la distinzione fondamentale tra io empirico e Io assoluto o Sé; cionostante in molti punti il lettore attento, trovandosi di fronte ad ambiguità e incongruenze circa la natura del soggetto, non può non domandarsi: «chi agisce?», «chi aspira alla liberazione?», «chi acquisisce il potere?», «chi è libero?». A complicare le cose interviene l’interiore adesione di Evola al cosiddetto Buddhismo ario delle origini, caratterizzato, come si sa, dalla dottrina dell’anatman, ovvero del non io e del non sé. Il Buddhismo nega qualsiasi io o sé, ma non spiega chi sia colui che nega e nemmeno come possa darsi l’aspirazione all’incondizionato in un ente inesistente, effetto e causa ad un tempo di automatismi karmici senza soluzione di continuità. Inoltre, il negatore, affermando l’inesistenza di qualsiasi io e di qualsiasi forma di conoscenza – dato che ogni ente o verità sono prodotti provvisori di un numero indefinito di relazioni –, destituirebbe il suo stesso punto di vista di ogni credibilità: se non c’è alcun io, chi sta proclamandone l’inesistenza? La questione è talmente spinosa che nel Mahayana alcune scuole si sono viste costrette a riammettere l’“io”, magari sotto mentite spoglie.(23) D.T. Suzuki, il noto studioso appartenente alla tradizione Zen, afferma esplicitamente: «La negazione dell’Atman riaffermata dagli antichi buddhisti si riferisce all'Atman come io relativo, non come io assoluto».(24)
Un esponente buddhista contemporaneo, Giangiorgio Pasqualotto, vede però le cose in modo radicalmente diverso; innanzitutto egli sostiene che «per il Buddha non vi è nulla di incondizionato»(25) e poi interpreta la dottrina dell’anatman come negazione e dell’Atman-Brahman, e del jivatman, e del sé come pronome riflessivo.(26) Superfluo dire che in Occidente questa è oggi l’interpretazione più diffusa.
Evola nei suoi due scritti “Lo Yoga della Potenza” e “La Dottrina del Risveglio” prende in considerazione, dunque, due prospettive inconciliabili sul piano dottrinale, anche se poi sotto il profilo concreto della sadhana possono esservi numerosi punti in comune e, secondo l’ottica dell’“esperienza” illuminativa, può esservi coincidenza.
Le ambiguità ed incongruenze delle quali si diceva poc’anzi sono ravvisabili, per esempio, nella seguente frase: «Nell’ascesi di tipo religioso e mistico la “mortificazione”, la rinuncia all’Io [...] sono i mezzi preferiti con i quali si cerca di provocare la crisi ora accennata e di sorpassarla. Ma noi sappiamo che secondo l’altra via il mezzo per venire a tanto è l’esaltazione attiva, il risveglio dell’elemento “azione” allo stato puro».(27) Innanzitutto non si capisce come mai l’“Io” al quale il mistico dovrebbe rinunciare sia scritto con la maiuscola – l’io al quale si può rinunciare non sarà mai di certo l’Io ultimo – e poi non è affatto chiaro “chi” si debba risvegliare all’azione pura. Riguardo a quest’ultima, egli manifestatamente si ispira all’insegnamento di Krishna nella “Bhagavad-gita”; in questo testo, tuttavia, l’azione pura, distaccata dai suoi frutti, viene sì considerata un mezzo di purificazione particolarmente adatto ad uno kshatriya, purché si fondi sulla Conoscenza-Jnana. L’imprescindibilità della Conoscenza di Sé, ovvero la soluzione del soggetto agente nell’Atman, la si desume dal seguente sutra: «Colui che crede di essere ucciso e colui che pensa di uccidere sono entrambi in errore: Quello [il Sé] non può uccidere né essere ucciso».(28) Dunque, non vi è alcun io separato che agisce, bensì il dharma in quanto espressione del nómos e della volontà del Purusha: la Persona indistruttibile (akshara purusha), Vishnu, che sul piano individuato si manifesta come buddhi, l’intelletto sovrarazionale.(29) Purusha è un termine con una vasta gamma di significati; letteralmente è traducibile con “uomo”, “persona”, “essere”, “maschio”, “genere umano”, ma, a seconda dei contesti in cui viene usato, può significare Spirito, Sé, Brahman. Qui lo si usa soprattutto nel significato di Uomo cosmico, epifania divina, dal cui sacrificio è scaturito l’intero universo.  
Utilizzando una differente terminologia, il già citato Suzuki nota: «L’illuminazione consiste nella visione interna del significato della vita come intergioco tra l’io relativo e l’io assoluto. In altre parole, l’illuminazione significa vedere l’io assoluto riflesso nell’io relativo ed agente attraverso lui».(30) E Fung Yu-lan scrive nella sua “Storia della filosofia cinese”: «Che cosa significa esattamente lo stato di Nirvana? Si può dire che sia l’identificazione dell’individuo con lo Spirito universale o con ciò che è chiamata la natura del Buddha; oppure può essere considerato la comprensione o intima consapevolezza dell’originaria identità dell’individuo con lo Spirito universale. Tale individuo è lo Spirito universale [...]».(31)
Si noti come da queste citazioni venga alla luce un Buddhismo più vicino al Vedanta,(32) ma in netta divergenza con quello del sovramenzionato Pasqualotto e pure con quello propostoci da Evola, il quale, riguardo all’individualità e all’universalità, scrive: «Ciò che vi è di “universale” in un essere sarà considerato come il meno, come quel che in esso vi è di meno reale, di più astratto, di incompiuto; nell’“individuale” si intenderà invece ciò che ha valore, ciò che va voluto, ciò che è più reale, la perfezione, o fine (télos), di un essere. Ma, com'è noto, è esattamente questa la veduta di uno dei massimi esponenti dell'antica nostra cultura, di Aristotele, il quale contro Platone affermò che i “generi” e le “idee” in tanto hanno realtà, in quanto si incarnino e si attuino negli individui. Questa veduta generale antimistica e antiuniversalistica, nel caratterizzare esattamente lo spazio del mondo occidentale in opposto a quello orientale, non esprime, anch'essa, che l'opposizione che in questo piano è determinata dal duplice riferimento a “verità guerriere” e “verità contemplative”».(33)
Il discorso di Evola è per certi versi condivisibile: egli paventa l’omologazione egualitarista. Si deve tener conto, tuttavia, di come la tradizione sapienziale indiana non appiattisca l’individuo all’interno dell’uguaglianza orizzontale, né tantomeno lo annichilisca in una indistinta “universalità”, bensì tenda a purificarne la personalità da ogni scoria karmica, offrendogli la possibilità di esprimere pienamente il proprio svadharma, che potremmo anche identificare nella “per-sona”(34) attraverso la quale l’Atman si manifesta. Lo svadharma inerisce la natura propria dell’ente, ma deve essere in ogni caso ricondotto al dharma metafisico o universale. Il fine ultimo dell’esistenza umana (purusharta) è, infatti, «la trascendenza dello stato umano (purusha) nell’integrale liberazione»(35) e non certo l’affermazione dell’individualità effimera e nemmeno della personalità; da tale punto di vista una “personalità olimpica” (espressione cara ad Evola) potrebbe valere soltanto se intesa quale involucro sottilissimo per mezzo del quale i mahavira, i mahayogin o i liberati in vita si palesano agli altri uomini, mentre esauriscono il prarabdha-karma, ovvero il karma equiparabile alla freccia che è già stata lanciata, dal quale tuttavia nell’intimo non vengono minimamente toccati.
Scrive l’advaitin Raphael: «Un altro approccio sbagliato è quello di credere che perdendo l’individualità l’ente si ritrovi sciolto nella “materia” privo di coscienza, confondendo così l’Essere e l’ente con la sostanza primordiale, con la materia prima, che rappresenta invece il polo complementare (e non opposto) dell’essenza, mentre l’essere e l’ente si trovano di là dall’essenza-sostanza: i due poli da cui procede la manifestazione formale. In termini vedanta la sostanza universale è prakriti, e l’ente non si scioglie in questa; sono i suoi corpi-veicoli che si sciolgono nella prakriti ».(36) Nella realizzazione prospettata dal Vedanta non si ha quindi alcuna dissoluzione nell’indistinto e nell’“informe”, ma un risveglio a Quello che si È realmente.
In India si ritiene che la vita umana abbia quattro scopi: dharma (virtù, dovere), kama (piacere, passione), artha (ricchezza, potere) e moksha (liberazione). Per realizzare quest’ultimo, che è lo scopo supremo, si devono preliminarmente realizzare gli altri tre. Vi è dunque un momento in cui le qualità individuali vanno coltivate e migliorate (pravritti-marga) e un momento in cui tutti gli aspetti della vita umana vanno risolti nella Liberazione (nivritti-marga). Se ne deduce che all’interno del Sanatana-dharma non vi è opposizione tra “verità guerriere” e “verità contemplative”, né esclusione delle une o delle altre; esse piuttosto ineriscono a particolari svadharma e rappresentano stati coscienziali in rapporto gerarchico tra loro. Si deve tuttavia sottolineare come l’azione, qualsiasi azione, non potrà mai condurre alla Conoscenza per identità. Il karman, sia esso pertinente ai vari stadi di vita (ashrama-karman), o concernente i diversi ordini sociali (varna-karman), può tutt’al più, se eseguito con sereno distacco, creare delle condizioni proficue all’insorgere della Conoscenza. Scrive N. Veezhinathan: «Si dovrebbe notare che tutti i karman sia obbligatori sia facoltativi contribuiscono solo in maniera remota e mai in maniera diretta e finale al sorgere della conoscenza dell’atman».(37) Nella “Bhagavad-gita” si sottolinea ripetutamente come il distacco dai frutti dell’azione e il distacco dall’azione stessa implichi la soluzione dell’“io” individuato: «Colui [...] il cui atma si è espanso in tutti gli esseri, anche se produce azione, da questa non è contaminato. Colui che si è unificato e che conosce l’essenza dei fenomeni deve dire: io non faccio in verità alcuna cosa».(38) E René Guénon, in un suo saggio giovanile, nota in modo estremamente chiaro: «[...] l’azione presuppone il cambiamento, che è possibile soltanto nel formale o nel manifestato; il Mondo senza forma è immutabile, superiore al cambiamento, dunque anche all’azione, ed è per questo che l’essere non più appartenente all’Impero del Demiurgo è senza azione».(39)
Sicuramente, come Evola afferma, l’«ascesi mira a mettere tutte le forze dell’essere umano in soggezione a un principio centrale»,(40) producendo «una forza interiore», ma bisogna puntualmente chiedersi “chi” si dedichi all’áskésis e “chi” sia il «principio centrale»; e in questo modo ci si apre alla Conoscenza. Se l’azione non si assoggetta o, meglio, non si offre alla Conoscenza, diventa cieca e invece di preparare condizioni favorevoli allo svelamento del Vero sé, incatena viepiù.
Il Nostro, in alcune riflessioni sull’opera di Guénon, scrive: «Si è che il termine di “intellettualità pura” usato dal Guénon per l’organo della “conoscenza metafisica” cela un equivoco, anzi un paralogismo, perché effettivamente esso vuol dire “realizzazione” e ogni “realizzazione” comprende due aspetti, due possibilità che sono: azione e contemplazione. Il Guénon surrettiziamente identifica il punto di vista metafisico con quello in cui la contemplazione domina sull’azione, laddove è di uguale dignità l’altro, in cui l’azione invece domina sulla contemplazione e viene a fornire essa stessa una via e una testimonianza della trascendenza, così come nelle tradizioni di sapienza eroica degli kshatriya (guerrieri) conosciute dallo stesso Oriente, se pure in frequente contrasto con quelle più predominanti dei brahmana, alle quali si rifà l’attitudine del Guénon».(41) Abbiamo già sottolineato come la principale tradizione di sapienza eroica orientale alla quale si riferisce Evola, quella della “Bhagavad-gita”, ponga a fondamento dell’azione pura la Conoscenza di Sé; troviamo pertanto ingiustificata la pretesa di Evola di mettere sullo stesso piano azione e Conoscenza. Guénon, nell’affrontare la questione in oggetto, si avvale di un linguaggio tradizionale, estremamente analitico e sintetico ad un tempo, che lascia pochissimo spazio ad ermeneutiche personali, mentre Evola, esaltando nella via attiva dell’eroe la capacità di condurre d’un balzo alla realizzazione “metafisica”, saltando lo stadio contemplativo, non attinge ad alcun linguaggio tradizionale in grado di spiegare la natura del soggetto agente. L’affermare un’individualità solare incapace di risolversi nella coscienza universale lo pone in contrasto con la Scienza sacra proclamata dalla Smriti e dalla Shruti.
Nello stesso scritto testé citato, egli osserva ancora: «Ma dal punto di vista brahmano, l’antitesi con l’Occidente si fa aspra ed irriducibile, perché lo spirito dell’Occidente ha appunto una tradizione essenzialmente guerriera, epperò rivela possibilità di latenti vie di reintegrazione solamente quando gli si vada incontro partendo dai princìpi e dalla comprensione del metafisico che sono propri ad una sapienza guerriera: e quei valori occidentali, come quelli dell’affermazione individuale, della pluralità, della libera iniziativa e dell’immanenza, più che negazione, apparirebbero come elementi allo stato materiale da elevare ad un piano spirituale, secondo l’anima di una tradizione veramente occidentale, cioè guerriera».(42)
Ci pare opinabile che la tradizione occidentale sia «essenzialmente guerriera» e che i suoi valori, elevabili ad un piano spirituale, siano l’affermazione individuale, la pluralità, la libera iniziativa, ecc. Le grandi civiltà guerriere da noi conosciute attingevano tutte, in modo più o meno palese, ad un vertice sapienziale immanente e trascendente ad un tempo, senza il quale non può esservi un’azione politica ordinata e spiritualmente orientata. Esattamente come in India o altrove. Si dovrebbe piuttosto rilevare come in Occidente il processo di allontanamento dal Rita cosmico, imperniato sulla Conoscenza per identità, sia avvenuto assai prima che in Oriente, portando al culto dell’effimero, all’omologazione, all’idolatria della scienza empirica e al servaggio alla tecnica cibernetico-informatica che riduce l’ente a “risorsa”, inscrivendolo «nell’orizzonte della pianificazione del tutto»(43) e privandolo dell’essere.
In una sua opera giovanile, Giorgio Colli accosta Eraclito a Nietzsche e rileva come essi: «partiti da un’unica individualità, non arrivano mai al riposo e la loro aspirazione è una fiamma che non ha pace, perché non riescono a superare l’estrema antitesi, quella tra l’individualità separata da tutti e da tutto e la realtà che è comune a tutte le cose, è xunón, è universale».(44) Si direbbe che anche Evola per certi versi non abbia risolto tale antitesi. Nello stesso studio Colli parla di filosofi-mistici, ridando al secondo termine il suo significato orginario; egli altresì sostiene come la razionalità filosofica valga quale tentativo per portare agli uomini l’influsso ordinatore scaturente dall’esperienza mistica, diretta ed inesprimibile, della Verità. Il rapporto gerarchico che se ne evince è: sapienza, logos, azione.  
Cito un’ulteriore riflessione di Evola inaccettabile dal punto di vista della tradizione indiana: «Il brahman, allora, non è più come nel primo periodo atharvavedico e, ancora, in quello dei Brahmana, il soffio, la sostanza spirituale informe che l’Ario domina col suo rito: è invece l’Uno-tutto, l’elemento primordiale omogeneo dal quale procede ogni vita e nel quale essa si ridissolve. Interpretata in tal senso panteistico, la dottrina dell’identità dell’atma col brahman equivale alla negazione della personalità spirituale e si tramuta dunque in un fermento di degenerescenza e di promiscuità: uno dei suoi corollari sarà l’identità di tutte le creature».(45) In riferimento al termine brahman (dalla radice verbale brh, “crescere, far crescere, gonfiarsi”), nelle “Upanishad” classiche, ritenute “essenza” o “fine” dei Veda, si riscontra effettivamente un’evoluzione del suo significato: da “potenza impersonale”, “potenza del rito” o “formula magica” a “principio metafisico”, “assoluto essere”.(46) In tale mutazione semantica – che non nega i significati precedenti e che, secondo Daniélou, avviene presumibilmente per influsso dei dravidi sugli ariani –, non riusciamo tuttavia a scorgere una degenerescenza o una involuzione in senso panteistico, bensì un’approfondimento, un’innalzamento.
Evola è molto preoccupato dall’eventualità che nella cosiddetta realizzazione ultima sparisca la “personalità spirituale” (stranamente in ciò sembra manifestare una sorta di retaggio devozionale),(47) però non spiega che cosa tale locuzione significhi in chiave metafisica. O il Nostro si attiene ad una realizzazione di carattere inferiore, inerente l’ambito da lui definito “mistico”, oppure, se si riferisce alla realizzazione ultima, parlare di “personalità spirituale” non ha alcun senso. Come può sopravvivere, infatti, alcunché di separato dall’Assoluto, onnipervadente e trascendente ad un tempo, quando questi si risveglia consapevolmente a se stesso? Insistere ad affermare un concetto di tal genere equivale a postulare l’esistenza di due assoluti; il che ovviamente è impossibile. Inoltre, dalla citazione sovrariportata sembra emergere una specie di confusione tra il piano orizzontale e quello verticale; orizzontalmente vige la legge della diversità, verticalmente vi è identità.
In “Rivolta contro il mondo moderno” egli traduce altresì nirguna, epiteto del Brahman assoluto, con “informe”. Sarebbe semmai opportuno dire sovraformale o, meglio, non duale. A causa di tali incomprensioni, Evola taccia il Vedanta shankariano di panteismo, e lo ritiene espressione apicale di una spiritualità demetrica. Sembra che egli non comprenda come maya sia un riflesso della Realtà fondamentale, ma mai la Realtà stessa.  
Scrive René Guénon: «Gli “pseudo-metafisici” dell’Occidente hanno l’abitudine di confondere con l’Universale cose che, in realtà, appartengono all’ordine individuale; o meglio, dato che essi non concepiscono affatto l’Universale, ciò a cui indebitamente attribuiscono questo nome è di solito il generale, che propriamente è soltanto una semplice estensione dell’individuale. Certuni spingono ancora oltre la confusione: i filosofi “empiristi”, che non riescono neanche a concepire il generale, l’assimilano al collettivo, che, in verità, è proprio soltanto del particolare».(48)
Non si può certo dire che Evola sia stato uno “pseudo-metafisico”, ma parrebbe che in questo caso egli abbia usato il termine “universale”, contrapponendolo ad “individuale” in modo equivoco, senza distinguere, oltretutto, tra la via d’andata, affermatrice dell’individuazione, e quella di ritorno, che la trascende.
Un altro “barone nero”, Roman Fëdorovic von Ungern-Sternberg, ebbe preoccupazioni simili a quelle di Evola e lottò sino alla morte per difendere il principium individuationis, opponendo: «alla Rivoluzione rossa, che vuole trasformare il genere umano in una massa indistinta – il vecchio sogno cristiano –, la volontà di restituire a ciascuno la propria personalità. Un buriato non sarà mai un calmucco, né un bianco un giallo. Però possono combattere insieme per affermare nel mondo la differenza tra i popoli e gli uomini. Questo è il senso della mia lotta: la rivincita dell'individuo. Odio l'uguaglianza. È la menzogna dei profeti. Non vi è un solo popolo che assomigli ad un altro popolo. Un solo uomo che assomigli ad un altro uomo».(49)
Nello scritto, “La dottrina aria di lotta e vittoria”, Evola sostiene la possibilità di: «trasformare l’io individuale della normale coscienza umana, che è circoscritta e individuata, in una forza profonda, super individuale».(50) Sembrerebbe quasi che egli, nella sua aspirazione indubitabile all’Incondizionato, di là da ogni dualità, salti un passaggio fondamentale nel processo del Risveglio, ovvero quello in cui il Jivatman, si distacca  dall’identificazione nell’individuazione – potremmo anche dire “muore” o “rinuncia” –, per risvegliarsi alla sua natura essenziale, assoluta di Atman. Come abbiamo visto, la “Bhagavad-gita” insegna che l’azione eroica, risolutrice dell’ignoranza, non scaturisce dall’aspetto individuato dell’uomo, bensì dall’Essenza sovraindividuale immanente in lui. In altre parole, non si può trasformare l’ignoranza-apparenza in conoscenza-realtà, bensì il Jivatman, il Sé incarnato, può, appellandosi alla seconda, di cui è essenziato, risolvere il velo obnubilante e soltanto apparentemente reale della prima. Si parte dall’oro per arrivare all’oro: è il dio nell’uomo che si risveglia al dio oltre l’uomo. O, per dirla con Gaudapada: «L’immortale non diviene mortale, e neppure il mortale immortale. Non si verificherà mai in alcun modo il divenire altrimenti di un principio primo».(51) In mezzo sta, dal punto di vista relativo, la morte iniziatica. Non c’è una realtà mia o tua, c’è la Realtà assoluta della quale giustamente si dice che è nirguna, cioè priva di qualificazioni e non duale, poiché tutto comprende, anima e trascende. Non può esservi pertanto alcuna sussistenza di un “Io solare” o di una “personalità spirituale” – come sostiene Evola – nello svelamento della Verità in sé, a meno che con tali espressioni ci si riferisca alla “Persona” intesa in senso guénoniano, ossia al Principio causale sul piano individuato, l’Atman riflesso nel jiva, appartenente all’ordine manifesto. Anche in questo caso, si tratterà comunque di una sopravvivenza relativa e non certo della suprema Identità.  
Si legge ancora nella “Bhagavad-gita” (che in India viene considerata Smriti, tradizione rammentata, a differenza delle “Upanishad” che sono considerate Shruti, tradizione direttamente udita): «Solo l’uomo che si è liberato da ogni desiderio, che agisce senza attaccamento, senza più il sentimento dell’io e del mio, raggiunge la pace».(52)
Forse non sarà superfluo sottolineare come gli uomini identificati nel proprio io effimero siano facilmente omologabili, mentre quelli che hanno trovato (o che aspirano a trovare) il proprio “fondo” nell’identità con l’Essere non sono condizionabili da nulla, pur accogliendo in sé tutto. È un errore prospettico considerare la “rinuncia” all’io che nasce e che muore, per quanto regale o elevato esso appaia, come una privazione o un appiattimento; piuttosto la si dovrebbe considerare quale conditio sine qua non all’affermazione assoluta: la stessa che Evola intuì e alla quale aspirò.
Il poeta Bhartrihari – da distinguersi, pare, dall’omonimo grammatico del VII sec. – coglie l’inanità dell’“io” desiderante in alcuni versi: «“Ottenni grazie stillanti ogni piacere” / – e allora? / “Ho messo il piede in testa ai miei nemici” / – e allora? / “Chi mi è caro, provvidi di ricchezze” / – e allora? / “Vivono per un evo i corpi umani” / – e allora?».(53) Si noti come questi versi siano impregnati di spirito tantrico: l’Autore non ha rigettato a priori la condizione umana, ma l’ha penetrata, compresa e, avendo pienamente sperimentato la relatività di kama e artha, ora avverte i primi morsi della fame d’Assoluto.
In Occidente spesso si tende a considerare “metafisica” ciò che invece è ancora “fisica”, sia pur rarefatta. Il dominio, se così si può dire, della metafisica upanishadica trascende invece ogni stadio, ogni corpo, ogni separatività e persino Ishvara, il Principio ontologico. Benché tale Ineffabile sia inintelligibile e possa essere svelato solo per identità, è immanente nell’essere umano sotto forma di buddhi, ovvero di noũs, l’intelligenza capace di distaccarsi dal senso dell’io (ahamkara) diveniente e di intuire il Non-esistere in quanto puro e assoluto Essere senza dualità. Vi è quindi, anche secondo la prospettiva metafisica vedantica, una continuità tra l’umano e il divino e non uno iato incomprensibile, come sostiene Evola ne “Lo Yoga della Potenza”: «Di rigore, la dottrina della maya del Vedanta estremistico andrebbe dunque a negare al singolo la stessa possibilità di innalzarsi verso il Principio, perché una tale possibilità presuppone che fra l’uno e l’altro non vi sia uno iato, un rapporto da non-essere ad essere, bensì una certa continuità».(54) La continuità nell’Advaita non è però data dal trasformarsi dell’umano nel divino – giacché come Evola ben sa: «è impossibile che qualcosa possa trasformarsi in un’altra che ne è la contraddizione» –,(55) bensì dall’onnipervadenza e non dualità dell’Ineffabile, non condizionato da qualsivoglia azione. Per usare la classica metafora della corda e del serpente: la prima è tale anche quando su di essa viene proiettata per ignoranza l’immagine del secondo. Il serpente che si crede di vedere non si trasforma nella corda-realtà, bensì sparisce non appena si guardi attentamente. Guardare attentamente va interpretato come una presa di coscienza immediata.
Nota Mario Piantelli in una sua bella opera su Shankara: «Quando Aravinda Ghosh avverte un difetto nella prospettiva dell’Advaita, perché essa fa del mondo agli occhi della coscienza divina un’illusione senza significato [...] mostra chiaramente come, accettando la realtà del mondo, si viene a tagliar fuori l’individuo nella sua condizione immediata dall’attingimento di una esperienza definitiva, quale agli esponenti del pensiero indiano d’ogni scuola nell’antichità appare ovvio debba essere il moksha».(56) In una simile visione, la proiezione di uno iato insormontabile viene attribuita alla prospettiva secondo la quale il mondo e la condizione umana diveniente sarebbero reali. Del resto si deve ammettere che l’unica verità o certezza che “possediamo”, o della quale siamo “persuasi”, per dirla con Michelstaedter, è l’essere qui; tutto il resto è dóxa, opinione. Non sappiamo che cosa significhi essere qui, ma ne siamo affatto consapevoli. È da tale “qui”, coincidente con l’assoluta evidenza, non collocabile né nel tempo né nello spazio, che si deve pertanto partire per la “ricerca” dell’Immutabile, del Sostrato, del Summum Bonum, del Sé supremo, o che dir si voglia.
Accusare il Vedanta di non saper spiegare il perché dell’ignoranza (avidya) è irrilevante; «la Realtà non è oggetto di dimostrazione concettuale, ma di realizzazione coscienziale», nota incisivamente Raphael.(57) La funzione di una dottrina iniziatica non consiste nello spiegare il “perché” a livello mentale, ma nell’additare in modo efficace la mèta ultima: solo il risveglio immediato, hic et nunc, sa illuminare, al di là di ogni parola, quello che per la coscienza empirica, puntualmente immedesimata nel divenire, resta e resterà sempre un Mistero.
Secondo questa prospettiva, aveva perfettamente ragione il Buddha ad invitare al silenzio, stigmatizzando “il demone della dialettica”. In tale veste però risulta impossibile vedere in lui il fondatore dei più disparati buddhismi, i quali ridanno vigore allo stesso demone che egli condannava:(58) non a caso, in chiave Hindu, il Buddha è considerato un sovvertitore del dharma, oppure un traghettatore, un mistagogo, un maestro mauna, silenzioso, le cui parole sono inseparabili dal potere-shakti emanato dalla sua presenza, o un avatara.
Forse da quanto sopra esposto si possono comprendere meglio le ragioni per le quali Evola non riuscì a riconoscere pienamente la vertiginosa grandezza del Vedanta shankariano: dottrina che sintetizza magistralmente le correnti spirituali ariane e pre-ariane e le istanze buddhiste. Shankara – nel quale il popolo indiano riconobbe un avatara di Shiva –, benché avesse codificato la dottrina della maya-vada, ripristinò il panchayatana-puja (l’adorazione delle cinque grandi divinità Hindu), cantò inni alla Dea, ed elogiò il supporto della devozione all’Ishta-devata. Con tali iniziative, all’apparenza contraddittorie, egli diede prova di una grande e illuminata saggezza, poiché, a ben vedere, esoterismo ed exoterismo non sono nettamente separabili: anche la verità più sublime si esprime o si radica in qualche modo nella verità exoterica, potremmo dire popolare.(59) Un re che non sia espressione apicale di un popolo non è un re. Intendiamoci, i popoli orientati tradizionalmente non sono masse, ma entità spirituali. Se intesi così, bisogna purtroppo ammettere che oggi essi si stanno estinguendo. Mutatis mutandis, anche le vie che pongono l’accento sulla pratica non potrebbero nemmeno manifestarsi se non poggiassero su di una solida dottrina e questa, a sua volta, sull’identità con l’Essere.