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La Resistenza palestinese e il nuovo round di negoziati di pace

di Moreno Pasquinelli - 07/09/2010


Giovedì 2 settembre, proprio mentre il primo ministro sionista e il presidente dell’Autorità nazionale Palestinese, su invito dell’imperatore Obama, convolavano all’ennesimo colloquio di pace, la Resistenza palestinese ha fatto sentire la sua voce. Attraverso i loro bracci armati, praticamente tutte le organizzazioni politiche palestinesi (tutte tranne al-Fatah e un paio di gruppi salafiti-jihadisti) hanno convocato a Gaza (che si riconferma, malgrado l’assedio, anzi proprio per questo, il centro nevralgico della Resistenza) una conferenza stampa nella quale hanno reso noto che il 30 agosto, in una riunione segreta, hanno raggiunto un Accordo. Si tratta di un evento di grande importanza politica, forse strategica.


I nostri lettori ricorderanno le elezioni palestinesi del gennaio 2006, le quali diedero la maggioranza assoluta ad HAMAS. Quelle elezioni rappresentarono un terremoto politico di rilevanza mondiale, poiché segnarono un punto di svolta storico per la Resistenza palestinese e, più in generale, nella contesa mediorientale. A cosa fu dovuto quello strepitoso successo? Al declino del “laicismo politico” e all’avanzata del “fondamentalismo islamico”, come cercò di spiegare la stampa liberale mainstream? Il processo di islamizzazione della Resistenza palestinese, pur venendo da molto lontano, era anzitutto il risultato, politico, del totale fallimento dell’OLP e, in particolare della linea collaborazionistica seguita (anche contro il testamento di Arafat) dalla destra di al-Fatah.


Chi avesse seguito le vicende della lotta di liberazione palestinese, tenendo conto della “seconda Intifada” e del miserabile impaludamento di tutti i negoziati di pace, sa bene che il sostegno popolare ad HAMAS aveva anzitutto tre ragioni: esso premiava HAMAS per la sua linea di rifiuto di ogni cedimento al sionismo, per la sua radicale opposizione alla casta politica nepotistica, corrotta e a volte apertamente mafiosa di al-Fatah e, in terzo luogo, per il ruolo fondamentale avuto dalle potenti associazioni caritatevoli legate ad HAMAS nell’aiutare anzitutto gli strati più poveri della popolazione.
 
Sta di fatto che dopo quella vittoria elettorale, pienamente legittima dal punto di vista democratico e legale, nulla restò come prima. Al-Fatah non riconobbe mai la legittimità di quella vittoria e, con l’aiuto politico di Israele e dei paesi imperialistici, fece di tutto per rovesciare il governo legittimo, fino a scatenare un’offensiva militare congiunta, Tsahal-Fatah, contro HAMAS, offensiva che portò all’assedio di Gaza, che ancora continua, e di cui la tanto vituperata “guerra intestina tra palestinesi” non era che un sottoprodotto.
 
Sta di fatto che quella frattura pesò in maniera determinante sulla Resistenza palestinese. Se Jihad Islamica e Fronte Popolare-Comando generale non esitarono a schierarsi con HAMAS, non altrettanto fecero le due formazioni storiche della sinistra, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico, le quali si attestarono su una posizione di equidistanza (ricordiamo, in questo contesto, il rifiuto di entrambi di entrare a far parte, dopo quelle elezioni, del governo capeggiato da HAMAS).
 
L’Accordo raggiunto il 30 agosto dalle 13 organizzazioni resistenti e comunicato nella conferenza stampa di Gaza del 2 settembre, sotto questa angolatura, riveste dunque una straordinaria importanza. Non è solo un “fronte del rifiuto”, un blocco sgangherato unito solo da un no, per quanto sacrosanto, alla linea pro-sionista di Abu Mazen. A ben vedere esso segna l’isolamento più totale del gruppo dirigente collaborazionista e la definitiva sanzione della morte della linea aleatoria nota alle cronache come “Due popoli due stati” o, se si preferisce, “Pace in cambio di terra”.
 
Chi sono infatti le dodici organizzazioni che hanno sottoscritto il Comunicato Congiunto assieme ad HAMAS? Oltre ad una mezza dozzina di movimenti islamisti, tra cui la temibile Jihad Islamica, troviamo il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Fronte Democratico, il Fronte Popolare-Comando Generale, nonché la frazione dissidente di al-Fatah (Brigate dei martiri di al-Aqsa-sezione Nabil Masoud).
 
Abu Ubeyda, portavoce delle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio militare di Hamas, con accanto i responsabili militari delle altre organizzazioni palestinesi, ha dichiarato che la Resistenza, in stretta coordinazione, è pronta a continuare la lotta contro Israele, pur tenendo conto del nuovo tornante politico, segnato dalla crescente e apparentemente inarrestabile arrendevolezza dell’Autorità nazionale Palestinese impersonata da Abu Mazen. Abu Obeyda ha quindi invitato Abu Mazen, non solo ad interrompere i negoziati, ma a cessare la sistematica persecuzione dei militanti della Resistenza palestinese nelle aree sotto la giurisdizione dell’ANP, ricordando che solo negli ultimi giorni gli sgherri di al-Fatah hanno arrestato, con l’ausilio dell’intelligence sionista, 550 militanti, tra cui diverse donne.
 
Non c’era quindi bisogno si scomodasse Ahmadinejad per chiedersi chi realmente rappresenta oramai Abu Mazen: «Noi chiediamo: chi condurrà i negoziati? Chi rappresenta questa gente? Chi ha dato loro la legittimità di negoziare a nome dei palestinesi? (…) L'Anp non ha il diritto di cedere parte della Palestina ai nemici». (agenzia IRNA del 4 settembre).
 
Dell’ormai siderale isolamento di Abu Mazen, ne va prendendo atto anche certa stampa di sinistra che non ha mai avuto HAMAS in simpatia. Degno di nota l’articolo di Michele Giorgio su Il Manifesto del 3 settembre, che così suona: «Abu Mazen si è scoperto a Washington ancora più solo. Presidente dell'Anp, ma con un mandato scaduto da quasi due anni, leader di una Olp ormai impalpabile, con una autorità incerta su di una porzione minima della Cisgiordania, Abu Mazen entrando alla Casa Bianca ha realizzato di essersi lasciato alle spalle una opposizione interna sempre più ampia. Non ristretta ad Hamas e Jihad, ma che include la sinistra e persino una larga fetta del suo partito, al Fatah, che ha mal digerito la sua decisione di accettare un negoziato al buio, senza precondizioni, a cominciare dal blocco della colonizzazione israeliana. Nel 2000, quando partì per Camp David su pressione di Bill Clinton, l'ex presidente Yasser Arafat sapeva di avere dalla sua parte tutto Fatah e l'appoggio (critico) del suo dirigente più popolare, Marwan Barghuti. Abu Mazen dopo dieci anni invece sa di averlo contro».


Giorgio riporta quindi le pesantissime dichiarazioni rilasciate dal leggendario comandante militare delle Brigate dei Martiri al-Haqsa (e in prigione dal 2002) al quotidiano al-Hayat: «I negoziati in corso tra Anp e Israele sono destinati al fallimento. In linea di principio non sono contrario alle trattative ma i palestinesi in questo caso le hanno accettate solo per le pressioni giunte dall'esterno. (…) Queste trattative falliranno, così come è avvenuto in passato, perchè Israele non ha intenzione di arrivare alla pace e non rispetterà gli impegni».
 
Il bello, aggiungiamo noi, è che anche Mohammed Dahlan, il dirigente-Quisling di al-Fatah che ha lavorato per anni contro HAMAS (per questo cacciato da Gaza nel 2007) a stretto contatto con Stati Uniti e Israele, si oppone a questo nuovo tentativo negoziale: «Quel che accadrà a Washington sarà una replica di Annapolis (novembre 2007), ossia negoziati senza esito alcuno. (…) al-Fatah non permetterà a nessuno di firmare un accordo che non soddisfi tutti i diritti del popolo palestinese così come erano stati stabiliti prima di Camp David» (al Sharq al Awsat del 2 settembre).
 
Tutto indica che la Resistenza ora unita si rafforzerà, mentre al-Fatah (strambo oggetto dei desideri di sionisti, imperialisti e buona parte della sinistra social-imperialista), da tempo sulla via del tramonto, subirà una nuova fatale fratturazione. Tredici a uno quindi, dove l’uno non è nemmeno più l’organizzazione di cui fa parte, ma egli stesso, Abu Mazen soltanto.