Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quello che l'America si è lasciata dietro in Iraq

Quello che l'America si è lasciata dietro in Iraq

di Nir Rosen - 30/09/2010



E' ancora peggio di quello che si pensa




Centinaia di auto che aspettano nel caldo di passare lentamente attraverso uno delle decine di checkpoint e le perquisizioni che devono sopportare quotidianamente. Il frastuono costante dei generatori. L'odore del carburante, dei liquami, del kebab. Armi automatiche che ci si trova puntate alla testa e che escono da veicoli militari, da fuoristrada dai vetri oscurati. Montagne di rifiuti. Voci sull'ultimo omicidio o sull'ultima esplosione. Benvenuti nel nuovo Iraq, uguale al vecchio – anche se Barack Obama ha dichiarato finita l'Operazione Iraqi Freedom di George W. Bush, e ha annunciato l'inizio della sua Operazione Nuova Alba, e il Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki ha dichiarato l'Iraq indipendente e sovrano.

Dichiarazioni di sovranità l'Iraq ne ha avute diverse – dalla prima nel giugno 2004. Come è stato per le tappe fondamentali precedenti, non è chiaro che cosa significhi esattamente quest'ultima. Da quando gli americani hanno dichiarato la fine delle operazioni di combattimento, gli Stryker e i veicoli MRAP statunitensi si possono vedere mentre fanno pattugliamenti in alcune parti del Paese senza essere accompagnati dagli iracheni, e gli americani continuano a condurre operazioni militari unilaterali a Mosul e altrove, anche se sotto la parvenza di "forza di protezione" o di "neutralizzazione degli ordigni esplosivi improvvisati". Ufficiali delle forze armate americane in Iraq mi hanno detto di essere arrabbiati per l'annuncio politicamente motivato della Casa Bianca sul ritiro delle truppe da combattimento. Quelle che restano si considerano ancora truppe da combattimento, e i comandanti dicono che poco è cambiato nelle loro regole di ingaggio – reagiranno ancora alle minacce in modo preventivo.

L'Iraq è tuttora ostacolato rispetto a una piena indipendenza – e non solo dalla presenza di 50.000 soldati statunitensi. Lo Status of Forces Agreement, che specifica che le forze Usa se ne saranno andate completamente entro il 2011, priva l'Iraq di una sovranità totale. Le sanzioni del Capitolo 7 delle Nazioni Unite lo costringono a pagare il 5 % dei suoi proventi petroliferi in risarcimenti, soprattutto ai kuwaitiani, negando agli iracheni una piena sovranità e isolandoli dalla comunità finanziaria internazionale. Anche l'ingerenza saudita e iraniana, sia politica che finanziaria, ha limitato le possibilità dell'Iraq riguardo a democrazia e sovranità. Per tutta la durata dell'occupazione, le decisioni principali relative a quale forma dovesse avere il Paese sono state prese dagli americani, senza input o voce in capitolo da parte degli iracheni: il sistema economico, il regime politico, l'esercito e la sua lealtà, il controllo sullo spazio aereo, e la formazione di milizie e gruppi tribali di tutti i tipi. Gli effetti rimarranno per decenni, a prescindere da qualsiasi tappa fondamentale futura gli Stati Uniti possano volere annunciare.

Gli americani, nel frattempo, sono preoccupati di perdere la loro influenza in un momento in cui sono ancora forti le preoccupazioni su una ripresa della rivolta, sulle milizie sciite, e sull'esplosione della polveriera arabo-kurda di cui tutti parlano da sette anni. Nell'ambasciata Usa a Baghdad in molti si chiedono quale sia la visione di Obama per l'Iraq. Arrivati all'estate 2006, Bush si svegliava tutti i giorni e voleva sapere cosa stava succedendo in Iraq. Obama è molto più distaccato.

I diplomatici americani sono preoccupati inoltre di perdere presto la loro capacità di capire e influenzare il Paese. Oltre a Baghdad, presto ci saranno solo altre quattro sedi. In gran parte del sud gli Stati Uniti non avranno una presenza: non ci saranno americani fra Bassora e Baghdad, e neppure nelle province di Anbar o di Salahuddin. In ambasciata, alcuni temono di stare abbandonando il "cuore sciita". I diplomatici che sono ancora nel Paese avranno meno mobilità e accesso, anche se nominalmente stanno assumendo il comando subentrando alle forze armate, perché sarà più difficile trovare scorte militari quando vorranno viaggiare. "Non si può tenere un rapporto da pendolari", mi è stato detto.

Nella migliore delle ipotesi, impossibilitati a proteggere zone da visitare in elicottero o a comunicare con gli iracheni che si destreggiano nella scocciatura di cercare di entrare nella Green Zone, i diplomatici nei quattro avamposti faranno da posti di ascolto o da prima linea di difesa. Sperano di venire considerati come il mediatore onesto fra kurdi e arabi in nord Iraq, dove si è spostato il focus degli americani come parte del consolidamento dei "risultati strategici".

Ma si lamentano di non avere i fondi per poter fare bene il loro lavoro, anche se le quattro sedi fuori Baghdad verranno a costare molto. Dicono che gli Stati Uniti hanno speso centinaia di miliardi di dollari nella guerra in Iraq, ma adesso stanno facendo gli spilorci sugli stipendi dei funzionari di livello inferiore.

Una speranza di cambiamento dipendeva dalle elezioni nazionali di quest'anno, che si sono tenute il 7 marzo, e sono finite praticamente in un pareggio fra il partito Iraqiya dell'ex Primo Ministro Ayad Allawi e la Coalizione dello Stato di Diritto di Maliki. Le elezioni tuttavia hanno rappresentato una pietra miliare nell'evoluzione politica del Paese. A prescindere dall'esito - Maliki ha contestato il conteggio dei voti ma non è riuscito a ribaltarlo – le elezioni non accelereranno un ritorno alla guerra civile. Lo Stato è forte, e le forze di sicurezza prendono sul serio il proprio compito – forse troppo sul serio. Le milizie confessionali sono state sconfitte ed emarginate, e i sunniti hanno accettato il fatto di avere perso la guerra civile.

Ma le controversie che circondano la competizione tuttora irrisolta indicano alcune gravi spaccature politiche a lungo termine. Il ritmo sempre più sostenuto del ritiro statunitense, assieme allo stato ancora irrisolto della mappa politica e all'ingerenza da parte degli Stati Uniti, dei sauditi, dell'Iran, e persino della Turchia, hanno portato a una competizione violenta a somma zero mentre i leader iracheni lottano per il potere.

Maliki era un candidato popolare, appoggiato dagli iracheni per avere schiacciato sia i gruppi armati sunniti che quelli sciiti, e come politico singolo è arrivato primo, staccando di molto Allawi - secondo. Ma i suoi candidati sono arrivati secondi, superati di poco da Iraqiya – una sorpresa dopo il risultato deprimente di Allawi nel 2005.

Dalla parte di Allawi ci sono i sunniti, inquieti per quella che percepiscono come influenza iraniana nel Paese. L'opposizione a Maliki spesso è incentrata sui suoi sospetti legami con l'Iran – un'illazione che echeggia l'idea tendenziosa dei sunniti secondo la quale un arabo non può avere una forte identità sciita senza essere filo-iraniano. E malgrado l'approccio "dell'80%" da parte dell'amministrazione Bush – concentrarsi sugli sciiti e sui kurdi e ignorare i sunniti – la frustrazione del gruppo potrebbe portare alla destabilizzazione. Forse i sunniti non riuscirebbero a rovesciare il nuovo ordine dominato dagli sciiti, ma possono ancora montare una sfida limitata nei suoi confronti. I kurdi, che per amici avevano solo le montagne (per parafrasare un detto kurdo), sono stati capaci di destabilizzare l'Iraq per 80 anni. Gli arabi sunniti sono presenti in molta più parte del Paese e hanno alleati in tutto il mondo arabo che possono rifornirli a sufficienza per destabilizzare l'Iraq più di quanto i kurdi non siano mai riusciti a fare.

Gli americani vogliono tenersi vicino Allawi proprio per questa ragione: ritengono che stia placando la rabbia dei sunniti. "Vorremmo vedere un ruolo importante per Allawi", ha detto l'ambasciatore Usa James Jeffrey durante una conferenza stampa in agosto, sostenendo che l'ex ba'athista sciita è riuscito a organizzare un cambiamento storico nella dinamica politica del dopoguerra mettendo insieme in una coalizione le forze sunnite e quelle laiche dietro un nuovo processo democratico. Diplomatici statunitensi a Baghdad mi dicono che il comandante Usa uscente, Generale Raymond Odierno, è estremamente preoccupato della possibilità di una nuova rivolta se Iraqiya, la lista di Allawi, non dovesse essere soddisfatta.

Non è possibile fare Allawi Primo Ministro tout court, dato che non ha un appoggio traversale agli schieramenti politici. Gli potrebbe invece venir data una presidenza della Repubblica valorizzata con maggiori poteri, assieme ad alcuni controlli sul Primo Ministro Maliki - fra i quali un limite al mandato.

Nel frattempo, gli sciiti e i membri del gruppo di Maliki non sono affatto contenti all'idea di un Allawi presidente. Il ministro del Petrolio, Hussein Shahrastani, che è vicino a Maliki, ha avvertito gli americani che in molti all'interno dell'elite sciita considererebbero una forte presidenza Allawi come un golpe, che rovescia il nuovo ordine e riporta i brutti vecchi tempi di Saddam. Molti nel partito di Maliki sono fortemente anti-sunniti, proprio come molti nel partito di Allawi sono fortemente anti-sciiti, e temono che la storia si ripeta.

Maliki ha detto ai suoi confidenti che se lascerà la carica tutto ciò per cui ha lavorato negli ultimi quattro anni andrà a pezzi. Ritiene di aver ricostruito lo Stato iracheno quasi da solo. Senza di lui il partito dello Stato di Diritto non esiste, dato che è stato costruito attorno alla sua reputazione, e Maliki è il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti a livello individuale. Allora i sadristi diventerebbero il più forte blocco sciita, e si tornerebbe all'anarchia e alla sofferenza del 2006.

E' difficile non essere d'accordo. Il Primo Ministro ha messo insieme una infrastruttura di potere enorme e relativamente stabile. Rimuovere lui e i suoi consiglieri e le sue istituzioni di sicurezza in un momento come questo potrebbe essere disastroso. Maliki era riuscito a convincere i sunniti scettici dopo il suo attacco contro le milizie sciite nel 2008 e a reinventarsi come un candidato che molti percepivano come un nazionalista laico.

Gli americani certamente ritengono che non esistano scenari senza Maliki, dato il rischio che i sadristi prendano il controllo. "Abbiamo fatto i calcoli", ha detto ad agosto nel corso di un evento il Generale Stephen Lanza, portavoce uscente delle forze armate statunitensi.

"Qui non abbiamo nessun potere o autorità reali", dice l'ambasciatore Usa Jeffrey. "Non abbiamo alcun diritto di intrometterci in modo minaccioso – quale che sia. L'unica cosa che abbiamo detto che si avvicini a un ripensamento delle nostre politiche è che ci fosse un governo nel quale i sadristi hanno un ruolo decisivo, dovremmo veramente domandarci se possiamo avere un futuro in questo Paese, vista la loro posizione politica". Oltre a andarsene dal Paese, dice Jeffrey, gli Stati Uniti potrebbero fare marcia indietro rispetto alla loro vigorosa iniziativa per convincere le Nazioni Unite a togliere all'Iraq le sanzioni relative al Capitolo 7, se i sadristi dovessero assumere un ruolo dominante nel governo. "Probabilmente non saremmo troppo entusiasti di questa missione", dice Jeffrey, "e ci sono mille altri esempi di questo tipo". Da parte loro, i sadristi rifiutano di incontrare gli americani.

Stanno comunque negoziando con Allawi, offrendo di appoggiarlo in cambio del controllo sul ministero degli Interni e del rilascio di almeno 2.000 dei loro uomini che si trovano nelle carceri irachene. Allawi ha giustificato il suo flirt con i sadristi, che sono violentemente anti-americani, con il fatto che sarebbero soltanto maldestri e possono essere controllati.

E' una mossa che potrebbe seriamente rivelarsi un boomerang. In privato, Maliki dice che i sadristi sono pericolosi. Non crede che Allawi possa controllarli, insistendo che lui viene dal loro mondo e li conosce. Insiste che liberare semplicemente i prigionieri non è fra i suoi poteri legali. E i kurdi sono rimasti costernati dal flirt di Allawi con i sadristi: non vogliono che essi siano l'ago della bilancia. I kurdi sono inoltre preoccupati per il fatto che molti dei politici sunniti di maggior peso nella lista di Allawi sono ostili alla loro visione del confine che divide il Kurdistan dal resto dell'Iraq. A causa di questo, i kurdi ora sono contrari all'eventualità che Allawi diventi Primo Ministro, e si sono buttati ad appoggiare Maliki.

Frustrato da questa sfilza di sconfitte nel campo delle pubbliche relazioni, Allawi si è rifugiato in alcune visite in Paesi arabi come l'Arabia Saudita, gli Emirati, il Kuwait, e la Siria a mo' di incoraggiamento. Ma niente di tutto questo è di molto aiuto a Baghdad, dove conta, e sicuramente non lo aiuta in Iran, dove un governo guidato da Allawi verrebbe visto come una vittoria per i rivali di Tehran nella regione, i sauditi, senza parlare di una vittoria per i ba'athisti. L'Iran preferisce Maliki, anche se il loro rapporto non è affatto stretto come viene fatto credere dai sunniti.

In effetti, il potente vicino dell'Iraq non è riuscito a raggiungere molti dei suoi obiettivi. In Iraq l'Iran ha delle pedine ma non degli agenti. Persino il Consiglio Supremo islamico sciita, che venne formato in Iran, in realtà prova avversione per l'Iran. I suoi membri, ex esuli iracheni che si erano messi insieme a Tehran durante il periodo in cui era al potere Saddam, ricordano l'umiliazione di essere guardati dall'alto in basso dagli iraniani per il fatto di essere arabi. Inoltre, i partiti sciiti hanno anche la loro base di potere, e non hanno bisogno dell'appoggio dell'Iran. Tuttavia, l'ambasciatore iraniano a Baghdad è ancora molto attivo, e gli americani rifiutano di incontrarlo – un cambiamento sorprendente dati gli incontri che ci furono sotto l'amministrazione Bush.

Quanto ai turchi, vogliono trasformare il Governo regionale kurdo nel nord in uno stato vassallo della Turchia. Sono anche molto coinvolti a Baghdad. L'ambasciatore Jeffrey sostiene che la Turchia può accettare un governo guidato da Maliki, e questo è vero, anche se la Turchia preferisce Allawi; l'ambasciatore turco non ama Maliki, e ha contribuito a organizzare la lista Iraqiya. (Maliki l'ha presa in modo personale e ha temporaneamente privato l'ambasciatore del suo accesso alla Green Zone).

Triste a dirsi, nessuno di questi destreggiamenti in realtà conta poi molto. A prescindere da chi diventerà Primo Ministro o presidente, l'Iraq si avvia a diventare sempre più autoritario. I proventi del petrolio non entreranno per parecchi anni, quindi i servizi non miglioreranno. Anche quando arriveranno nelle casse dello Stato iracheno, i costi per le infrastrutture se li consumeranno tutti per l'immediato futuro. La carenza di servizi significa che il governo si troverà ad affrontare il malcontento a livello dell'opinione pubblica, e per reazione diventerà più duro e più dittatoriale – anche se rimarrà una facciata democratica.

Dunque, per gli iracheni non se ne vede la fine. Dall'inizio dell'occupazione, nel 2003, oltre 70.000 di loro sono stati uccisi. Molti altri sono stati feriti. Ci sono milioni di nuove vedove e nuovi orfani. In milioni sono fuggiti dalle loro case. Decine di migliaia di iracheni maschi hanno trascorso anni in carcere. Il nuovo Stato iracheno è fra i più corrotti al mondo. E' efficace solo nell'essere brutale e nel fornire un livello minimo di sicurezza. Non riesce a fornire servizi adeguati alla sua popolazione, dove in milioni riescono a stento a sopravvivere. Gli iracheni sono traumatizzati. Ogni giorno ci sono omicidi con pistole col silenziatore e le piccole bombe magnetiche che si attaccano alle auto - note come "sticky bombs". Nei Paesi confinanti, centinaia di migliaia di rifugiati languono in esilio, il settarismo confessionale è in aumento, e armi, tattiche, e veterani del jihad iracheno vanno diffondendosi.

A sette anni dalla disastrosa invasione americana, l'ironia più crudele in Iraq è che, in modo perverso, il sogno dei neo-conservatori di creare un alleato degli Stati Uniti moderato, democratico nella regione, che facesse da contrappeso a Iran e Arabia Saudita, si è realizzato. Ma anche se la violenza in Iraq continuerà a diminuire e il governo diventerà un modello di democrazia, nessuno guarderà all'Iraq come a un leader. Nella regione, la gente ricorda – anche se l'Occidente se l'è dimenticato – i sette anni di caos, di violenza, e di terrore. Per loro, questo è quello che simboleggia l'Iraq. Grazie alle guerre in Iraq e in Afghanistan, e ad altre politiche statunitensi fallimentari nel Medio Oriente più in generale, gli Stati Uniti hanno perso la maggior parte della loro influenza sui popoli arabi, anche se sono ancora in grado di esercitare pressioni su alcuni regimi.

La settimana scorsa, i media occidentali sono calati in Iraq per un ultimo 'embed', per uno sguardo all'"eredità", per chiedere agli iracheni se era "valsa la pena". La notte del 31 agosto, ho sentito per caso un produttore televisivo americano che stava cercando di trovare una famiglia irachena che avrebbe guardato il discorso di Obama sull'Iraq in diretta. A Baghdad il discorso di Obama è andato in onda alle 3 di mattina. Ma Obama nel suo discorso non si è rivolto agli iracheni. E loro comunque non erano interessati. La maggior parte degli iracheni a quell'ora erano svegli, ma erano a letto a soffrire per il caldo, senza riuscire a dormire, in attesa che tornasse l'elettricità in modo da poter far funzionare i loro condizionatori.

Nir Rosen
è fellow al New York University Center on Law and Security e autore del libro di prossima pubblicazione Aftermath: Following the Bloodshed of America's Wars in the Muslim World. Le ricerche per questo articolo sono state possibili grazie al supporto del Nation Institute.


Foreign Policy.com (Traduzione di Ornella Sangiovanni)