Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Kabul: prove di exit strategy?

Kabul: prove di exit strategy?

di Michele Paris - 26/10/2010


Da qualche settimana a questa parte, sui media di mezzo mondo si rincorrono le voci di colloqui di pace in corso tra il governo afgano di Hamid Karzai ed esponenti anche di alto livello della resistenza talebana. Mentre da Kabul già da tempo si cerca di costruire un percorso verso una complicata riconciliazione con le forze che combattono l’occupazione occidentale, gli americani hanno sempre vincolato qualsiasi ipotesi di dialogo al successo dell’offensiva militare.

Per questo motivo, le recenti conferme del via libera di Washington ai colloqui hanno fatto pensare ad un possibile cambiamento di strategia della Casa Bianca e del Pentagono. La prospettiva di un Afghanistan pacificato, allo stato attuale delle cose, appare tuttavia ancora molto lontana.

L’insediamento di un consiglio di pace (jirga) voluto dal presidente Karzai ai primi di ottobre nella capitale afgana era stato il primo segnale concreto lanciato ai talebani. Qualche giorno fa, poi, un resoconto del New York Times ha confermato la presenza a Kabul di guerriglieri di medio rango, i cui movimenti dai loro rifugi in Pakistan verso la capitale sarebbero stati facilitati proprio dalle forze NATO. Secondo quanto rivelato da un ufficiale afgano al reporter del Times, Dexter Filkins, un velivolo della NATO avrebbe addirittura trasportato alcuni leader talebani dal confine pakistano a Kabul.

L’inversione di rotta degli Stati Uniti, confermata pubblicamente dallo stesso numero uno delle forze occidentali in Afghanistan, generale David Petraeus, appare estremamente significativa. Washington, infatti, si era mostrata sempre piuttosto tiepida nei confronti delle iniziative di pace promosse da Karzai, evidentemente allarmato all’idea di un futuro senza la protezione americana. Se anche l’amministrazione Obama riteneva possibile o auspicabile in linea teorica un riavvicinamento con i talebani, i presupposti dovevano comprendere l’abbandono per questi ultimi della lotta armata, la rinuncia a qualsiasi legame con Al-Qaeda e il rispetto della nuova costituzione afgana.

Nessun dialogo era invece da prevedersi con i vertici talebani, primo fra tutti con il Mullah Omar. L’obiettivo pressoché inattuabile, insomma, era quello di convincere i quadri talebani ad integrarsi in un governo totalmente asservito agli interessi americani, ovviamente tramite qualche sostanzioso incentivo. Dall’altra parte della barricata, al contrario, qualsiasi ipotesi di accordo non poteva prescindere dall’immediato ritiro dal territorio afgano delle forze di occupazione.

Ancora più sorprendentemente, le discussioni in corso a Kabul comprenderebbero alcuni membri della cosiddetta “shura di Quetta”, l’organizzazione talebana di stanza nell’omonima città del Pakistan che guida la resistenza contro gli occidentali in Afghanistan, e il gruppo integralista comandato dalla famiglia Haqqani. Con questi due gruppi, gli Stati Uniti avevano escluso qualsiasi genere di contatto nel recente passato.

Il presunto nuovo atteggiamento degli americani secondo alcuni coincide anche con le dimissioni del generale James L. Jones dall’incarico di consigliere per la sicurezza nazionale e l’arrivo a fianco di Obama del suo vice, Tom Donilon. Quest’ultimo pare generalmente più scettico verso la strategia raccomandata dai vertici del Pentagono lo scorso anno e che prevedeva il consistente aumento del contingente militare in Afghanistan. Vicino al vice-presidente Joe Biden e attento ai malumori di molti democratici al Congresso circa la stallo afgano, Donilon si schiererebbe così tra i membri dell’amministrazione Obama che intendono spingere per un ritiro delle truppe a partire dal luglio del prossimo anno.

Al di là dell’importanza simbolica, le discussioni si trovano per ora ad uno stadio preliminare. La diffidenza rimane notevole da entrambe le parti e sono numerosi i fattori che minacciano anche solo l’avvio di un dialogo produttivo. Tanto per cominciare, non è ancora del tutto chiara la posizione e nemmeno il peso decisionale effettivo all’interno delle rispettive organizzazioni dei talebani che hanno accettato di incontrare i rappresentanti del governo Karzai. Allo stesso modo, è tutt’altro che scontata la disponibilità americana a fare concessioni di qualsiasi genere a coloro che più irriducibilmente si oppongono alla presenza in Afghanistan di contingenti militari stranieri e che mai accetterebbero di sottostare ad un governo fantoccio agli ordini di Washington.

L’incognita maggiore è rappresentata però dal Pakistan, il cui rapporto con le varie fazioni talebane e i gruppi di guerriglieri islamici che trovano rifugio entro i propri confini è a dir poco contraddittorio. Proprio il già citato gruppo degli Haqqani, ad esempio, nonostante le smentite ufficiali, opererebbe sotto la protezione del potente servizio segreto pakistano (Inter-Services Intelligence, ISI). A loro volta, nell’impervia regione del Waziristan del nord, gli Haqqani ospitano alcune cellule di Al-Qaeda attive da entrambi i lati del confine.

L’influenza esercitata dal Pakistan - o meglio, da alcuni centri di potere pakistani - sui gruppi islamici che operano in Afghanistan rende dunque improbabile il buon esito dei colloqui in corso a Kabul. Tanto più che l’intenzione di Karzai sarebbe proprio quella di escludere Islamabad dalle discussioni con i talebani, in quanto tramite questi ultimi il Pakistan aspirerebbe ad estendere il proprio ascendente sul futuro governo afgano. A conferma di ciò, ad inizio anno le forze di sicurezza pakistane avevano arrestato 23 leader talebani, tra cui il numero due della “shura di Quetta”, il Mullah Abdul Ghani Baradar, presumibilmente per essere entrati in contatto in maniera indipendente con il governo Karzai.

Come non bastasse, malgrado le cronache dal fronte afgano raccontino di un’offensiva negli ultimi giorni da parte delle forze NATO nella roccaforte talebana di Kandahar, le forze di resistenza dopo nove anni di guerra hanno a poco a poco esteso le proprie operazioni in molte aree del paese, provocando gravissime perdite tra gli alleati occidentali. Con le sorti del conflitto a loro favorevoli, molto difficilmente i talebani saranno disposti a cedere terreno ai loro nemici.

In definitiva, l’annunciato nuovo corso di un’America pronta ad appoggiare il dialogo tra i padroni di ieri dell’Afghanistan e quelli attuali è ancora tutto da verificare. La possibile riconciliazione s’intreccia infatti indissolubilmente con la “exit strategy” statunitense da un pantano che da tempo non lascia ormai più intravedere una soluzione all’altezza delle aspettative iniziali. Le sorti delle operazioni belliche, il ruolo che potrà giocare il Pakistan e, non da ultimo, l’umore di un’opinione pubblica americana sempre più stanca della guerra, decreteranno nei prossimi mesi la praticabilità di un percorso di pace che per ora si presenta ancora tutto in salita.