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L’Italia in zugzwang

di Fabio Falchi - 07/11/2010


L'Italia in zugzwang

C’era una volta l’Italia. Un Paese europeo, non una grande potenza, ma una terra antica, ricca di cultura e di tradizioni; una “terra di mezzo”, bagnata da tre lati dal Mediterraneo, che unisce l’Europa, l’Asia e l’Africa. Certo non un Paese modello; anzi un Paese afflitto da mali secolari: pressappochismo, particolarismo, scarso senso civico e dello Stato. Insomma un Paese in cui era più facile che prevalessero i “furbi” piuttosto che i meritevoli. Inoltre un Paese scarsamente industrializzato, con un’economia ancora basata in gran parte sul settore primario sino alla metà del Novecento, ma che nel giro di qualche decennio, si trasformò in un Paese industriale avanzato, con una migrazione interna (quasi completamente ignorata dalle forze politiche cui era affidato il compito di governare il Paese) che vide spostarsi milioni di italiani dal Sud verso il triangolo industriale (Genova-Torino-Milano). Le conseguenze di tali profondi e rapidi cambiamenti sociali, in un quadro geopolitico caratterizzato da tensioni politiche e ideologiche fortissime, sono note: da un lato, la scomparsa di una civiltà contadina millenaria, l’affermarsi di modelli di consumo volgari, il dissesto idrogeologico, la cementificazione selvaggia e ogni genere di scempio urbanistico, anche per favorire la cosiddetta “civiltà dell’automobile” (ossia la Fiat), infischiandosene del patrimonio artistico nazionale e di città “a dimensione d’uomo”; dall’altro, il diffondersi della corruzione, del clientelismo, della lottizzazione e di ignominiosi abusi di potere; e poi gli anni bui della strategia della tensione e gli anni di piombo. Ciononostante, il Paese “cresceva”, per quanto si generassero squilibri di ogni specie, non essendoci una “guida” politica tale da saper “governare” il mutamento, anche se non si può negare che la locomotiva del sistema Italia, insieme alle piccole e medie imprese, fosse il settore strategico pubblico (Iri, Eni, Enel etc.), pur considerando le numerose carenze dovute ad una gestione più attenta ai giochi di potere della partitocrazia che non all’efficienza aziendale; mentre il grande capitale privato (la Fiat in particolare, ma si dovrebbe anche tener conto del ruolo di Mediobanca nel promuovere un capitalismo privato parassitario) “si specializzava” nella politica della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. D’altra parte, la scarsa capacità della classe dirigente italiana di anteporre l’interesse generale a interessi settoriali, lasciava ampi margini di autonomia ai più diversi soggetti sociali. Non solo per quanto riguarda la vita economica e politica, tanto è vero che perfino l’americanizzazione dello stile di vita degli italiani era limitata dal senso di appartenenza e da una “identità culturale” che, pur dovendo di necessità confrontarsi con il non facile problema della modernizzazione, pareva ancora essere sufficientemente radicata, sebbene la famosa “gita a Chiasso” rischiasse di far crollare le vetrine delle librerie sotto il peso delle traduzioni. Quello che però era difficile da ammettere o da comprendere era che l’Italia era ben lungi dall’aver superato il “trauma” della Seconda guerra mondiale (anche se c’era chi si illudeva che, nonostante il Trattato di Parigi del 1947, l’Italia non fosse da annoverare tra le potenze sconfitte), vale a dire che il Paese camminava grazie alle stampelle degli “alleati”, i quali lo facevano andare dove loro volevano che andasse, anche se tolleravano qualche giro di valzer. Del resto, se all’Italia non si poteva concedere altro che una sovranità limitata, non si poteva neanche lasciare che si sfasciasse senza che la politica di potenza degli “alleati” ne venisse gravemente compromessa. L’Italia poteva permettersi qualche “sortita” oltre il “limes occidentale” (o meglio oltre la “barriera occidentale”, dato che in realtà l’Occidente, ovvero la talassocrazia americana, al contrario di un autentico impero, non conosce limes, ma unicamente spazi ancora da conquistare e soluzioni di continuità da eliminare) soltanto perché non era in grado di cambiare gli equilibri geostrategici formatisi negli anni Quaranta. Chi però “esagerava” – Enrico Mattei, ma anche (pochi) altri, come ad esempio il Craxi filo-palestinese e di Sigonella – non poteva non pagare a caro prezzo la propria “intraprendenza” o il proprio “decisionismo”. Queste erano le regole del gioco e per l’Italia non poteva che esserci il bastone e la carota.

Tuttavia, alla fine degli anni Ottanta, tutto cambia. L’era del bipolarismo finisce e gli “alleati” cercano di sfruttare l’occasione per instaurare un modello unipolare. La Nato diventa il “braccio violento d’Oltreoceano”: scompaiono stampelle e carota, mentre rimane solo il bastone. Ciò che conta adesso sono “il territorio”, il mercato e il rispetto delle nuove regole del gioco: dal bipolarismo si passa all’unipolarismo. La debolezza del Paese, da fonte di costante timore e apprensione, diventa condizione necessaria per non disturbare il manovratore. Un “disturbo” che può essere tanto più nocivo per gli “alleati”, quanto più, dopo il crollo dell’Urss, il Mediterraneo acquista rilevanza strategica. Inoltre, l’Europa si trasforma in una gigantesca tecnostruttura “iperburocratica”. Si forma cioè l’Europa dei “mercanti”, le cui ultime preoccupazioni sono il benessere dei popoli europei e la creazione di uno spazio geopolitico e geoeconomico alternativo a quello neo-atlantista. Si rende quindi necessario “liquidare” il ceto politico democristiano e socialista – in quanto ancora troppo dipendente da vecchi schemi bipolari – e sostituirlo con uomini non solo assai più ben disposti a svendere il patrimonio pubblico e a ristrutturare il “sistema” (dalla scuola alle relazioni industriali) secondo logiche turboliberiste, ma più “adatti” a difendere i privilegi di un’oligarchia economica (sempre meno capace e sempre più bisognosa di controllare l’apparato dello Stato per poter sopravvivere) e a servire gli interessi degli “alleati”. Si appresta così quella “gioiosa macchina da guerra” che, con l’aiuto di una magistratura che amministra la giustizia a senso unico, dovrebbe assicurare a ex rivoluzionari di professione (o presunti tali) di salvarsi dal collasso del “socialismo reale” e garantire la transizione, con il consenso dei “sudditi”, dalla partitocrazia liberal-democratica non al socialismo, bensì al “mercato nazionale”, a stelle (a sei punte) e strisce. Sicché il declino del Paese è inevitabile, ché è evidente che in queste condizioni meno l’Italia “cammina” e meglio è sia per i dominanti che per i loro “rappresentanti locali”. Ma il vuoto di potere generato da Mani Pulite – che spazza via la Dc, il Psi e i “partitini” laici, e fa apparire come salvatori della patria zombie con o senza baffi – consente pure la “discesa in campo” del Cavaliere, che, oltre ad accelerare lo sdoganamento dei neofascisti (inevitabile effetto collaterale di Mani Pulite), fa inceppare, anche se non riesce a distruggere, la macchina da guerra dei suoi avversari. Agli “alleati” ora però poco importa che la lotta politica in Italia degeneri in un scontro tra fazioni e bande mercenarie, lasciando insoluti o addirittura aggravando i problemi reali del Paese, purché con la mano destra o con quella sinistra si svenda il patrimonio pubblico della Nazione, “si tagli” lo Stato sociale e ci si attenga alle decisioni prese Oltreoceano. Né l’ingresso nell’area dell’euro cambia questo stato di cose, ché anzi la Penisola corre il rischio di venire considerata come una “fastidiosa appendice” mediterranea del continente europeo. Comunque sia, il Cavaliere, ne sia consapevole o no, è anche uno scudo per “nuclei di potere” perlopiù presenti in ambienti del mondo cattolico e specialmente nelle aziende pubbliche che svolgono un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo del Paese e il cui interesse particolare coincide con quello nazionale. Si spiegano forse così gli accordi con Putin e Gheddafi, il rafforzamento dei legami con i Paesi mediterranei e, in generale, una politica estera che oscilla tra la totale subordinazione al Wille zur Macht dei circoli neo-atlantisti e delle lobby sioniste e l’apertura di nuove “corsie geostrategiche”, che spostano l’asse geopolitico del Paese verso Est e Sud, ovvero in una direzione opposta a quella che l’Italia dovrebbe seguire secondo i suoi “alleati”. Contraddizioni, che sommate ad una politica interna basata sul compromesso con i “poteri forti”, ostili da sempre ad ogni autentico rinnovamento culturale e sociale, e alla mancanza di scelte coraggiose, tali da coinvolgere l’intera comunità in un progetto di rinascita nazionale, sembrano essere sia causa che effetto di quella sorta di machiavellismo che il Paese ha già più volte conosciuto in passato, con esiti disastrosi, e che è ben diverso da un “equilibrato” realismo politico, che consiste essenzialmente nel saper tener conto tanto dei motivi che sono a fondamento dell’agire degli uomini, quanto dei mezzi necessari per raggiungere un determinato scopo, senza lasciarsi irretire da un moralismo d’accatto, ma pure senza dover rinnegare i propri valori e i propri ideali.

 

La crisi dell’unipolarismo e il passaggio, tuttora in via di svolgimento, ad una fase multipolare rendono ancora più stridenti tali contraddizioni, e offrono agli avversari del Cavaliere l’opportunità di fare leva sui suoi “errori geopolitici” per potenziare una macchina da guerra finora rivelatasi troppo debole o troppo mal diretta per metterlo “fuori combattimento”, una volta per tutte, e per porre fine alla resistenza di chi ancora non si è rassegnato a vedere l’Italia completamente asservita alla politica di potenza dei propri “alleati”. D’altronde, in questi ultimi anni, per contrastare la “quinta colonna” che da circa vent’anni agisce nel nostro Paese, si è fatto ben poco, tranne affidarsi a guitti, a lacchè, a riciclati di ogni risma e a imbonitori da strapazzo, senza il benché minimo tentativo di “preparare il terreno” per una resa dei conti che si sapeva che prima o poi ci sarebbe stata. Responsabili di questa situazione sono indubbiamente le teste pensanti (ammesso che ci siano) del Pdl e il Cavaliere (che più passa il tempo e più si rivela non dissimile dai “furbi” che vogliono farlo fuori, indipendentemente dal suo americanismo grossolano e dalle sue non trascurabili “lacune”, per così dire, di carattere strettamente personale) – ma anche coloro che, obtorto collo, hanno appoggiato il Cavaliere per difendere gli ultimi residui della nostra sovranità nazionale. Se D’Alema, avendo bisogno di qualche centinaio di morti per sedersi al tavolo dei vincitori, non aveva esitato ad autorizzare operazioni militari contro Belgrado, allora i tempi erano già maturi per mettere le carte in tavola, indicando chiaramente agli italiani – pur senza coinvolgere direttamente gli “alleati”, in quanto ancora troppo potenti per poter essere sfidati in campo aperto – la reale posta in gioco della lotta politica iniziatasi subito dopo il crollo del Muro di Berlino, ed affiancare al Cavaliere (preparando anche la sua inevitabile uscita di scena) “uomini nuovi”, sbarazzandosi di una pletora di cortigiani infidi ed inetti. Nulla di ciò però è accaduto e, giunto il tempo di afferrare il toro per le corna, si sa solo evocare lo spettro delle toghe rosse e pregare il Cavaliere di fare il miracolo, quasi che si fosse nuovamente nel 1948. Il risultato è che il Cavaliere sembra essere giunto al capolinea e con lui (ma a questo punto si dovrebbe dire anche grazie a lui) pure il Paese. Né può essere la Lega “a fare muro” contro lo straniero, ché non solo non ne ha alcuna intenzione, ma, vuoi per mancanza di cultura politica vuoi per miopia strategica, non sa individuare quali siano i veri pericoli che corre il Paese e preferisce fomentare paure irrazionali, confondendo la funzione (necessaria) del ventre con quella (altrettanto necessaria) della testa.

Pertanto – tralasciando la retorica democratica e le reiterate promesse di fedeltà a Washington e a Tel Aviv – si è venuta a determinare una situazione simile a ciò che nel gioco degli scacchi si denomina zugzwang e che si verifica quando un giocatore è obbligato a muovere, perdendo del materiale o addirittura subendo lo scacco matto. In politica però l’eccezione è la regola e nessuna norma può regolare l’eccezione. E in situazioni eccezionali, occorrono uomini eccezionali, vale a dire uomini che, quando pare che non vi siano più vie di fuga e che tutto sia perduto, sappiano camminare con le proprie gambe, dove andare e con chi convenga intraprendere un nuovo cammino. Il che implica pure che sappiano cambiare le regole quando non conviene più applicarle. Certamente nessuno vuole i colonnelli e tantomeno i generali (ma il “bastone” lo si deve tenere saldamente in pugno, controllando gli apparati coercitivi dello Stato o perlomeno quelli più efficienti, se le “bastonate” si vogliono darle anziché prenderle), né si tratta di abolire o violare la Costituzione della Repubblica (anche perché non ve n’è probabilmente bisogno). Piuttosto, come sostiene Gianfranco La Grassa (vedi http://conflittiestrategie.splinder.com/post/23489479/uffa-che-barba-di-giellegi-22-ott-10 ), si dovrebbe usare il bisturi per “amputare” la parte putrefatta del Paese, dacché anche la democrazia è una tecnica di governo che può ben consentire “operazioni chirurgiche” con il consenso popolare (consenso che si può ottenere in molti modi). Le leggi, si sa, si possono applicare contro i nemici e interpretare per gli amici; e se ne occorrono di nuove si possono sempre fare. Gli uomini purtroppo no: o ci sono o non ci sono. Ma se veramente ci sono è giunta l’ora che battano un colpo, prima che sia troppo tardi e che, come nelle favole, non rimanga che dire “c’era una volta l’Italia”.