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Dopo Seul. Global finanziaria, kaputt?

di Angelo Spaziano - 16/11/2010




A Seul, in Sud Corea, dove pochi giorni fa erano riuniti i leader del G20 per cercare di sciogliere il nodo gordiano dei cambi, tra aspre polemiche e subdoli tatticismi una cosa è apparsa incontrovertibile: che il globalismo è arrivato al suo Termidoro. Infatti, la Thailandia ha approvato a sorpresa un’imposta del 15% sui Buoni del suo Tesoro e sulle altre obbligazioni possedute da investitori stranieri.

A dirla tutta, il Siam, a fare questa improvvisa conversione protezionistica, vi è stato tirato per i capelli, in quanto l’enorme produzione di dollari da parte della Fed e il tasso poco remunerativo di Usa, Europa e Giappone hanno fatto piovere un mare di denaro su Bangkok. Uno tsunami di verdoni alla frenetica ricerca d’interessi più allettanti di quelli praticati da noi.

Il tutto ha provocato gravi danni all’economia dell’antico regno asiatico, gonfiando bolle speculative, facendo schizzare alle stelle il bhat, e mandando ko le esportazioni, rese non più competitive dalla moneta forte. Stesso discorso per la Corea del Sud, il paese che ha ospitato il summit, che ha dovuto anch’esso difendere l’export contrastando il rialzo del won provocato dall’identico fenomeno.

Pure il Brasile ha considerevolmente aumentato l’imposizione fiscale sugli investimenti stranieri, mentre Mosca e Taipei già da tempo vigilano attentamente sui flussi di capitale, cosa che per la Cina rappresenta la normalità, e non da ora. Il valore del renminbi, infatti, è sempre stato fissato ope legis dai mandarini di Pechino. E questo non va giù a molte delle teste d’uovo convenute a Seul.

Considerando che tanti altri paesi emergenti stanno sul punto d’imitare Bangkok e compagnia bella, se non siamo al funerale del globalismo, poco ci manca. Insomma, d’ora in poi, muovere con un semplice mouse enormi quantità di denaro virtuale – e quindi puramente speculativo – per fare un mucchio di soldi sulla pelle delle economie più deboli sarà molto più difficile di prima.

E meno male. Ciò significherà assai più controlli dei governi nazionali sui movimenti di capitale. Antesignana di questo percorso controcorrente fu Kuala Lumpur, che nel 1997, quando la Malaysia fu attaccata dagli speculatori stellestrisce, ricevette la solita “proposta indecente” del Fmi. Per fronteggiare l’emergenza, infatti, l’istituto caro a Soros non seppe fare altro che rispolverare l’ormai classico armamentario neoliberista: aumento dei tassi d’interesse per trattenere i capitali, misure d’austerità, tagli al welfare, disoccupazione, disperazione, miseria.

Invece Mahatir ibn Mohammed, all’epoca illuminato leader malaysiano, fregandosene altamente degli ordini impartiti dai cravattari in marsina del Fmi, fece l’esatto contrario: abbassò i tassi d’interesse e impedì l’emorragia dei capitali esercitandovi un ferreo controllo. E proprio per avere irrimediabilmente stazzonato la nera livrea dei “filantropi” usi a fare i liberisti coi soldi degli altri, Mahatir fu ferocemente attaccato dalla comunità finanziaria internazionale e dal Fmi.

Tuttavia, molte delle sue politiche funzionarono, e la recessione in Malaysia si risolse assai più velocemente che in tutti gli altri Paesi colpiti dalla stessa congiuntura. Il fatto è che Washington ha ben poco da gridare al leso liberismo, dopo avere inondato i mercati con triliardi di dollari nuovi di zecca. La Fed, infatti, sta anch’essa drogando le piazze internazionali con un intervento di Stato dalle caratteristiche insolitamente dirigiste.

Infatti, per sterilizzare lo stratosferico debito estero e per rendere le sue merci più competitive sui mercati, lo zio Sam ha pensato bene di stampare denaro a tutto spiano, deprezzando il dollaro, creando inflazione e danneggiando i grandi esportatori. Il fatto è che, non avendo limite alla quantità di banconote che possono gettare sul mercato, gli yankee, a lungo termine sono in grado di sbaragliare fraudolentemente qualsiasi concorrenza.

Intanto però gli altri Paesi hanno deciso che la musica d’ora in poi dovrà assolutamente cambiare, poiché la malassortita orchestra della speculazione internazionale sta letteralmente spaccando le orecchie – leggi: i portafogli – degli ascoltatori. E l’unica valida arma posseduta dalle piccole economie ormai in allarme rosso è costituita proprio dal controllo di Stato sui movimenti di capitali. Ossia dalla rottamazione del liberismo globale.

Del resto, Tim Geithner stesso, il segretario al Tesoro di Obama, è arrivato a proporre un tetto globale e ufficiale ai deficit e ai surplus commerciali: secondo lui nessun Paese dovrebbe importare o esportare più del 4% del suo Pil. Ma come si fa a mettere tutti questi paletti se non con un rigido controllo governativo?

In Europa l’outing del segretario al Tesoro Usa ha suscitato non poche perplessità, poiché, proprio sfruttando i vantaggi offerti dall’euro forte, la Germania intende invadere i mercati con le sue merci. Berlino infatti, grazie all’eccellenza tecnologica, risulta del tutto insensibile allo svantaggio costituito dai prezzi poco attraenti dei suoi prodotti, ed è in grado di competere persino con la Cina. Basti pensare che oggi il 47% dei beni esportati dall’Europa in Cina sono tedeschi.

Intanto il Fmi ha ammesso fuori dai denti che un certo controllo sui capitali è legittimo purché a breve termine. Insomma, il dogma globalista riscuote sempre meno successo persino nel luogo dove esso ha visto la luce. A questo punto va segnalato un fatto alquanto curioso. Vale a dire che all’interno stesso dei depressi Stati Uniti, il Nord Dakota è un’isola felice che può vantare addirittura una disoccupazione al 4,4% e aumenti del pil a due cifre con incrementi dei redditi delle persone fisiche pari al 23% tra il 2006 e il 2009.

Insomma, anche nella disperata America in preda alla sindrome del 1929 bis c’è chi è da tempo fuori dal tunnel. Anzi. Che nel tunnel non c’è mai entrato. Ma com’è stato possibile tutto questo? Il fatto è che il Nord Dakota ha avuto la fortuna di avere dato retta, tra il 1915 e il 1920, alla “Nonpartisan League”, un partito locale sul tipo della nostra Lega che l’establishment dell’epoca tentò invano di fermare ma che in realtà si rivelò assai lungimirante. Quel movimento propose saggiamente agli elettori del Nord Dakota di non aderire al Federal Reserve System, ovvero al circuito finanziario imperniato sulla Fed, la banca centrale americana. I componenti della Nonpartisan League, infatti, pensavano che non ci si potesse fidare dei banchieri di Wall Street e che fosse più saggio avvalersi di un istituto indipendente.

Il tempo ha dato loro ragione. La Federal Reserve, infatti, non appartiene ai cittadini americani, ma alle banche, che pertanto sono i suoi azionisti di riferimento. Il liberista repubblicano Ron Paul da anni sostiene inascoltato che una banca centrale non è nemmeno contemplata dalla costituzione americana, e che di fatto la sua stessa esistenza tradisce lo spirito dei fondatori degli Usa. Furono gli ambienti di Wall Street nel 1914 a indurre il presidente Wilson a creare la Fed, la quale però, nel corso dei decenni, ha abusato delle sue prerogative, assumendo compiti e generando dinamiche devianti e sottraendo al popolo la sovranità finanziaria.

Contrariamente alla Fed, invece, la Nord Dakota Bank non ha bisogno di varare interventi straordinari a sostegno di un’economia decotta, per la semplice ragione che Bismarck (capitale del Nord Dakota ndr) non solo non ha debiti, ma è addirittura in attivo. In poche parole la North Dakota Bank non è caduta nella trappola dei subprime, o in quella della cartolarizzazione dei debiti, né nelle altre diavolerie finanziarie escogitate negli ultimi anni dai dissennati e avidissimi manager. La Ndb, cioè, ha continuato a svolgere il ruolo di banca centrale al servizio della comunità, mettendo a disposizione dei privati le risorse necessarie per avviare floride imprese.

Il successo di Bismarck, insomma, è tutto qui. Infatti, pur usando il dollaro come valuta di scambio, il Nord Dakota è l’unico angolo d’America che non dipende dalla Federal Reserve. A garantire le sue riserve sono i cittadini stessi, i quali, però, in caso di dissesti finanziari, non potrebbero avvalersi della tutela federale. Lo Stato cioè corre sì un rischio, ma ipotetico. In oltre 90 anni di vita, infatti, l’istituto non s’é mai trovato in difficoltà, uscendo indenne da ogni tempesta.

Per legge, lo Stato e tutti gli enti pubblici devono versare i fondi nelle casse della Banca Centrale del Nord Dakota, che li impiega non per ottenete utili strepitosi, né per corrompere, ma semplicemente per favorire la crescita dell’economia. Di fatto l’istituto agisce come un’agenzia di sviluppo, e dunque sostiene progetti d’investimento, concede finanziamenti a interessi molto bassi, nonché prestiti agli studenti a condizioni assai eque e ha un tasso di spreco di risorse e d’inefficienza gestionale bassissimo.

Per dirla in altri termini, quegli investimenti non vengono dissipati in progetti insensati o improduttivi, non foraggiano carrozzoni con interessi  e prospettive clientelari, ma ricchezza nel territorio e dunque nuovo gettito fiscale e nuovi fondi per la banca, che nel 2009 ha chiuso con un attivo di 58 milioni di dollari. Il sistema funziona così bene che diversi Stati americani vogliono imitarlo. Si tratta di realtà come California, Ohio, Florida.

Alla luce di queste considerazioni, quindi, l’unica voce stonata è quella di Jean-Claude Trichet. Il  governatore della Bce, infatti, in un’intervista rilasciata di recente ha duramente stigmatizzato la politica di controllo sui capitali operata da Bangkok. Secondo il boss di Francoforte infatti bisogna dire no al protezionismo e sono da bandire politiche di svalutazione a danno dei vicini.

Insomma, la Bce è l’ultimo soldato giapponese rimasto sull’atollo liberista a combattere per una patria ormai estinta. E assiste con benevolenza alla perdita di quote di mercato e di posti di lavoro, dovuta all’euro forte, da parte dei componenti il club della moneta unica. Il tutto perché la Germania, avendo operato una radicale demolizione del suo sistema sociale, sta attraversando una fase di boom economico che la mette in grado di schiacciare ogni concorrenza. La corazzata germanica però, così facendo, ha sottratto notevoli quote di mercato a Francia e a Italia e presto potrebbe persino esigere da Trichet un rincaro del costo del denaro per raffreddare la sua febbricitante economia. Il che porterebbe alla disperazione i paesi non-competitivi come l’Italia, provocando la fuoriuscita di alcuni membri del club dell’euro, la probabile disintegrazione della moneta unica e il collasso politico del continente.

Infatti noi “poveri” reprobi, appartenenti al gruppo dei “Pigs”, ci troviamo a fare i conti con una moneta forte che chiamiamo euro ma si dovrebbe leggere marco, e abbiamo perciò, proprio grazie alla nostra debolezza strutturale, tassi d’interesse alti – tipici di un’economia inaffidabile – quando ce ne vorrebbero bassi, e deflazione – tipica di un paese a economia forte – quando, per non morire di stenti, ci servirebbe un po’ d’inflazione. E anche questo, per suicida interventismo dirigista. Che ora sarebbe opportuno cominciare a fare girare in senso opposto, invertendo i fattori. Prima che sia troppo tardi.