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Ascesa e declino di sua maestà il Dollaro

di Enrico Tomaselli - 16/08/2025

Ascesa e declino di sua maestà il Dollaro

Fonte: Giubbe rosse

All'indomani della seconda guerra mondiale, l'economia statunitense cresceva impetuosamente, grazie alla straordinaria capacità produttiva sviluppata durante il conflitto e, non secondariamente, agli effetti del 'new deal' roosveltiano. A sua volta l'Europa usciva dalla disastrosa sconfitta, avviando una ricostruzione materiale e morale, che raggiungerà il suo apice negli anni sessanta. Anche qui si completava il processo di industrializzazione, soprattutto nei settori metalmeccanici (automobili, elettrodomestici…) e chimico. Per tutti gli anni dal dopoguerra all'inizio dei '70, l'interscambio commerciale era in netto surplus americano: gli USA esportavano molto più di quanto importassero, col vecchio continente.
È durante il decennio cruciale dei settanta, che avvengono dei cambiamenti importanti.
L'industria statunitense fatica a competere con quella europea e giapponese, e quindi cresce assai più l'import che l'export. Poi gli accordi di Bretton Woods (sganciamento del dollaro dall'oro) e la crisi petrolifera (1973 e 1979), oltre a sconvolgere l'economia globale, e soprattutto quella occidentale, innescheranno un processo che porterà gli Stati Uniti a cercare un nuovo riferimento in Medio Oriente (storicamente due, ma nel '79 con la rivoluzione islamica perderanno la Persia dello Shah), trovandolo nell'Arabia Saudita. Il 'patto' sancirà la nascita del petrodollaro, ancorando la valuta americana alle fonti energetiche - e da lì prenderà poi avvio un nuovo processo, che farà del dollaro la valuta di riferimento per il commercio internazionale in senso ampio.
Il decennio successivo è segnato, negli USA, dalla presidenza Reagan (1981-1989), e dall'avvio delle 'reaganomics', le politiche economiche che apriranno la stagione liberista, con una drastica riduzione delle tasse sui profitti - un trend, questo, mai più invertito. Il combinato disposto tra un crescente accumulo di capitali, e la calante competitività dell'industria statunitense, spingerà progressivamente il capitale verso la speculazione finanziaria, piuttosto che verso la competizione industriale.
Con gli anni '90, e la caduta dell'URSS, negli states prevale l'ubriacatura della "fine della storia", e la storica convinzione americana di possedere una 'missione ordinatrice' nei confronti del mondo viene rafforzata dall'idea di averne ora anche la legittimità.
La politica statunitense, quindi, imbocca decisamente alcune strade, che ne segneranno il destino.
Si avvia il processo della globalizzazione economica, e l'industria viene massicciamente delocalizzata (quella USA, in Messico, in Cina, in Vietnam, etc, quella europea verso est, Romania e Polonia soprattutto). L'obiettivo è aumentare considerevolmente i profitti, grazie ad un costo del lavoro assai più basso, ed al tempo stesso spezzare la capacità contrattuale della forza operaia interna (residua). L'economia statunitense migra decisamente verso la finanza, la terziarizzazione e l'high-tech.
L'avvio della rivoluzione digitale, che è prevalentemente immateriale, favorirà per un verso l'internazionalizzazione del capitale finanziario, moltiplicandone infinitamente la mobilità, e dall'altro il passaggio ad una economia di servizi. Anche se alcune aziende - Cisco, Intel, Nvidia - si concentrano sulla produzione di componenti (spesso però delocalizzata), cresce la componente 'terziaria'. Già le cosiddette GAFAM (Google, Apple, Meta, Amazon, Microsoft) sono prevalentemente erogatrici di servizi; nasce il 'capitalismo di piattaforma'. La produzione di plusvalore si sposta dalla produzione/vendita di beni materiali all'estrazione di valore dai dati, forniti gratuitamente da miliardi di utenti nel mondo.
Durante tutta questa fase, i paesi produttori - in Europa e nel Sud-Est asiatico - conoscono una crescita economica considerevole; alcuni, la Cina in primis, capitalizzano al massimo i benefici della globalizzazione, per far crescere l'economia e non restare ancorati al ruolo di paesi sussidiari. Tutti, comunque, alimentano una costante domanda del biglietto verde, poiché questo è la valuta del commercio internazionale. E buona parte del surplus viene anche investito nel debito USA.
Di fatto, si crea un circolo virtuoso che alimenta il valore del dollaro - quindi è assai ben visto a Washington - che continua ad essere stampato in grandi quantità. È in effetti una gigantesca bolla, ma finché funziona va tutto bene.
Con il nuovo millennio, e l'emergere sempre più significativo di competitor economici (Cina) e politici (Russia, Iran, Corea del Nord), prende decisamente piede la pratica di usare il dollaro come un arma. Se durante tutta la seconda metà del novecento istituzioni come il FMI, o la BCE, hanno usato il credito come strumento di ricatto verso i paesi del sud del mondo, ingabbiandoli in una spirale debitoria che ne stroncava le aspirazioni, negli anni duemila dilaga l'uso delle sanzioni unilaterali e del ricatto monetario.
Ma questo non solo è apparso come esplicitamente estortivo, ma è risultato anche tardivo, un chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati.
Paesi come Cina e India non sono più riducibili ad un ruolo subalterno. L'idea della Russia come "una pompa di benzina con la bomba nucleare" è completamente fuori dalla realtà.
In un certo senso, si può dire che il crinale dell'irreversibilità, nel processo di declino degli USA, è stato superato.
Ciò cui assistiamo oggi, quindi, è la fase terminale del processo. Il debito statunitense cresce in modo esponenziale, e non c'è verso di fermarlo. L'uso aggressivo della moneta, delle sanzioni  e dei dazi, sta spingendo sempre più paesi a disinvestire dal debito pubblico USA ed a cercare l'uso di valute alternative al dollaro, per il commercio internazionale. Il dollaro si svaluta, ma paradossalmente questo non favorisce l'export statunitense, per la semplice ragione che gli Stati Uniti non producono più nulla - a parte le armi. E infatti Trump cerca di esercitare il residuo potere sulle colonie europee e nell'Asia-Pacifico, affinché acquistino proprio quelle. E ciò nonostante, non c'è molto da far affidamento neanche su questo: l'industria bellica statunitense è centrata su prodotti ad alta tecnologia ed alto costo, con tempi di produzione lunghi e quantitativi limitati. Quindi, quand'anche si impennasse la domanda, avrebbe difficoltà a soddisfarla. Oltretutto, l'high-tech militare dipende moltissimo da componenti (terre rare) di cui gli USA dispongono molto limitatamente, e che invece abbondano in mano ai 'nemici'.
Per non parlare del fatto che l'impegno nelle proxy-war in Ucraina e Medio Oriente ha largamente svuotato gli stessi arsenali USA, che devono essere urgentemente ripristinati.
La sola opzione praticabile, per calciare il barattolo un po' più in là, è applicare le politiche ricattatorie direttamente sulle colonie, in Europa, in Medio ed Estremo Oriente, nel Pacifico. Per ora, comunque, a queste minacce di saccheggio hanno fatto seguito solo promesse, da parte dei minacciati. Compreremo, investiremo. A darsi da fare più di tutti sono in particolare gli europei, letteralmente terrorizzati che la fine del conflitto in Ucraina possa significare anche la fine delle élite politiche di Bruxelles, Londra, Berlino e Parigi. Ma soprattutto a queste leadership mancano non tanto gli strumenti, per opporsi ai ricatti statunitensi, quanto - mi si passi il termine - le palle per farlo.
Tutto ciò, comunque, equivale ad usare pannicelli caldi per curare il cancro che divora l'egemonia americana. E la strategia trumpiana sembra tanto una versione politico-economica globale del ben noto "tachipirina e vigile attesa".
Il re dollaro è nudo. E nelle capitali mondiali hanno già scritto il coccodrillo.