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Cosa dice lo sguardo morente di Cleopatra nella tela viennese di Guido Cagnacci?

di Francesco Lamendola - 19/11/2010


Guido Cagnacci (Sant’Arcangelo di Romagna, 1601 - Vienna, 1663) amava ritrarre le belle donne nude, spesso sfruttando pretesti mitologici e persino biblici per metterne in scena i giovani corpi dalle forme statuarie, pervasi da un languore morbido e sensuale.

Sua è, fra l’altro, quella splendida ragazza che campeggia nel celebre «Ratto di Europa»; sua una improbabile versione profana dell’episodio evangelico di Marta e Maria; sua un’«Estasi di Maria Maddalena» che spinge all’estremo limite il binomio barocco Eros-Thanatos (con la giovane santa ignuda che si abbandona, stringendo un teschio nel grembo); sue, infine, una serie di variazioni sul tema del suicidio di Cleopatra, la celeberrima regina egiziana, dopo la sconfitta di Marco Antonio, per non dover subire l’umiliazione della cattura da parte di Ottaviano Augusto.

Le due versioni più famose la ritraggono ormai esanime, abbandonata su una imponente poltrona dall’alto schienale di legno imbottito: in una, la più nota (153 cm. x 168,5 cm., presso la Gemäldegalerie del Kunsthistorisches Museum di Vienna), reclina il capo in avanti ed è circondata da uno stuolo di giovani ancelle come lei discinte, apparentemente commosse (si noti che le uniche due anziane, e verosimilmente vestite, sono seminascoste dallo schienale, per cui se ne vedono solo i volti addolorati); nell’altra (120 cm. X 158 cm., Pinacoteca di Brera, Milano), ella piega lievemente la testa all’indietro e, gli occhi appena socchiusi nel sapiente gioco di ombra e luce, «par che dorma», come dice Tasso di Armida: è da sola, e ciò sottolinea l’atmosfera non già drammatica, ma dolcemente abbandonata e quasi sognante della scena.

Un’altra versione, un po’ più piccola (93,5 cm. x 115 cm., sempre  custodita nella Gemäldegalerie del Kunsthistorisches Museum viennese), presenta caratteristiche diverse e più anticlassiche, più barocche nell’ideazione e nella composizione.

Qui la regina del Nilo è colta non già nel sonno della morte, ma nell’istante drammatico che la precede: la bocca aperta come a gridare o a invocare aiuto; lo sguardo obliquo, diretto verso l’alto, quasi a strappare un ultimo raggio della fuggente luce (come direbbe Foscolo), prima che il buio scenda sui suoi occhi e nasconda ogni cosa nella notte eterna; e il gesto convulso delle mani e delle braccia: nella destra stringe ancora l’aspide da cui si è fatta mordere, mentre con l’altra afferra convulsamente il bordo della veste, come per aggrapparsi a qualcosa che la trattenga «sul limitar di Dite».

È, di gran lunga, la versione più drammatica di tutte: lo sfondo nero che l’avvolge sottolinea la tragicità del trapasso, che non è composto e delicatamente rassegnato, come nelle altre due tele di analogo soggetto, ma che, per lo stacco violento fra la luce che illumina dal basso il bel corpo seminudo e l’ombra che avanza da ogni lato, esprime una estrema tensione e quasi un urlo di protesta contro la vita che fugge;come se Cleopatra avesse avuto un momento di ripensamento e si disperasse per l’irreversibilità del suo gesto fatale.

Il viso, in particolare, è una vera e propria maschera drammatica.

Al posto dei lineamenti distesi e serenamente abbandonati delle altre tele, anche per il suddetto effetto di luce irrompente dal basso - una luce violenta e quasi caravaggesca -, vediamo la bocca aperta e gli occhi spalancati, ma già sul punto di chiudersi, simili a tre finestre oscure, che non accolgono la luce, ma la respingono; alle quali si aggiungono, sempre per l’effetto prospettico dal basso verso l’alto, le due macchie scure più piccole delle narici e la linea, pure scura, del sopracciglio sinistro (l’altro quasi non si vede), inarcato anch’esso come un estremo grido di soccorso e di protesta.

Più in basso ancora, un’altra finestra “cieca”: l’incavo dell’ombelico, la cui ombra contrasta vivamente con le carni bianchissime e par quasi una ferita; mentre il movimento nervoso delle gambe richiama quello, altrettanto nervoso, delle braccia, in un gioco di simmetrie sapientemente contrappuntate.

Quello che però colpisce maggiormente l’osservatore, in questa tela di Guido Cagnacci, non è la perfezione dell’anatomia (eppure si tratta certo di uno dei più bei nudi femminili della pittura italiana post-rinascimentale, con il seno piccolo ma perfetto e la linea morbidissima del fianco e delle braccia), bensì l’espressione del viso e, soprattutto, l’espressione degli occhi e il gesto di aprire la bocca: si direbbe proprio che a questa infelice regina manchi solo la parola per poter esprimere compiutamente il proprio dramma.

L’angoscia, lo sbigottimento, il rammarico dell’addio alla vita, forse un tardivo ripensamento circa il suicidio, rendono quel viso, quello sguardo, quella bocca aperta, una maschera d’inesprimibile intensità drammatica, quale raramente è stata eguagliata da altri artisti.

Schopenhauer si domandava, davanti al «Laocoonte», perché lo sventurato sacerdote troiano non gridi, non possa gridare, mentre i due draghi usciti dal mare gli avviluppano le membra e straziano quelle, tenere e inermi, dei suoi due figlioletti; e così anche noi vogliamo domandarci perché questa Cleopatra, sventurata e bellissima, non gridi; perché nessun suono esca da quella gola protesa in una suprema invocazione alla vita fuggente.

Hanno scritto Agnese Chiari Moretto Wiel e Giada Sirchi, curatrici del bel volume «San Marco, Dipinti di antichi maestri» (catalogo dell’asta tenutasi il 15 ottobre 2006 presso Ca’ Vendramin Calergi di Venezia; pp. 142):

 

«Definito dalle fonti bizzarro e stravagante, Guido Cagnacci è certo l’artista più celebre della prima metà del seicento in Romagna. Sebbene alcune fonti ne ricordino un apprendistato bolognese presso Ludovico Carracci e Guido Reni, altre lo dicono autodidatta e il suo periodo giovanile, che mostra elementi di cultura caravaggesca e riformata, rimane ancora in gran parte da definire. Importanti sono, nella sua formazione, anche due brevi soggiorni a Roma, il secondo dei quali al seguito del Guercino, nella cui casa romana, appunto, il pittore risedette. I suoi primi dipinti documentati sono le due tele con “San Sisto e la processione del Santissimo sacramento” nella parrocchiale di Saludecio, databili intorno al 1627. Dal 1623 al 1648 la sua attività si svolge soprattutto in Romagna. È questo il periodo in cui, parallelamente alla sua affermazione, si assiste anche ad una fase della sua vita segnata da vicende avventurose, come il tentativo di fuga con una giovane vedova, a causa del quale nel 1628 Guido è bandito da Rimini. A partire dal 1635, con la “Pala di Santarcangelo”, firmata e datata, inizia la fase matura dell’artista, in cui è evidente l’influsso dei grandi maestri emiliani (Renio e soprattutto il Guercino). È questo il momento caratterizzato da “morbidi e sfumati passaggi cromatici e… contenuti spesso sensualmente orientati”. Nel 1642 è a Forlì, dove gli viene commissionata la decorazione della Cappella della Madonna del Fuoco nella cattedrale, per la quale, però, il pittore eseguirà soltanto le due grandi tele con “La gloria di San Valeriano” e “La gloria di San Mercuriale”, oggi alla Pinacoteca Civica della città, opere “che si collocano tra gli esiti più alti del Cagnacci, impegnato a proporre una personale interpretazione in chiave teneramente naturalistica, del gusto decorativo barocco”. Concluso nel 1645 il soggiorno forlivese, dopo altri spostamenti tra Cesena e Faenza, verso il 1650 il pittore si stabilisce a Venezia, con il nuovo cognome di Canlassi, adottato forse per evitare le conseguenze delle numerose avventure romagnole. È questa la fase a cui risale la maggior parte delle tele raffiguranti sensuali e suadenti figure femminili. Il soggiorno veneziano dura probabilmente fino al 1659, anno in cui Guido passa a Vienna su invito dell’imperatore Leopoldo I, del quale esegue un ritratto ufficiale (Vienna, Kunsthistorisches Museum). A Vienna il pittore muore nel1663. Per le qualità formali ed i contenuti moraleggianti delle rappresentazioni allegoriche la sua pittura fu molto apprezzata nei raffinati ambienti del collezionismo europeo.

Questo splendido dipinto da stanza [ossia «La morte di Cleopatra» della tela minore viennese], in ottimo stato di conservazione, ben si colloca nel novero delle elaborazioni sul tema della figura femminile dipinte dal Cagnacci negli anni dei soggiorni veneziano e viennese. Si tratta di opere che si pongono all’interno di una lunga tradizione, in cui i nudi erano raffigurati con il pretesto di rappresentare temi storici o mitologici, fondendo così contenuti moraleggianti e ideali di suadente bellezza.

In particolare tra lo scorcio degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo Guido esplora più volte il soggetto della “Morte di Cleopatra”, del quale sono note numerose redazioni (Bologna, Pinacoteca Nazionale, 1657) che presentano la regina d’Egitto alla fine della vita, sola (Vienna, Kunsthistorisches Museum, 1658), in composizioni in cui un studiata raffinatezza formale si fonde con accenti di squisita sensualità, destinata a divenire proverbiale presso il pubblico internazionale.

Come nelle altre opere ricordate, anche nella tela che qui si presenta, il corpo nudo della giovane donna bionda, morbido e flessuoso, giace abbandonato su una rigida poltrona, creando un suggestivo contrasto , ma a differenza delle altre - in cui è ormai sopraggiunto un sereno abbandono alla morte - Cleopatra sembra qui colta in un ultimo drammatico afflato di vita, mentre stringe con la destra l’aspide mortale e con la sinistra il drappo grigio argenteo, che ne copre in parte la nudità.

Un colore studiatamente raffinato ed una luce chiara e delicatamente modulata completano la definizione della figura che emerge in tutta la sua raffinata bellezza dal buio uniforme dello sfondo.»

 

Verrebbe fatto di pensare che Guido Cagnacci abbia tenuto presente, nel dipingere questa tela dalla concezione così originale, la «Niobide morente» del Museo nazionale Romano, tante sono le analogie figurative fra le due opere: in particolare quella bocca semiaperta ad emettere un gemito di sofferenza e quasi di supremo stupore.

Ma il fatto è che la «Niobide» è emersa da un terreno degli Orti Sallustiani solo nel 1909 e quindi, evidentemente, né Cagnacci né alcuno degli artisti del Rinascimento o del Barocco potevano averne la benché minima conoscenza.

Conviene perciò ricondurre l’ispirazione della tela viennese a quell’anticlassicismo programmatico proprio della civiltà seicentesca e alla personale vena del pittore, non senza suggestioni del Reni e del Guercino, ma anche del Caravaggio, e in direzione di una interpretazione in chiave naturalistica della decorazione barocca, percorsa da una inconfondibile vena di sensualità che, nel caso specifico di quest’opera, conduce ad esiti particolarmente originali.

Infatti, l’incontro fra la drammaticità della scena, dominata dal senso della morte, anzi, dalla fuga della vita, e l’ultimo anelito di vitalità della giovane donna spirante, quasi un grido di protesta contro il destino che la rapisce nel fiore degli anni e della bellezza, perviene ad esiti particolarmente suggestivi e quasi moderni, che non sarebbero spiaciuti nel clima del Romanticismo nordico e, più ancora, della cultura decadentista e simbolista.

Il binomio di Amore e Morte (benché Cleopatra non muoia per amore, o non principalmente per amore, la sua fulgida venustà ne fa, comunque, una inconsapevole Afrodite) si fonde in un dinamismo di sapore quasi berniniano, che tuttavia coesiste con un senso della plasticità e della compiutezza i quali fanno pensare anche alla grande tradizione rinascimentale, e specialmente a spunti e suggestioni dall’arte di Jacopo Pontormo.

Se dovessimo, infatti, indicare un antecedente e, per così dire, un adeguato interlocutore alla tragica, disperata Cleopatra della tela di Cagnacci, forse finiremmo per indicare la figura in basso nella «Deposizione» del Pontormo risalente al 1525-28, nella Cappella Capponi della Chiesa fiorentina di Santa Felicita. Nel viso di San Giovanni che regge il corpo di Cristo, mentre le pie donne e altre figure lo stanno togliendo dalla croce - che però non si vede affatto -, vi sono una tale angoscia, una tale disperazione e, per contrasto, una tale celestiale bellezza (in effetti, sembra più il volto di una creatura angelica che umana), quali a stento si potrebbero immaginare.

Certo, volendo potremmo indugiare a lungo nel cercare somiglianze e possibili motivi ispiratori; ma sarebbe - crediamo - una fatica in gran parte vana, sia perché non potrebbe condurre ad alcun risultato certo e definitivo, sia perché qui il Cagnacci ha raggiunto, senza dubbio, uno dei vertici della sua originalità inventiva.

Quanto allo sguardo di Cleopatra, sono molte le cose che sta dicendo, ma nessuna è traducibile in parole e per una ragione molto semplice: l’orrore della morte è, per definizione, indicibile, specialmente da parte di chi si trovi ad affrontare impreparato e carico di rimpianti  quell’estremo, dubbioso passo.

Il grido di muta angoscia della regima egizia si direbbe il primo di una lunga serie che, attraverso i secoli, arriva fino a «L’urlo» di Edvard Munch, ed oltre: altrettanto silenzioso e altrettanto carco d’angoscia, a testimonianza di un crescendo di solitudine, smarrimento e paura, che caratterizzano la condizione umana della modernità.

Forse c’è un nesso sotterraneo fra la disperazione di Cleopatra e quella dell’uomo rappresentato da Munch; così come vi è fra l’età di Cagnacci, il XVII secolo, e quella di Munch, il XX: con la prima inizia la Rivoluzione scientifica e l’uomo incomincia a farsi Dio di se stesso, sostenendo orgogliosamente che ogni nuova conoscenza accresce il suo dominio sul mondo e sulle cose; con la seconda, assistiamo agli esiti di quell’orgoglio e di quel patto faustiano con le forze della distruzione, simboleggiati dal «gran Sole» di Hiroshima.

Crediamo vi sia materia su cui riflettere, almeno per quanti sappiano vedere e per quanti vogliano sforzarsi di capire.