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Il 7 aprile 1979

di Franco Piperno - Fabio Chiusi - 23/12/2010

Fonte: lettera43




Quel famoso 7 aprile 1979, che il senatore del Pdl Maurizio Gasparri vorrebbe retrodatare di un anno (leggi l’articolo), Franco Piperno c’era. Insieme con figure di spicco di Autonomia Operaia quali Toni Negri, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari Bravo, una ventina in tutto, era finito nel mirino del pubblico ministero di Padova, Pietro Calogero. L’ordine? Arrestateli tutti. Preventivamente.

Proprio come proposto da Gasparri per i «potenziali assassini» che si celerebbero in mezzo agli studenti in protesta contro il governo di Silvio Berlusconi e, in particolare, contro la riforma dell’Università del ministro Mariastella Gelmini: «Ci vuole un 7 aprile». Ergo: arresti preventivi.
Allora l’accusa era di collusione con il terrorismo delle Brigate rosse, poi sminuita e smontata pezzo a pezzo, tranne alcuni reati residuali, dalla magistratura.
Durante il periodo degli arresti alcuni fuggirono, latitanti, in Francia. Negri, Scalzone. E lo stesso Piperno, prima di fare ritorno in Italia e diventare docente di Fisica all’Università della Calabria. È lo stesso Piperno a raccontare a Lettera43.it ciò che è rimasto nella sua memoria di quel giorno invocato da Gasparri.

Domanda: Che ricordo ha di quel 7 aprile 1979?

Risposta: Era una magnifica giornata di sole, a Roma. Io insegnavo all’Aquila allora, e questo ha fatto sì che non mi trovassero quando i poliziotti mandati da Calogero vennero a cercarmi. Poi ho saputo accidentalmente da un compagno a Pescara che avevano arrestato a Milano Toni e altri, e ho subito pensato che sarebbero venuti anche da me, vista la paranoia di attribuire tutti i mali dell’Italia di allora al movimento di Autonomia Operaia.

D. Il movimento non aveva responsabilità?

R. Naturalmente aveva le sue responsabilità, ma certo era il contrario di ogni ipotesi di lotta armata, visto che in Autonomia Operaia c’erano delle persone non clandestine che partecipavano alla vita politica. Quasi il 90% lavorava, era tutta gente che si poteva trovare in ufficio o a casa tranquillamente. Dunque quel blitz fu una cosa da giustizia-spettacolo.

D. Funzionò?

R. La memoria dei mezzi di comunicazione è talmente esangue che non ci si ricorda che il 7 aprile fu un boomerang per la giustizia italiana, una manovra messa in piedi dal Partito Comunista e dai giudici comunisti. Nel 1979 anche chi sosteneva l’accusa era meravigliato dell’inconsistenza della cosa, era un teorema. Ma mentre i teoremi servono in geometria, e occorre pure studiarli, nell’attività politica un teorema è un completo disastro. Perché parte dall’individuazione dei colpevoli e dopo si cercano le prove.

D. Risultato?

R. Ci fu un inasprimento della violenza, non solo nel senso di manifestazioni di protesta in tutta Italia, ma anche di scontri e di radicalizzazione. Molti militanti di allora presero il provvedimento come un segno che non c’era più agibilità democratica. È sempre andata così: il rischio è radicalizzare lo scontro.

D. Lo stesso si applica alle parole di Gasparri?

R. Sì, è esattamente quello che fecero Calogero e i giudici comunisti in quegli anni. Un momento nero della giustizia italiana, che ha anticipato l’idea della politica fatta attraverso la giustizia. E che solo uno come Gasparri, che sembra un pugile suonato, può rivendicare. E poi pensi agli aspetti pratici di quella misura.

D. Cioè?

R. È un po’ come le ronde: vuol dire partorire una soluzione del tutto immaginaria. L’unica cosa seria che il governo potrebbe fare è lasciare che i manifestanti arrivino davanti ai palazzi del potere come avviene in gran parte dell’Occidente.

D. Ma non c’è il rischio di gesti violenti?

R. Le manifestazioni in Italia, almeno a partire dal G8 di Genova del 2001, sono state moltissime. E sono state pacifiche ogni volta che la polizia non si è presentata in maniera provocatoria blindando una parte della città e quindi eccitando, come si sa benissimo dal tempo dei romani, l’ostilità dei dimostranti. Che ovviamente non ce l’hanno con quei poliziotti. Purtroppo, come sempre succede, i figli del popolo devono proteggere il potere. Quindi finiscono con lo scontrarsi, checché ne dicesse Pier Paolo Pasolini, con quelli che tentano di migliorare le condizioni del popolo.

D. Niente cordoni di polizia uguale niente violenza, dunque?

R. Chi pesta un poliziotto è naturale che venga arrestato. Come diceva Hegel, ogni manifestante ha diritto alla sua pena. E io quando commettevo degli atti di violenza, ammesso che li abbia commessi, lo facevo giusto e consapevolmente come violazione della legge. La legge esiste per essere violata.

D. Ma chi lo fa deve pagarne le conseguenze.

R. Naturalmente. Ma c’è una gradazione: un conto è lanciare un pomodoro, un conto è sparare. Se tutto diventa la stessa cosa si finirà con lo sparare, non con il lanciare il pomodoro. E poi se tra 100 mila persone c’è qualche testa calda, sono più facili da isolare. L’aspetto più civile è quando gli stessi manifestanti si autocontrollano.

D. Ed è successo il 14 dicembre, durante gli scontri a Roma?

R. Penso di sì. Si chiedevano chi li paga, questi che hanno 40 stipendi chiedevano chi paga dei manifestanti che lanciano una pezza intrisa di petrolio. Che naturalmente può fare cose gravissime, ma non occorrono molti soldi né un’organizzazione strategica. Perché gli inglesi non si affannano a cercare gli infiltrati? Lì hanno cercato di picchiare addirittura l’erede al trono. È come se avessero picchiato un protetto di Berlusconi. Che so, Gianni Letta. Se avessero bastonato Letta in Italia sarebbe stato provato che c’è un complotto.

D. Perché?

R. Secondo me questo rivela un livello della discussione in Italia dove ad essere sovversivi sono gli stessi giornali della borghesia. Antonio Gramsci diceva giustamente che l’Italia ha una tradizione carnascialesca di sovversivismo delle stesse classi dirigenti. Pensi a uno come Di Pietro. In qualsiasi paese sarebbe isolato come irresponsabile per aver detto che il governo è composto da una cricca di ladri. Io non sono certamente a favore di questo governo, ma mi sembra un atteggiamento del tutto irresponsabile, perché se così fosse la soluzione sarebbe arrestarli.

D. Come spiega la violenza del 14 dicembre?

R. È cresciuta una forte ostilità nei confronti della stessa struttura politica dell’Italia: la gente ha l’impressione di non essere rappresentata. C’è una degradazione della coscienza civile del paese a cui i giovani reagiscono. Con forme spesso ingenue, anche rozze, ma bisogna avere pazienza. Se il movimento crescerà via via gli studenti affineranno gli strumenti, avranno un loro linguaggio, anche una loro ideologia.

D. La violenza è solo una fase, dunque?

R. Prima si protesta, si blocca. Poi in un momento successivo c’è una fase di riflessione. Come succede nella crescita di una persona così accade di una comunità. Pensi l’ingenuità di rivendicare il futuro. Così come la trasparenza.

D. Parole vuote?

R. Ci sono alcune parole nel lessico italiano che sono spie della degradazione della coscienza civile. Prendiamo la trasparenza. Chiedere la trasparenza vuol dire chiedere una situazione in cui non si vede niente. L’aria è trasparente. Chiedere che il potere diventi trasparenti vuol dire, in italiano, che il potere diventi completamente invisibile. Però tutti usano la parola ciecamente.

D. E il futuro?

R. La sua caratteristica è non essere. Che significa “mi hanno rubato il futuro”? Assolutamente niente. Io lascerei volentieri che mi rubassero tutto il futuro possibile. Il futuro, quello reale, indica il progetto, indica delle operazioni da fare nel presente, non cose da rivendicare nel futuro, perché nessuno saprà cosa accadrà nel futuro. Ai miei tempi era impensabile pensare che le pensioni fossero modificate in modo tale che tra un po’ si andrà in pensione con meno della metà dello stipendio che si aveva prima. Si erano fatte delle lotte, era arrivata una legge, ma questo non garantisce nulla. C’è un elemento di confusione nelle richieste dei manifestanti.

D. Concretamente?

R. La difesa dell’università pubblica è un errore. Capisco che è fatto in buonafede, ma l’università pubblica non funziona, e non è un problema solo della Gelmini e di Luigi Berlinguer, che hanno contribuito a non farla funzionare. Non funzionava già da prima, perché l’università italiana tenta di americanizzarsi, finirà per privilegiare solo la dimensione di creazione di forza lavoro. Mentre invece l’università italiana ha delle ottime prestazioni se viene lasciata alla sua autonomia. L’università è una istituzione medioevale, quindi è una corporazione. Il problema è che questa corporazione si deve prendere intera la sua responsabilità, ma il fatto che sia pubblica non lo garantisce, perché nel pubblico si fanno tutti gli imbrogli peggio che nel privato.

D. La protesta rischia di essere più conservatrice di chi fa la riforma?

R. Naturalmente, ma per confusione, non per volontà di conservare. Perché c’è l’esigenza di argomentare la protesta e si prendono i luoghi comuni che i media passano. Da Pier Luigi Bersani, una figura di totale mediocrità grigia, si prendono parole d’ordine di buonsenso. Pensi che il ’68 è partito alla maniera della scuola di Francoforte, come lotta contro l’autoritarismo dei professori. In Germania si era caratterizzato come un attacco ai professori di sinistra, i progressisti,
per metterne in evidenza l’ipocrisia.

ùD. Quindi tra le proteste di allora e di oggi la differenza è che allora avevate un’ideologia?
R. Penso che ci sia una diversa strumentazione concettuale, che oggi ci sia una formazione più lacunosa nei ragazzi che protestano. Ma se la protesta continua faranno in fretta a crescere. Perché le assicuro che conta più un mese di occupazione, per la formazione di una personalità, per la sua capacità di esprimersi, per la sua coerenza, di anni e anni di corsi disciplinari.