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Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo

di Eduardo Zarelli - 20/04/2011

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Se il dimorare è l'antidoto allo spaesamento contemporaneo, dobbiamo sicuramente confrontarci con Alberto Magnaghi - docente di Pianificazione territoriale presso il Dipartimento di Urbanistica dell’Università di Firenze - autore de Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo (Bollati Boringhieri, 2010). La condizione di "doposviluppo" in cui ci ha fatti precipitare la crisi economica mondiale impone nuove visioni strategiche, a partire proprio da ciò che ci è più prossimo: il luogo in cui viviamo e da cui, paradossalmente, siamo sempre più sradicati. La nostra esistenza si delocalizza, perdiamo la sovranità sulle sue forme materiali e simboliche, mentre quell'autentica opera d'arte corale che è il territorio, costruito nel dialogo vivo tra uomo e natura, subisce una spoliazione sistematica, riducendosi a supporto amorfo di opere e funzioni, quando non a discarica di rifiuti. Per Magnaghi - tra i massimi teorici italiani del localismo consapevole - è ormai improrogabile riprogettare il territorio su basi di autosostenibilità e decrescita. I guasti sono sormontanti, ma si è anche acuita la cognizione della catastrofe é quindi possibile ridare valore allo spazio pubblico attraverso nuove alleanze di comunità. Essenziale è il sorgere di una "coscienza di luogo" (di quartiere, di città, di valle, di bioregione) che miri a tutelare i beni patrimoniali comuni, ossia culture, paesaggi urbani e rurali, produzioni locali, saperi.
Il territorio è un’opera d’arte, forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia espresso; un’opera che prende forma attraverso il dialogo di entità viventi - l’uomo, la natura - nel tempo lungo della storia. Nella corsa alla costruzione di una seconda natura artificiale, la nostra civiltà tecnologica ha ormai abbandonato il territorio a se stesso, riducendolo a superficie amorfa e seppellendolo di oggetti, opere, funzioni, veleni; col risultato, però, di generare crescenti insostenibilità politiche, sociali, economiche e ambientali. Pena la catastrofe, occorre dunque un’inversione paradigmatica proprio a partire dal territorio che, da puro supporto di un modello di sviluppo omologato, ne faccia il fondamento di una differenziazione locale degli «stili di sviluppo» in grado di generare ricchezza durevole, indisponibile alla mercificazione del profitto.
Sotto la colata lavica dell’urbanizzazione contemporanea vive un ricco patrimonio territoriale, pronto ad essere fecondato da nuovi attori sociali, che se ne prendano cura valorizzando qualità peculiari dei luoghi e promuovendo l’autogoverno delle società locali attraverso istituti di nuova democrazia partecipata nell’assunzione di responsabilità di un “bene comune”, cioè nell’equilibrio postmoderno tra diritti e doveri in un ambito comunitario. In tal senso la visione strategica della “riduzione di scala” per ribaltare l’esito della globalizzazione in una generale ri-territorializzazione del sociale, rimanda a ipotesi politiche di federalismo, sussidiarietà e omogeneità geopolitiche continentali. Il concetto di “autosostenibilità” infatti si fonda sull’assunto che solo una nuova relazione fra abitanti-produttori e territorio è in grado, attraverso la “cura”, di determinare equilibri durevoli fra insediamento umano e ambiente, riconnettendo nuovi usi, nuovi saperi, nuove tecnologie alla cultura locale. Si disegna, quindi, una stretta interdipendenza tra concetti, che si sviluppano per assonanza: autosostenibilità, sviluppo autocentrato e autodeterminazione. L’autosostenibilità allude alla necessità di un profondo ridimensionamento dell’“economico” che, divenuto dominante, devasta i processi di autorganizzazione della natura e del sistema sociale, che vi si relaziona. L’appello è rivolto allo sviluppo di un risoluto processo di decentralizzazione - politica, istituzionale, sociale ed economica - che consenta il rafforzamento di pratiche cooperative e di partecipazione, sviluppando nuove forme comunitarie in grado, a loro volta, di rilanciare in divenire l’identità culturale del luogo. La  ricostruzione della comunità è l’elemento essenziale dello sviluppo autosostenibile: la comunità che “sostiene se stessa” fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione, ne sia parte integrante e non “fondo” di sfruttamento e dissipazione. Insomma, nell’autonomia vi è il richiamo alla riunificazione in un unico soggetto politico e sociale del produttore e dell’abitante, di contro all’eterodirezione di istituzioni tecnocratiche parassitarie che distruggono non solo l’ambiente, ma anche il “capitale”, economico e sociale, su cui invece occorre fissare nuovi criteri di “ricchezza” basati sulla qualità della vita, sulla giustizia sociale, sull’identità culturale, di cui è parte la natura “reale” del territorio, con quei limiti fisiologici che suggeriscono nell’immediato la relazione armonica con l’ambiente.
Se la dimensione mondiale dei processi in atto non può essere utopisticamente arrestata, si avrà sviluppo locale dove la società di prossimità saprà resistere attivamente alla globalizzazione costruendo reti solidali. La globalizzazione esclude l’autosostenibilità del locale, imponendo la competitività contro la reciprocità, lo sfruttamento delle risorse contro la valorizzazione del patrimonio identitario, la polarizzazione economica del sociale contro la socializzazione dell’economico. Il locale, come comunità delle comunità, è l’unica credibile eterogenesi dei fini della globalizzazione: riduzionismo tecnocratico, mercificazione economica e omogeneizzazione culturale. Le frontiere dell’identità locale, rigidamente indisponibili verso l’alto - nei confronti cioè della megamacchina - sono il luogo dell’incontro e dello scambio culturale ed economico. Nessuna identità locale può essere esclusivamente autosufficiente; in una società olistica, la piccola scala dell’organizzazione sociale porterà all’interno a forme di collaborazione, mentre all’esterno i rapporti saranno orientati verso forme di federazione e di sussidiarietà, invece che di egemonia o di espansionismo. La soppressione delle differenze, comunque perseguita, oltre ad essere omicida – perché alla biodiversità deve necessariamente corrispondere la diversità culturale – genera mostri con l’esaltazione della diversità fine a se stessa, autoreferenziale, che si percepisce superiore, misantropica e, quindi, aggressiva. L’integralismo, il neo-tribalismo e lo sciovinismo vanno di pari passo o, più probabilmente, al traino della schiacciante arroganza egemone dell’occidentalizzazione del mondo. Magnaghi insiste sulla “forza strategica” di questo processo di opposizione alle forme centralistiche dei processi di globalizzazione, tendenti di moto proprio a una sovradeterminazione dei poteri economici transnazionali, processo che si può attivare soprattutto tramite il rafforzamento di un mondo plurale, politeistico, di società locali, in grado di connettersi relazionalmente, riconoscendo le diversità di stili di sviluppo e attivando relazioni di reciprocità e sussidiarietà.
Caratteristica asociale degli apparati è di autosostenersi parassitariamente a discapito dell’ambiente in cui gli stessi operano.  Il superamento della massificazione totalitaria del liberismo passa per la sostenibilità dei cicli energetici e dello smaltimento dei rifiuti. Questo è possibile in forme consensuali di democrazia comunitaria, con un principio di sovranità che nella libera partecipazione riassorba il dilagante egoismo individualistico.
La modernità ha creato le condizioni contrattualistiche affinché solo la sovranità statuale o l'attività del privato potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e la conoscenza. Una visione meccanicista che nega la consapevolezza di essere parte di un tutto comune rispetto al quale abbiamo doveri iscritti nella nostra condizione ontologica. L'opposizione è quella fra la logica riduzionistica condivisa dal contrattualismo tra proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa propria del comunitario. Soltanto quest'ultima supera il dualismo cartesiano soggetto-oggetto e la conseguente alienazione dell'umano (soggetto astratto) al di fuori della natura, per una nuova cultura politica del bene comune.