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Massimo Fini e il mullah Omar

di Mario Grossi - 27/04/2011



“Sì, quel libro è un insulto all’Occidente, ed è un elogio del terrorismo stragista. Massimo Fini ne Il Mullah Omar sostiene che il capo dei terroristi talebani, amico e complice degli ayatollah iraniani, addestratore degli autori delle stragi dell’11 settembre del 2001, amico e sodale di Osama Bin Laden, torturatore di donne e distruttore del patrimonio artistico mondiale, assassino dei nostri soldati in missione in Afghanistan, è migliore del presidente del Senato italiano, Renato Schifani. Sostiene che i nostri militari eroi in Afghanistan sono degli odiosi invasori; sostiene che il burqa, che soffoca e umilia corpo e parola delle donne, è più dignitoso dello sculettare in tanga delle libere donne italiane.

Sì, noi che intendiamo portarlo a rispondere di quello che ha scritto nei tribunali, lo giudichiamo indegno, scandaloso, inaccettabile. Lo giudichiamo pericoloso per chi lo dovesse leggere, e in quella esaltazione di un uomo che professa l’odioso principio dell’inferiorità della donna, di un uomo che fa saltare sulle mine i soldati che cercano di portare un minimo di libertà, dovesse trovare giustificazione, e perfino ispirazione. Ne abbiamo le scatole piene di cattivi maestri. Ne abbiamo le scatole piene degli epigoni contemporanei del vecchio “sono compagni che sbagliano”, trasformato in “è un intellettuale che sbaglia, ma è sempre uno di noi”.

Inizio questo commento al libro di Massimo Fini Il Mullah Omar edito, in questo mese di Aprile, da Marsilio, con le parole che Maria Giovanna Maglie, dalle pagine di Libero, ha scritto, come pietra tombale (pensa lei) di una polemica che è divampata non appena il libro è uscito nelle librerie.

Polemica che era cominciata con una recensione di Giampiero Mughini, equilibrata anche se in dissenso con l’autore della biografia, e continuata con una lettera di Francesco Borgonovo cui Fini ha risposto con una controreplica.

Comincio con le parole della Maglie e solo dopo aver completato la lettura del libro, contravvenendo al suo consiglio, “lo giudichiamo pericoloso per chi lo dovesse leggere”, che naturalmente non ha fatto che alimentare la mia convinzione di sempre che i libri vanno letti e possibilmente con cura.

Che la Maglie lo giudichi indegno, scandaloso, inaccettabile non sposta di una virgola la regola ferrea di cui sopra, e non sarà una minacciosa sequela d’improperi che impedirà a tutti quelli che sono interessati alla questione di farsene un’idea in presa diretta, o almeno è quello che mi auspico, visto che di contumelie vuote, di dannazioni a mezzo stampa, di urla scomposte sono piene le orecchie di tutti noi lettori che invece vorremmo toni sottomessi e volumi bassi, se non altro per leggere in pace senza essere disturbati da un rumore di sottofondo che si fa sempre più assordante.

La Maglie, che cita Oriana Fallaci, ha evidentemente la stessa sindrome che ha colpiti molti, poterla emulare nelle invettive scomposte senza averne però la qualità di scrittura e lo stesso acume.

Una sorta di psittacismo che tenta di scimmiottarne i lati meno solari per replicarne gli aspetti più imbarazzanti.

L’acidità della Fallaci ultima maniera poteva trovare parziale scusante nel quadro clinico che incupiva le sue riflessioni (se di riflessioni possiamo parlare). Stesso non si può dire della Maglie.

Che poi Massimo Fini debba rispondere in tribunale di ciò che ha scritto questo è altro tema. Se giudicato colpevole di qualche reato che debba pagare è sacrosanto, la sapienza dei giudici, della quale io non dubito (lo stesso non si può certo dire di Libero su cui la Maglie scrive) non è in discussione.

Quello con cui mi devo confrontare è il libro scritto da Fini e il mio stupore di fronte all’articolo che la giornalista ha scritto.

Ho quasi l’impressione che la Maglie, il libro non se lo sia letto o che l’abbia letto in modo assai superficiale o con occhio pregiudizievole per trovarci quello che voleva lei, solo per assecondare la sua idea preconcetta circa il Mullah Omar e i Talebani.

La breve biografia, scritta con il consueto stile schietto, chiaro e chiarificatore, mette sul piatto del lettore una sequela d’informazioni che seguono un’onda temporale che raccorda i tanti passaggi che, seppur noti, nelle cronache giornalistiche di tanti anni tendevano a sfilacciarsi.

È in questo racconto omogeneo che compatta gli eventi e li mette in fila, retroscena compresi, che sta uno degli interessi della lettura.

Massimo Fini non nasconde mai nelle pieghe del racconto i propri giudizi ma non concede sconti. Non tace mai all’interno del suo racconto anche i fatti meno piacevoli e più raccapriccianti. Non si nasconde dietro a nessun paravento. Racconta di eventi crudeli, barbarici, premoderni di cui la storia recente e non dell’Afganistan è condita.

Ma il pregio vero di quello che scrive è che non mischia mai i fatti con i suoi giudizi. Racconta, regola numero uno di ogni buon biografo e giornalista e poi commenta, visto che nessuno può mai staccarsi dagli occhi le lenti del suo giudizio.

Non inganna mai il lettore facendo credere una cosa per l’altra o sottacendo fatti e misfatti. Lo fa però a tutto tondo elencando anche quelli che non fanno comodo ai suoi detrattori.

I fatti sono fatti e quelli vengono descritti.

Certo Massimo Fini non cela affatto il suo giudizio ma lo sa sapientemente separare dalla scena reale della situazione.

Facile accusarlo di sostenere “il capo dei terroristi Talebani”. Ma basta leggere il libro per capire che la situazione è assai più complessa. I Talebani non sono mai stati dei terroristi. È solo negli ultimi anni che hanno deciso di far ricorso ai kamikaze che Omar non ha mai voluto accettare come combattenti. Ma la situazione è molto mutata. È in questo mutato scenario che va incastonata questa scelta. Illuminanti a tal proposito i pessimi rapporti tra il Mullah e uno dei capi talebani più propensi all’azione terroristica, quel Dadullah che solo ora riesce a uscire dal limbo, cui lo stesso Omar lo aveva relegato frenandolo e contingentandolo, ritenendolo non in linea con la lotta armata in campo aperto.

Non va infatti dimenticato che il Mullah Omar viene da un passato di lotta e di guerra che si racconta da sé. Giuerriero e sempre fiero della sua belluina figura di guerriero che nulla ha da spartire con il terrorismo.

E ancora, la dichiarazione “addestratore degli autori delle stragi dell’11 settembre del 2001” è solo un vuoto slogan che semplifica di molto le cose e che non fa capire nulla.

Il Mullah Omar, non è mai stato amico di Bin Laden e non ha mai fatto mistero che le di lui pratiche terroristiche non gli sono mai piaciute. Lo ha ospitato nel suo paese e si è rifiutato di consegnarlo agli americani, non solo in nome della tradizionale sacralità dell’ospite in terra afgana, ma perché gli americani con sommo spregio del loro interlocutore si sono rifiutati sempre di fornire prove tangibili della responsabilità diretta di Bin Laden nei vari episodi terroristici che gli venivano attribuiti. Risposero “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”, quando Omar gli chiese conto di tutto ciò, per decidere se consegnarglielo o meno.

A proposito di burqa, al di là dei giudizi di Fini sugli “osceni sculettamenti delle occidentali” che mi interessano assai poco, l’autore fa una evidente constatazione che le donne, quando i Talebani se ne sono andati, hanno continuato ad usarlo come la loro tradizione, magari da modificare, vuole. Non sono dunque loro, o solo loro, a imporlo con la violenza di una legge coranica applicata in maniera ferrea.

Dire poi che Fini “sostiene che i nostri militari eroi in Afghanistan sono degli odiosi invasori” è puro travisamento dei fatti, che parlano da soli. La popolazione locale non ne può più di gente in armi straniera che calpesta il suo territorio. Gli episodi d’intolleranza e d’ostilità, anche nei confronti dei soldati italiani, ormai non si contano più. Spiace scoprire che la leggenda degli Italiani “brava gente” giunti a pacificare e a curare e a portare cibo e aiuto è una tiritera ormai tramontata. La percezione che gli afgani hanno dei nostri italiani non è più quella, se mai lo è stata.

Si potrebbe andare avanti all’infinito senza costrutto alcuno. Ma questo libro, sopra ogni cosa, ha un pregio, dimostra che quello che viene addossato come una colpa grave ai Talebani poi viene sopportato quando viene interpretato dagli altri.

Così si avvalora la tesi dei due pesi e due misure occidentali. Se a compiere nefandezze sono i “Signori della Guerra”, da sempre utilizzati in funzione antisovietica e usati per tutelare gli interessi USA, questo non sembra un grave problema, mentre quando lo fanno i Talebani, magari per evitare proprio gli stupri ad esempio, allora vengono additati come delle bestie assetate di sangue.

Ai Talebani viene imputata un’interpretazione oltremodo severa della Legge. Si parla di tagli della mano, per punire i ladri e di corrotti, indicibile violenza barbarica, superata dalla nostra civiltà superiore. È a questo punto, a proposito della superiorità occidentale, che mi viene in mente una discussione di alcuni anni fa con un mio amico che sosteneva che la boxe era un sport barbarico che uccideva persone e che pertanto doveva essere abolita.

Gli risposi che una volta la nobile arte si praticava a mani nude che costringevano i pugili a colpi meno forti e distruttivi ma che aprivano ferite sanguinanti senza conseguenze letali che lo stomaco delicato della buona società civile non sopportava. Furono così introdotti i guantoni, con le mortifere fasciature per le mani, che nascondevano il sangue alla vista ma che, con i loro colpi sordi e potentissimi, mandavano al creatore i praticanti.

Di fronte alle esecuzioni sanguinolente dei Talebani mi viene in mente sempre questa disputa verbale. Ma non mi sono mai convinto che tagliare la testa a un condannato a morte sia peggio che iniettargli un veleno nelle vene. Semmai bisognerebbe lottare contro la pena di morte e allora le cose cambierebbero: insieme ai Talebani, sul banco degli imputati, dovrebbero sedere come coimputati anche gli americani.

Insomma si rimprovera a Fini proprio quello che io trovo sia il suo maggior merito. Aver cercato di parlare del fenomeno talebano, mettendo in luce quello che, come in tutti i tabù non può essere fatto: parlarne.

I talebani, come tutti i demoni che ci fanno paura, sono raffigurati come un “male assoluto”. Nulla può essere detto di questo gorgo oscuro che ci impressiona.

E ci fanno paura perché sono il totale “altro da noi” e a noi non riconducibili. Non hanno interesse per il terrorismo internazionale alla Bin Laden, che tutto è tranne che “altro da noi”, sono nazionalisti e del loro paese s’interessano. Non sono piegabili con la corruzione, rispondono a logiche diverse rispetto a quelle, a noi abituali, del denaro. Non vogliono imporre ad altri, né esportare il loro modo di interpretare la legge e la vita ma vogliono, allo stesso tempo, evitare contatti che reputano maledetti (e qui non gli si può dar torto).

Insomma sono una realtà parallela che va estirpata perché, se vista nell’ottica del pensiero unico che si apre al mercato unico, sono un bubbone pericoloso che testimonia, forse in maniera violentissima che un’altra via è possibile, magari per noi infernale ma possibile e affrancata da valori (meglio sarebbe dire talvolta disvalori) su cui si basa la pretesa di esportazione di libertà che noi pensiamo salvifica.

Forse l’isteria con cui se ne parla è frutto anche del rancore che proviamo nei loro confronti, proprio perché rifiutano di essere salvati e noi che gli portiamo in dono questo ben di Dio rosichiamo al rifiuto.

Al di là di alcuni eccessi verbali, tipici di Massimo Fini, atti a definire il proprio punto di vista in forma recisa, l’autore fa un discorso che a me appare semplice nel suo complesso.

Di fronte allo spettacolo brutale di questo universo parallelo premoderno rappresentato dai Talebani non si può che rimanere a bocca aperta, perché insieme al loro selvaggio modo di interpretare le cose, alla violenza, al sangue, al carattere belluino, trova spazio un coraggio fisico, una linearità di comportamento, un rispetto per l’ospite e per l’altro, da noi dimenticato e che contraddice lo stereotipo che ci vogliono imporre.

A dimostrazione che il bene e il male si mischiano, si miscelano, si uniscono e si fondono nel genere umano senza la possibilità di districarli gli uni dagli altri.

Massimo Fini ha detto solo questo, trovando accenti ammirati per questi caratteri di base, senza nascondersi le relative brutalità.

Ma proprio per avere detto solo questo ha rotto il tabù che vuole l’Occidente civile, tollerante, protettore di ogni libertà, esportatore della modernità, l’unico interprete buono di questa rappresentazione tragica di una realtà che è ben lungi da essere chiara e trasparente.

Non so come finirà la storia del giudizio in tribunale, ma se Massimo Fini dovesse essere chiamato in giudizio per ciò che ha scritto, io chiedo d essere ascoltato come testimone a discapito.

Non servirà a nulla perché la sentenza è già stata scritta.

Ai lettori però non posso che consigliare una cosa: leggere questo libro proprio perché qualcuno ha dichiarato il suo autore “indegno, scandaloso, inaccettabile” ed il testo “pericoloso per chi lo dovesse leggere”.

La lettura consapevole è sempre pericolosa, così come lo sono i presunti “cattivi maestri”.