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Nigeria: niente cambia

di Michele Paris - 27/04/2011

 





Nel secondo dei tre appuntamenti elettorali in programma in Nigeria durante il mese di aprile, qualche giorno fa il presidente in carica Goodluck Jonathan ha conquistato una chiara vittoria già al primo turno. L’affermazione dell’ex vice-presidente ha però scatenato violente proteste da parte dei sostenitori del suo più immediato rivale, facendo riemergere tutte le tensioni religiose e sociali che pervadono il più popoloso stato africano.

La più recente tornata elettorale è andata in scena sabato scorso ed è stata definita dalle autorità locali e dalla maggior parte degli osservatori internazionali come la più corretta dal 1999, anno che ha segnato la fine del regime militare in Nigeria. In precedenza, il 9 aprile, si era tenuto in maniera pacifica il voto per l’Assemblea Nazionale, mentre il 26 gli elettori saranno chiamati a scegliere i propri rappresentanti a livello locale.

Secondo i dati resi noti dalla Commissione Elettorale Indipendente lunedì scorso, Goodluck Jonathan del partito di governo PDP (Partito Democratico del Popolo) ha ottenuto il 57 per cento dei consensi, contro il 31 per cento raccolto dal generale Muhammadu Buhari, già a capo di un governo militare in Nigeria tra il 1983 e il 1985.

Il voto per le presidenziali ha messo in evidenza le profonde divisioni che caratterizzano questo paese. Mentre Jonathan, di religione cristiana, ha trionfato nelle regioni meridionali, Buhari ha potuto contare su un largo seguito nel nord del paese, in prevalenza musulmano. I risultati superiori al 90 per cento in alcuni stati hanno spinto il principale sfidante del presidente in carica a denunciare diffusi brogli durante le operazioni di voto.

Alimentando ulteriormente un violento conflitto già esploso più volte negli ultimi anni, il malcontento tra gli sconfitti ha scatenato numerosi incidenti, soprattutto nel nord del paese. Le città settentrionali di Kano e Kaduna, in particolare, sarebbero state teatro di violenti scontri. In tutto il paese il bilancio provvisorio è già di oltre cento morti. A rendere incandescente il clima in cui si sono svolte le elezioni non sono stati soltanto gli annosi problemi che affliggono la Nigeria, come la lotta armata del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND) o il persistente conflitto tra cristiani e musulmani. È stata infatti la stessa ascesa alla presidenza di Goodluck Jonathan ad aver sollevato pesanti critiche.

Le inquietudini tra le élites locali erano iniziate in seguito alla prolungata assenza dell’allora presidente Umaru Yar’Adua, il quale per gravi motivi di salute si era recato in Arabia Saudita nel novembre 2009. La sua partenza era avvenuta praticamente all’insaputa del governo nigeriano, provocando una crisi del sistema politico. Nella confusione più totale, e al di fuori delle regole costituzionali, nel febbraio 2010 l’Assemblea Nazionale trasferì allora le funzioni presidenziali di Yar’Adua al suo vice, Goodluck Jonathan. Solo nel maggio successivo, quest’ultimo è infine diventato presidente a tutti gli effetti, in seguito al decesso di Umaru Yar’Adua.

Oltre alle manovre di dubbia legalità che hanno accompagnato la scalata alla guida del paese di Jonathan, anche la sua candidatura per le presidenziali del 2011 ha contribuito ad innescare nuove tensioni inter-etniche in Nigeria. L’equilibrio politico raggiunto a partire dal ritorno alla “democrazia” dodici anni fa si era basato sull’alternanza alla presidenza del paese tra un cristiano del sud e un musulmano del nord per otto anni (due mandati) ciascuno. Allo stesso modo, durante il mandato di un presidente musulmano, il suo vice dovrebbe essere un cristiano e viceversa.

Dal momento che il defunto presidente musulmano Yar’Adua era stato eletto per la prima volta nel 2007, il suo successore aveva inizialmente promesso che, una volta completato il mandato quadriennale, la candidatura alla presidenza per il PDP sarebbe toccata ad un politico di fede islamica. Al momento della scelta del candidato, tuttavia, Jonathan si è mosso per conquistare la nomination – secondo alcuni pagando profumatamente i delegati del partito – a spese del musulmano Atiku Abubakar, già vice del presidente Olusegun Obasanjo tra il 1999 e il 2007.

La candidatura e l’elezione di sabato scorso di Goodluck Jonathan hanno così decretato la fine di un accordo di spartizione del potere - peraltro tra politici finora tutti appartenenti allo stesso partito - che, come ha scritto l’autorevole magazine americano Foreign Affairs, “rappresentava un importante strumento in mano alle élite per controllare le innumerevoli divisioni all’interno della Nigeria”.

La fine dell’accordo, nonché la deposizione di Yar’Adua di fatto ancora prima della sua morte, è stata peraltro orchestrata tra Jonathan e i governi occidentali, in primo luogo quello americano. A rivelarlo è un cablo del febbraio 2010 pubblicato da Wikileaks lo scorso dicembre. In esso viene descritto l’impegno del presidente nigeriano ad interim nel cercare l’appoggio dei diplomatici statunitensi per il suo progetto di successione e il via libera di Washington, nonostante il rischio di far riesplodere la violenza nel paese e di dividere la stessa classe dirigente nigeriana.

Ben consolidata è d’altra parte l’intromissione delle potenze occidentali in un paese la cui rilevanza strategica difficilmente può essere sopravvalutata. La Nigeria è infatti il maggior produttore di petrolio di tutta l’Africa e provvede al dieci per cento delle importazioni di greggio degli Stati Uniti. Considerevoli depositi onshore e offshore ne fanno inoltre il decimo paese con le maggiori riserve di gas naturale. Con la terza economia del continente e i sui 150 milioni di abitanti, la Nigeria contribuisce anche in maniera determinante alla stabilità dell’intera Africa occidentale.

L’interventismo occidentale è perciò giustificato, in primo luogo, da motivi di politica energetica ed è completamente al servizio delle compagnie petrolifere che in Nigeria detengono un potere comparabile, se non superiore, a quello dello stesso governo centrale. Fin dall’arrivo della Shell nel 1927 per iniziare lo sfruttamento delle riserve petrolifere situate nel delta del fiume Niger, i colossi del petrolio hanno puntualmente messo in atto politiche che hanno calpestato i diritti e le esigenze della popolazione locale, causando oltretutto gravissimi danni ambientali.

Lo strapotere dei cartelli del petrolio in Nigeria è stato reso possibile grazie alla complicità di una classe politica che, come in molte altre realtà africane e mediorientali, ha prodotto differenze sociali colossali, con una ristretta oligarchia corrotta arricchitasi alle spalle di ampi strati della popolazione ridotti in misera. Per tutelare le proprie compagnie operanti in Nigeria, i governi occidentali devono dunque poter contare su un presidente - come Goodluck Jonathan e i suoi predecessori - che amministri secondo il loro volere i vasti poteri riconosciutigli dalla Costituzione in merito alla spartizione dei profitti derivanti dall’attività estrattiva.

La gran parte della popolazione continua invece ad essere esclusa da qualsiasi beneficio derivante da una tale ricchezza del sottosuolo. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre il 70 per cento degli abitanti è costretto a vivere con meno di un dollaro al giorno e la Nigeria è tra i venti paesi più poveri del pianeta in termini di reddito effettivo pro-capite.

Le condizioni politiche, sociali ed economiche del paese non sono altro che la diretta conseguenza del sistema imposto dalla cerchia di potere indigena, dai governi occidentali e dai giganti privati del petrolio e che, inevitabilmente, la recente elezione di Goodluck Jonathan alla presidenza non farà altro che perpetuare.