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Una grande opportunità oltre la Nato

di Gaetano Colonna - 13/06/2011



robertgatesprofilo

Le durissime parole con le quale il segretario di stato alla difesa Usa uscente, Robert M. Gates, ha stigmatizzato l'incapacità e la non volontà dei membri europei della Nato di sviluppare una propria autonoma capacità di difesa, sono rivelatrici di una situazione, storicamente certo non nuova, che giunge però oggi ad un punto finalmente decisivo.
Fino dagli anni Settanta, infatti, la questione del cosiddetto burden sharing, ovverosia del contributo collettivo delle nazioni europee all'oneroso carico della difesa comune, è stata sempre sollevata dagli Stati Uniti che hanno da allora continuato a rimproverare agli Europei il fatto di beneficiare della copertura militare americana, nulla mai rischiando in proprio e senza un sufficiente supporto in termini di investimenti militari, tecnologici e di intelligence.

La questione si fa oggi seria in quanto tutto l'Occidente, a partire proprio dagli Usa, è a corto di risorse finanziarie, in modo per di più proporzionale ad un'ampliarsi degli impegni militari che, dopo la fine della Guerra Fredda, si sono moltiplicati, soprattutto in aree extra-europee come Africa e Medio Oriente nelle quali le più semplici esigenze logistiche implicano costi molto elevati di movimentazione di uomini e materiali in teatri lontanissimi, soprattutto per gli Stati Uniti, dalla madrepatria.

Gates ha ammesso pubblicamente, in questa davvero storica conferenza tenutasi lo scorso 10 giugno presso il comando Nato di Bruxelles, le difficoltà di bilancio degli Usa, insieme alla perdurante determinazione di non ridurre l'impegno militare globale americano.

"Il presidente Obama ed io - ha detto Gates - crediamo, nonostante le ristrettezze di bilancio, che sarebbe un grave errore per gli USA rinunciare alle proprie responsabilità globali. Ed io la scorsa settimana a Singapore ho indicato le aree in cui l'impegno e gli investimenti in Asia dovranno crescere ulteriormente nei prossimi anni, anche nel caso in cui i tradizionali alleati dell'America in questa regione mantenessero inalterato il loro ruolo di partner a tutti gli effetti sul piano del proprio impegno militare".

Con queste parole, il segretario della difesa americano Gates (che in quanto attualmente uscente è per questo forse maggiormente libero di esprimersi senza eccessive pastoie diplomatiche) manifesta in modo chiaro l'orientamento americano ad una nuova attenzione nei confronti del teatro asiatico, ridando attualità all'originaria dicotomia della politica internazionale americana, che storici come Franz Schurman avevano già ben evidenziato alcuni decenni fa: l'una che vede nell'Atlantico la vocazione americana, l'altra nel Pacifico, più antica nella storia dell'imperialismo americano. La rapida ascesa della Cina, infatti, conferisce oggi all'area asiatica una nuova centralità nel pensiero strategico politico-militare degli Usa, ragione questa per cui il richiamo agli alleati europei non suona solo più come il classico rimprovero per la loro scarsa disponibilità a caricarsi del peso della condivisione dell'impegno militare comune nelle cosiddette out of area issues (compiti "fuori-area"), intendendosi oggi con questo gli impegni in teatri quali Afghanistan e Africa del Nord.

Il monito americano suona come una sorta di avviso: l'Europa non può contare all'infinito sulla protezione americana, nel momento in cui per gli Usa si apre una partita ampia, delicata e vitale come quella dei nuovi equilibri che dovranno definirsi nel Pacifico nell'arco dei prossimi cinquant'anni.

Non è difficile immaginare la tensione che si doveva respirare venerdì a Bruxelles dopo le parole piuttosto pesanti di Gates: proprio quando i Paesi della Nato hanno portato dai 20.000 uomini del 2006 ai 40.000 odierni il loro impegno in una campagna così poco gloriosa ed efficace come quella afghana; proprio quando la situazione globale del Medio Oriente allargato, a venti anni dalla prima Guerra del Golfo, si dimostra ancora più pericolosa ed instabile; proprio quando, cioè, vengono chiaramente alla luce le scarse capacità nord-americane di realizzare nel mondo quella pace di cui si dichiarano portatori quando usano la forza delle armi; proprio oggi, avranno pensato i diplomatici europei, dobbiamo subire come ragazzini che si impegnano poco a scuola questa lavata di capo da parte degli Usa.

In realtà, in tutto questo vi è una grande possibilità per gli Europei, se sapranno coglierla. Fino ad oggi infatti gli Usa hanno sempre comprensibilmente oscillato tra il timore di vedere rinascere un'autonoma potenza militare in Europa (basti ricordare le tensioni legate alla costituzione di una grande unità franco-tedesca, progetto assai ambizioso, ridimensionato fino alla totale inconsistenza) e la recriminazione per lo scarso impegno militare nella propria difesa.

Si profila quindi la storica occasione, accogliendo in toto la richiesta di Robert M. Gates, di mettere mano ad un'autonoma politica di sicurezza, quella famosa Pesc (politica europea di sicurezza comune) che rimane una delle maggiori lacune nel processo di unificazione europea. Potrebbe dire niente meno che ripensare tutta la strategia europea di difesa, il che vorrebbe dire, quale presupposto primario, com'è ovvio in questi casi, la riconsiderazione innanzitutto degli interessi strategici dell'Europa, per un verso, e del tipo di modello militare, dall'altro.

Ci accorgeremmo allora, ad esempio, che gli interessi della sicurezza continentale richiedono oggi, come postulati essenziali, una stabile collaborazione con la Russia, la costruzione di rapporti di buon vicinato con tutto il mondo arabo-islamico, mediterraneo e medio-orientale, nonché il rafforzamento degli storici legami che l'Europa ha da sempre con l'America Latina.

Ci accorgeremmo poi che un modello di sicurezza europeo efficiente suggerirebbe di lavorare su forme leggere ma diffuse di "difesa territoriale", puntando su strategie difensive imperniate sulla combinazione di sistemi di resistenza non-violenta in caso di aggressione esterna con strumenti di prevenzione classici a medio raggio, evitando dispendiose quanto inutili "proiezioni di forza" nei teatri extra-europei. Un modello che comporterebbe grandi risparmi in termini di denaro e un molto maggiore consenso da parte dei popoli europei, con la possibilità di creare nuova attenzione, anche da parte dei giovani, su questo tipo di impostazione, nella quale volontariato civile e servizio militare potrebbero per la prima volta armonizzarsi e non contrapporsi, in nome di uno scopo comune: non quello delle finte operazioni di peace-keeping ma quello del rispetto e della tutela delle reciproche identità e della prevenzione attiva (culturale, sociale, diplomatica, prima che militare) di situazioni di conflitto.

Grazie alla crescente instabilità mondiale che ha coinciso con l'affermarsi dell'egemonia globale nord-americana, sta maturando quindi la possibilità di ripensare in modo originale ed innovativo gli attuali schemi operativi e strategici europei, che risalgono per lo più ancora alla fine del XIX secolo. Perché dunque non volgere in positivo l'arroganza nord-americana, facendone stimolo alla definizione di una visione comune della sicurezza europea?

Sarebbe questo anche un modo brillante e dignitoso per "leggere" il bluff americano, perché se davvero l'Europa rivoluzionasse in questo modo la propria visione del presente, pensiamo che uomini come Gates e come Obama, o chi per loro, troverebbero assai presto da ridire anche su questo: avremmo allora l'occasione anche per ridiscutere alla radice persino gli stessi, ormai superati, principi della collaborazione sull'asse Nord Atlantico che non può più condizionare la storia a venire dell'Europa unita.