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Sale la protesta contro le speculazioni dell’Alta Finanza

di Filippo Ghira - 04/10/2011

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Gli oltre settecento arresti di manifestanti che a New York avevano bloccato il ponte di Brooklyn e che sono seguiti a quelli di altre decine di persone che avevano occupato la zona antistante alla Borsa di Wall Street, sono state accolte con un misto di stupore e di fastidio dai giornali e dalle televisioni americane ed europee. I manifestanti, hanno cercato di spiegare i media, manifestavano contro la crisi e contro l’incertezza di un futuro che si percepisce come ancora più nero di adesso.
Si tratta soprattutto di giovani, era la spiegazione data, che, come i loro colleghi di sventura europei, tipo gli “indignados” spagnoli, protestavano contro l’incapacità del governo di creare le condizioni per favorire lo sviluppo e l’occupazione.
In realtà, a ben vedere i cartelli che venivano alzati nelle manifestazioni che nei giorni scorsi hanno avuto ripetutamente come teatro le vie della Grande Mela, i bersagli dell’indignazione generale erano e sono le banche che con le loro speculazioni hanno innescato la crisi finanziaria del 2007-2008 e la conseguente recessione globale. Ma sotto tiro, si è trovata anche l’amministrazione democratica di Barack Obama accusata di fare gli interessi delle banche di Wall Street invece di preoccuparsi di tutelare il futuro di tutti quei milioni di cittadini che, senza colpa, si sono ritrovati senza casa, senza lavoro e con i propri risparmi andati in fumo. Non per niente la protesta era stata denominata “antibanks day”.
E’ apparentemente paradossale che l’ex candidato nero approdato alla Casa Bianca sull’onda dell’indignazione popolare contro l’amministrazione repubblicana di Bush junior, accusata di essere collusa con l’Alta Finanza responsabile della crisi, si sia poi legato mani e piedi agli stessi ambienti finanziari. Ne fa fede il prestito di 7,5 miliardi di dollari versato da Obama alla Goldman Sachs che gli aveva gentilmente finanziato la campagna elettorale per le presidenziali. Soldi evidentemente spesi beni da parte della banca d’affari che il cittadino medio americano associa alla più odiosa speculazione e che invece in Italia resta nel cuore “bipartisan” dei vari Mario Draghi, Mario Monti, Romano Prodi, Gianni Letta come era in quello del non compianto (da noi) Tommaso Padoa Schioppa. In Italia i giornali contigui ai cosiddetti poteri forti e quelli apertamente schierati con il PD (tipo la Repubblica) da tempo cercano disperatamente di fare i necessari distinguo tra repubblicani e democratici all’insegna delle commistioni dei primi non solo con l’industria degli armamenti, condizionando quindi le velleità imperiali e militariste di Washington, ma anche con i grandi gruppi finanziari. In realtà, se può essere vero il primo punto, lo stesso non si può dire per il secondo. Anzi. Anche i legami dei democratici con Wall Street sono stati infatti sempre strettissimi e l’aiuto del maggiordomo Obama ai suoi amici della Goldman Sachs ne è solo uno degli esempi più evidenti. Il fatto che non si deve dimenticare, e che purtroppo molti fingono di non vedere, è che la politica della Casa Bianca, sia che ci sia un presidente democratico o repubblicano, non può prescindere dagli interessi del sistema finanziario e industriale nazionale e nella sua azione mirata a mantenere il predominio militare, politico, economico e finanziario degli Stati Uniti. Tutto il resto sono chiacchiere. Come sono chiacchiere di facciata quelle su una pretesa differenza tra il multilateralismo democratico e l’unilateralismo repubblicano. Basti ricordare che gli Usa sono entrati in guerra con i democratici Wilson (1917), con Roosevelt (1941), con Truman (1950 in Corea), con Kennedy (1962 in Vietnam) e con Clinton (nei Balcani).
Ma soprattutto nel campo dell’economia e della finanza le differenze tra democratici e repubblicani sono inesistenti. Ne fa fede l’accordo tra i parlamentari dei due gruppi per alzare il livello “legale” del debito pubblico federale che è ormai al 100% del Prodotto interno lordo (14.300 miliardi di lettore), e che sale al 130% con il debito degli enti locali. Accordo fatto poter continuare a vivere sulle spalle del resto del mondo che deve fare i conti anche con l’enorme debito commerciale statunitense (650 miliardi di dollari). Appare quindi incredibile che il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, abbia avuto la faccia di bronzo di dichiarare che l’Unione Europea non faccia abbastanza per abbattere il proprio debito pubblico. Affermazione doppiata da quella del primo ministro inglese, David Cameron, che ha manifestato tutta la sua preoccupazione per la crisi del debito dei Paesi dell’euro, per i pericoli di un conseguente crollo della moneta unica alla quale Londra non partecipa, pur essendo la City la prima piazza finanziaria mondiale nella quale vengono trattate le obbligazioni in euro e pur essendo i 17 Paesi dell’Eurogruppo i destinatari del 40% delle esportazioni britanniche. Peraltro con un debito pubblico britannico di quasi l’80%  che sale al 200% considerando quello del sistema Paese (famiglie, imprese e sistema finanziario) il signor Cameron dovrebbe avere il buongusto di stare zitto. Non è un caso infatti che anche per colpire l’euro e salvare di riflesso dollaro e sterlina proprio da Wall Street e dalla City siano arrivate le più massicce speculazioni contro i Paesi europei a rischio di bancarotta del debito. Di conseguenza, il fatto che oggi negli Usa stia montando un movimento di massa contro il sistema finanziario e i suoi servi alla Casa Bianca, un movimento non nel sistema ma contro il sistema, deve essere accolto con favore perché testimonia che pure oltre Atlantico la misura è ormai colma e che i cittadini non accettano più di essere derubati dai gangsters di Wall Street e di essere presi in giro dai loro complici politici.