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Giocare d’anticipo

di Pierluigi Fagan - 19/10/2011

clessidruom

L’attuale crisi ripiena di crisi (ambientali, economiche finanziarie, politiche e geopolitiche, sociali, culturali) ha portato molti di noi ad intuire che è un intero modo di stare al mondo, quello storicamente occidentale, a non funzionare più.

Ribadisco il termine, “non funzionare più” significa che il sistema è in crisi ontologica, il motore è rotto, la carrozzeria si sfascia, l’impianto elettrico è andato fuori uso e rumori, cigolii e sussulti ci dicono: c’è bisogno di una nuova macchina.

Questo, al netto delle opinioni etico politiche noi si abbia sul sistema, è un fatto che riguarda tutti i fruitori del sistema, tutti i cittadini e quindi le società degli stati nazione dell’area occidentale.

È ciò che si suol dire “un fatto”. Si tentò 40 anni fa, con la famosa decisione estiva di Nixon del 1971 di truccare il motore e con un veloce restyling di look di ridare un futuro alla macchina stanca ma oggi vediamo che non si può far diventare giovane una struttura la cui architettura risale a presunte leggi della natura economica, vergate da mano umana più di tre secoli fa.

I corsari sono diventati trader, la Royal Navy è diventata la poderosa macchina da guerra statunitense, la City ha figliato Wall Street, la creatività macchinista di Arkwright & Co si è trasformata in una capillare rete di centri ricerche ed università, i libertini son diventati liberali e poi liberisti e la Bank of England è divenuta sistema, l’Impero formale ha assunto un tono casual ed immateriale.

Ma ora, i tempi di questa continua inflazione delle dimensioni di un sistema nato trecento anni fa in un’isola di 5 milioni di abitanti, sono finiti.

C’è un limite nella dimensione che può assumere un sistema la cui genetica nasce in condizioni di bassa complessità, soprattutto quando ciò che più significativamente cambia è proprio l’indice di complessità esterna (e interna) al sistema.

E che il mondo sia cambiato è piuttosto evidente. Un miliardo e mezzo di individui sul pianeta all’inizio dello scorso secolo, sono diventati 4 volte tanto ed anche più, con una accelerazione esponenziale nella sola seconda metà del secolo.

Tra quaranta anni saranno cresciuti di un fattore 6. L’Occidente che inizio secolo pesava poco meno del 30%, oggi vale demograficamente meno della metà di allora e tende a diminuire, arriverà presto ad una sola cifra percentuale.

Semplicemente, non possiamo più considerare il mondo come il passivo serbatoio di materie, energie, mano d’opera a basso costo, mercato di scarico delle eccedenze, che esiste solo per dare vita, forza, energia al motore economico che produce ricchezza per noi, l’Occidente.

Così la ricchezza dell’Occidente non solo decresce ma tendenzialmente decrescerà sempre più velocemente sino a fermarsi ad un pavimento a livello di maggior equilibrio con l’ambiente circostante (dato da parametri geopolitici, ecologici, geoeconomici ). All’Occidente questo non piace, al suo onnipotente delirio basato sulla negazione della morte e quindi del limite, basato sulla metafisica e sulla religione dell’infinito e dell’eterno, tutto ciò rimane estraneo. Una gigantesca operazione di rimozione prometeica della realtà lo tiene continuamente impegnato a curare sempre più nevroticamente la crescita, l’innovazione, la competitività, il tecno armamento, l’individualismo possessivo, l’egoismo accumulatorio, l’hobbesiano bellum omnium contra omnes che dal ‘600 rimane la legge del comportamento tra le nazioni nella tradizione occidentale che va da Locke ad oggi.

Già, l’oggi. Davvero crediamo che oggi la questione sia quella di difendersi dal nevrotico conato neoliberista che vorrebbe il “sempre di più mercato” – “sempre meno stato” ? O non è forse giunto il momento di guardare con (poco) comprensiva commiserazione questi signori che si ostinano a rimuovere costantemente la realtà di un mondo che non li prevede più? Non è forse giunto il momento di dirgli “descansate niño “ e cominciar a condurre noi la questione dell’ordine del giorno ?

La questione del debito è diventata magicamente la questione centrale del mondo occidentale qualche mese fa e fra qualche settimana scomparirà, una volta che i G20 si rassegneranno a sganciare i fondi per salvare banche e debiti sovrani perché altrimenti salta il banco e tutti i giocatori del loro casinò.

La questione della recessione invece non scomparirà e non scomparirà perché essa è un fatto, solido, drammatico, il risultato del fatto che la macchina come già noto quaranta anni fa, non funziona più. Forse nel ‘900, non ha mai funzionato così come pareva funzionasse nell’800. Quando la recessione morderà con violenza e il precariato si trasformerà in indici di disoccupazione a due cifre, che faremo ? Diremo che ci vuole più stato e meno mercato ?

Stato e mercato sono enti reciproci e relativi nello stesso sistema, quando il sistema non funziona più non si ha facoltà di risolvere il problema riversando i problemi di una parte, nelle opportunità dell’altra, poiché entrambe hanno problemi e nessuna delle due ha più opportunità, le opportunità sono tutte esterne al sistema e non c’è compensazione interna. Se il tempo passa per Milton Friedman, esso passa anche per Keynes.

Quello che dovremo dire è che la struttura degli eventi e del mondo ci obbliga a ridurre la nostra economia, la sua struttura decresce per motivi endogeni ed esogeni, per fisiologica anzianità e per un peso sempre più relativo in un ambito in cui altri crescono o corrono verso il futuro, meglio e più di noi, perché il Mondo si è messo in proprio e non più il nostro ragazzo di bottega.

Il tutto in un ambiente che scopriamo con stupore infantile, ha dei limiti fisici insuperabili. Non facciamo come certi penosi individui che scambiano la terza età per una rinnovata giovinezza, diventando tristemente patetici nei loro lifting con sorriso di plastica. La decrescita non è una opzione, è il nostro destino che è governato dalla biologia e non dall’ideologia.

Ecco allora che forse nelle prossime settimane, indignati, lavoratori di ogni ordine e grado, studenti, precari, donne, uomini ed altri generi, contadini, intellettuali, giovani ed anziani, il famoso 99%, potrebbero raccogliersi intorno a un’opzione di semplice buonsenso, redistribuire il sempre meno lavoro che c’è e ci sarà, mantenendo inalterati ovviamente i livelli di reddito relativo.

Meno tempo di lavoro, più lavoro per tutti, più tempo per esercitare le funzioni umane, che oltre allo scambio affettivo, intellettuale, sociale, relazionale, di fatti economici non monetizzabili, includa il capitale necessario da accumulare per gestire la transizione anagrafica della nostra vecchia parte di mondo: il tempo.

Tempo da dedicare alla partecipazione dell’autogoverno del sistema sociale che tutti ci comprende. La democrazia reale è l’unico regolamento sociale che è di sua natura l’alternativa al vecchio, consunto e non più utilizzabile regolamento dei tre secoli di Occidente predatorio e dominante: il mercato.

L’alternativa al mercato non è lo Stato è la democrazia partecipata, una testa un voto invece che un dollaro (un euro) un voto, una democrazia che redistribuisca i pochi dollari (euro) che ci rimarranno.

Per vivere in ciò che verrà dopo “la fine dei tempi”, abbiamo una sola opzione, non dobbiamo neanche far la fatica di scegliere. Il nostro futuro è fatto di una sola, semplice equazione: meno economia, più democrazia.

Né lo Stato, né il mercato può decidere del nostro adattamento al tempo che incalza, lo decideremo noi, il “noi” del convegno democratico in seduta estesa e permanente. La materia prima per far ciò è il tempo, tempo da recuperare nell’includere tutti nel lavoro diminuendone l’impegno pro capite.

Anticipiamo i tempi, come si sa il tempo è denaro e di denaro ce n’è sempre meno!