Il giorno dopo
di Enrico Tomaselli - 14/10/2025
Fonte: Enrico Tomaselli
Concluso lo show più inconcludente e ridicolo degli ultimi decenni, con una ventina di leader mondiali accorsi a Sharm el Sheikh a fare da comparse nello spettacolo di Trump, ma senza i due veri protagonisti (Israele e la Resistenza palestinese), la questione all'ordine del giorno è ovviamente cosa accadrà a riflettori spenti.
Rispondere a questa domanda richiede preliminarmente capire quali sono le ragioni che hanno portato all'accordo. E innanzitutto va detto che, quanto c'è nel cosiddetto 'piano dei 20 punti', conta meno della carta su cui è scritto. E di questo sono consapevoli tutti. Lo stop al conflitto - la tregua, quindi, non certo la pace - si deve essenzialmente al fatto che Israele si è dimostrato incapace di conseguire gli obiettivi politici e militari, ma ha in compenso prodotto un'ondata di isolamento internazionale senza precedenti, tale da rimettere in discussione - forse per la prima volta in ottant'anni - la stessa esistenza dello stato ebraico; un ondata che si è risentita particolarmente negli Stati Uniti, andando a toccare anche la base elettorale di Trump - che già non gode di un grande consenso nel paese. Dunque la tregua risponde alla necessità statunitense (e israeliana) di non proseguire su una strada rivelatasi infruttuosa.
Dal punto di vista della Resistenza, invece, la scelta di rispondere positivamente al 'piano' nasce fondamentalmente da alcune considerazioni strategiche. Innanzitutto, era chiaro che la questione dei prigionieri israeliani aveva perso buona parte della sua efficacia come leva sul governo di Tel Aviv, restando però come problema politico e logistico per la Resistenza stessa. Ugualmente, erano chiare sia le ragioni che spingevano l'amministrazione statunitense a volere uno stop, sia come questo avrebbe messo in difficoltà Netanyahu. E, ovviamente, la consapevolezza che la tregua avrebbe consentito non solo alla popolazione di Gaza di riprendere fiato, ma anche di riaffermare l'ineludibile centralità della Resistenza.
A questo punto, quindi, di là da possibili incidenti di percorso, è ragionevole prevedere che la tregua reggerà. Non perché gli impegni di Israele e degli Stati Uniti siano di per sé affidabili - tutt'altro - ma perché questo è nel loro interesse, per le ragioni suddette. Tra l'altro, in queste ore sta emergendo anche un altro aspetto della strategia israeliana (che dimostra, tra l'altro, che a questo evento si stessero preparando da tempo); l'idea era quella di utilizzare alcuni clan familiari di Gaza, da tempo dediti a traffici criminali e talvolta legati all'Isis, come una sorta di longa manus dell'IDF, che infatti in questi due anni li ha progressivamente aiutati e sostenuti, fornendo sia copertura militare che armi e mezzi. La presenza di queste bande avrebbe dovuto costituire un ostacolo per il controllo del territorio da parte della Resistenza. Che però ha ben chiaro il disegno, e sta provvedendo a ripulire la Striscia da questi clan con una azione militare dura e rapida.
La questione più immediata, quindi, riguarderà la ricostruzione di un minimo di infrastruttura amministrativa, in grado di gestire la ripresa degli aiuti alimentari, la ricostruzione della sanità, l'assistenza agli orfani ed agli invalidi, nonché l'urgente questione della sistemazione della popolazione in vista dell'inverno. Questa fase non potrà essere gestita che da ciò che è rimasto della vecchia amministrazione pubblica di Hamas, col supporto delle formazioni della Resistenza.
Le due questioni successive - tempi e profondità del ritiro dell'IDF, e governance della Striscia - comunque preliminari a qualsiasi processo di ricostruzione, rappresentano quindi il nodo fondamentale. Ovviamente, Israele cercherà di ritardare il più possibile il ritiro, e di limitarlo. Ma questo è legato alla capacità (politica, ovviamente) di allontanare dalle aree controllate la popolazione palestinese; tendenzialmente, comunque, prima o poi si ritirerà nella prevista 'fascia di sicurezza' lungo il confine - peraltro più simbolica che pratica, e che richiederà uno sforzo di presidio militare non sostenibile a lungo. Quanto alla governance, è sin troppo evidente che questa sarà in una prima, non breve fase, assunta direttamente dalla Resistenza, per il semplice motivo che non è possibile calare dall'alto una struttura efficace - e che peraltro non esiste.
La composizione di questa, quindi, occuperà buona parte delle negoziazioni a venire, che - spenti appunto i riflettori dello show mediatico, e quindi l'interesse dei leader - finirà affidata ad un esercito di funzionari-sherpa, e si protrarrà per mesi - nella migliore delle ipotesi. Cosa che, ovviamente, consentirà alla Resistenza di riconsolidare la sua centralità anche sul piano amministrativo.
Per quanto riguarda la ricostruzione, è abbastanza evidente che richiederà investimenti considerevoli, e quindi chi dovrà metterci i soldi - i paesi del Golfo in primis - vorrà vedere un minimo di stabilità. Non è quindi, purtroppo, prevedibile che parta a breve. Quantomeno, non in termini massivi, e relativamente alle questioni più onerose (impianti idrici ed elettrici, ad esempio). È però presumibile che accada qualcosa simile a quello che abbiamo visto in Libano, dove Hezbollah - che non ha mai smesso di premere sul governo affinché si assumesse l'onere di ricostruire - ha avviato un suo autonomo programma di ricostruzione, usando probabilmente anche fondi iraniani. Qualcosa di simile potrebbe accadere anche a Gaza, dove semmai l'ostacolo maggiore potrebbe essere la difficoltà ed i tempi necessari a far arrivare i materiali da costruzione ed i macchinari necessari.
La tregua, quindi, ha buone possibilità di durare, almeno sul medio termine. Ma ovviamente non è neanche lontanamente una pace, perché nemmeno affronta le questioni nodali che stanno alla base del conflitto. Il quale, ineluttabilmente, tornerà ad affacciarsi. Al tempo stesso, è chiaro che non si tratta nemmeno di un mero ritorno allo status quo antecedente. Nonostante l'ottimismo diffuso a piene mani da Trump prima durante e dopo lo show stile Super Bowl in due tempi - Knesset e Sharm - questi due anni hanno sì ridisegnato il Medio Oriente, ma non come credeva Netanyahu. Oggi, la realtà è che Israele è più debole, più diviso al suo interno, più isolato internazionalmente, e più dipendente che mai dagli Stati Uniti. I quali a loro volta non stanno tanto bene. Al contrario, l'Iran si è affermato come una potenza regionale, anche militare, perfettamente in grado di tenere testa ad Israele. E l'Asse della Resistenza, per quanto ovviamente abbia subito colpi significativi, esce invitto da due anni di guerra.
Tutti cominceranno a prepararsi per il prossimo round.