Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Se in Italia avesse vinto il modello Olivetti

Se in Italia avesse vinto il modello Olivetti

di Luciano Lanna - 25/10/2011


 

La crisi finanziaria globale e le stesse proteste di massa degli ultimi tempi sembrerebbero richiedere un’analisi di ciò che accade all’altezza della sitazione. Ovvero, per dirla tutta, un nuovo approccio alla questione capitalismo/anticapitalismo che fuoriesca dalle categorie sinora utilizzate. A tentare l’impresa è intanto Geminello Alvi, economista-scrittore che con il suo ultimo libro – Il capitalismo. Verso l’ideale cinese (Marsilio, pp. 335, euro 21,00) – conclude la sua trilogia sull’economia nella modernità avviata con Le seduzioni economiche di Faust (Adelphi, 1989) e Il Secolo Americano (Adelphi, 1993). Quest’ultimo saggio, in particolare, prende le mosse dalla crisi del 2008 e dal ruolo crescente dell’economia cinese per tracciare le vicende delle varie spiegazioni e restituzioni del capitalismo, gli errori e gli abbagli, e giungere a una descrizione opposto a quella detta tradizione anticapitalista classica. Al centro di tutto la distorsione epistemologica e antropologica della “percezione del mondo in forma di Pil”. Alvi ricostruisce filologicamente l’origine e il primo manifestarsi di due parole, capitale e capitalismo, per individuare la matrice spirituale prima ancora che strutturale dell’economia contemporanea. E quindi più che Marx torna utile la lettura di Stevenson e di Dickens, di Thackeray e di Tocqueville: “La letteratura inglese è da preferirsi agli economisti per capire il pervertimento del capitale”.  E l’acquisizione più innovativa di Alvi è che il capitalismo e l’anticapitalismo si muovono nello stesso orizzonte mentale. Ragion per cui il processo anticapitalista classico, che di per sé chiede più statalismo, conduce inevitabilmente a quello che Alvi definisce “l’ideale cinese”, in altre parole la forma compiuta e maggiormente dispotica di capitalismo. Leggiamo esplicitamente: «Il capitalismo non è riducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalità individuale, ma richiede, in dosi crescenti, complicità statali. Consiste d’individualissima invidia, persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo stato in guerra o in stampa di banconote».

La spiegazione sulla genesi del fenomeno che più convince Alvi è quella di Werner Sombart, il quale vedeva nel capitalismo un mutarsi della ragione e un cerebralizzarsi dei processi economici prima impensabile. Un mutamento percettivo, insomma, che avrebbe trasformato l’economia sostanziale in un processo sempre più astratto e spersonalizzante che si determina tra l’invidia e la paura: il capitale prima viene invidiato e poi si accumula per paura di perderlo. Quindi tutta una concatenazioni di fenomeni che avrebbe caratterizzato gli ultimi due secoli: «Il capitalismo fa risultare ovvio l’assurdo, ovvero che lo stato possa stampare le sue cambiali, chiamarle denaro, quindi farle circolare senza bisogno che alcun banchiere le sconti. E per di più dagli anni Settanta del Novecento, senza alcuna copertura aurea. E’ l’assurdo di ritrovarsi a rigirare per le mani filigrane a saldo delle quali sta solo il debito statale. Con questo non senso si è pervertito il capitale, falsata l’occupazione e l’intera struttura dei tassi d’interesse».

La crisi finanziaria in corso, suggerisce Alvi, è solo l’esito di una concatenazione di cause che collega l’egemonia americana del secolo scorso, l’avanzata cinese, l’euro, le scelte di Greenspan, l’omologazione della new economy, la globalizzazione. Un percorso coerente e nel quale l’anticapitalismo classico si muove in funzione complementare. Per quanto riguarda l’Italia, leggiamo che «negli anni Novanta si compie una mutazione conclusiva della classe operaia: essa cede al tasso di profitto quanto gli aveva ripreso negli anni Settanta». E a questo proposito, il riagganciarsi di Alvi come “pars costruens” alla prospettiva di Adriano Olivetti, conferma una via terza tra il capitalismo e l’anticapitalismo. Recuperando infatti quanto avevano intuito i filantropi e i socialisti pre-marxiani o libertari come Kropotkin e Stirner, i fondamenti di un’economia diversa dal capitalismo vengono individuati nella minore crescita e nel dono.

Superare l’egemonia mentale del tornaconto, prospettare una solidarietà fraterna concreta: «L’impresa dovrebbe evolvere, esauritasi, pertanto a fondazione, decumulo». Non a caso, spiega Alvi, un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti venne avversato sia dalla Fiat che dai comunisti, dal capitalismo e dall’anticapitalismo statalista. «Purtroppo – ha scritto anche Goffredo Fofi – in Italia invece del modello Olivetti vinse in economia e in politica il modello Agnelli, un modello di sviluppo amato anche dalla sinistra e che ha piegato la politica alle sue istanze e ai suoi interessi. L’idolo dello sviluppo appartenne, come è noto, anche ai comunisti. Se invece avesse vinto Olivetti, invece di Agnelli, sicuramente ci saremmo ritrovati a vivere in un paese diverso…». C’è spazio, adesso, di fronte all’implosione della coppia capitalismo/anticapitalismo, per una prospettiva d’economia sostanziale e libertaria come propone Alvi alla fine del suo saggio?