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Una pagina di grande effetto letterario: la morte di Rufino, del poeta Claudiano

di Francesco Lamendola - 17/01/2012


 

Quella di Flavio Rufino è stata la tipica carriera di un intrigante cortigiano, avido di potere, presso la corte di Costantinopoli, durante il crepuscolo dell’Impero Romano: crepuscolo che, di lì a meno di un secolo, avrebbe portato alla fine della compagine statale in Occidente e alla trasformazione di quella d’Oriente da romana in bizantina.

Teodosio il Grande fu l’ultimo imperatore a governare, sia pure per un breve periodo, su entrambe le “partes” dell’Impero; “partes” che non ebbero mai, giuridicamente, carattere di entità statali separate e contrapposte, ma che nondimeno, a partire dalla dissoluzione del sistema tetrarchico dioclezianeo, sempre più spesso furono divise da profondi contrasti e, in taluni casi, da un vero e proprio stato di guerra.

Teodosio, salito al trono nel 379, morì di idropisia il 17 gennaio del 395, dopo aver sconfitto l’usurpatore Eugenio e il generale barbaro Arbogaste in Italia (cfr. il nostro articolo: «La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo», apparso sul sito del Centro Studi La Runa in data 18/05/2011) e aver riunito, per l’ultima volta, le due “partes” imperiali.

Di fatto, in Oriente regnava suo figlio Arcadio, diciottenne, accanto al quale c’era il potente prefetto del Pretorio Flavio Rufino; in Occidente Teodosio aveva portato con sé il figlio minore, Onorio, di soli undici anni, del quale nominò tutore il “magister equitum” Stilicone, che era stato suo braccio destro nella campagna d’Italia contro Eugenio e cui aveva dato in sposa la sua stessa nipote, Serena, matrimonio dal quale nacquero tre bambini, un maschio e due femmine.

La situazione, dunque, era questa: a Costantinopoli regnava, di fatto, Rufino, uomo scaltro, ambizioso e intrigante, senza scrupoli e intenzionato a imparentarsi con Arcadio, dandogli in sposa sua figlia, sì da puntare al supremo potere quale co-imperatore; a Milano, Stilicone aveva raccolto le ultime volontà di Teodosio, aveva ricevuto la reggenza per conto di Onorio e poteva vantare una parentela con la dinastia teodosiana.

Rufino era già riuscito a fare un notevole passo avanti sulla strada delle proprie ambizioni allorché aveva fatto eliminare, nel settembre del 392, uno dei sui principali antagonisti, il “magister equitum” Promoto, con una tecnica che si sarebbe poi ritorta contro di lui: dopo averlo fatto mandare in missione lontano dalla capitale, aveva incaricato alcuni dei suoi stessi soldati di assassinarlo.

Tutore del figlio maggiore del defunto imperatore, un ragazzo dalla volontà debole e incerta, Rufino aspirava a riunificare le due “partes” sotto la propria autorità, tanto più che Costantinopoli, durante il regno di Teodosio, aveva riacquistato, come ai tempi del suo fondatore Costantino il Grande, il prestigio di capitale morale di tutto l’Impero; frattanto, però, doveva vedersela con un  nuovo pericolosissimo avversario, il “praepositus sacri cubiculi”, Eutropio.

Stilicone, dal canto suo, avendo accompagnato Teodosio nella sua ultima spedizione militare ed essendosi trovato al suo capezzale al momento della morte, sostenne di aver ricevuto la reggenza per entrambe le “partes” imperiali e, quindi, anche la funzione di tutore di Arcadio, nella lontana Costantinopoli.

Le cose stavano a questo punto quando il re goto Alarico, che era stato arruolato al servizio dell’Impero,  invase l’Illirico e seppe inserirsi abilmente nel gioco dei sospetti e delle rivalità fra Oriente e Occidente, riuscendo a ritagliarsi un ruolo da protagonista e perseguendo tenacemente per il suo popolo, che nel 378 aveva sconfitto in modo clamoroso l’imperatore Valente nella battaglia di Adrianopoli, una nuova e definitiva sede entro i confini dell’Impero di Occidente - una politica che, morto Stilicone, lo porterà a saccheggiare la stessa Roma, nel 410.

La prima mossa di Rufino dopo la morte di Teodosio fu quella di ordinare il rientro a Costantinopoli delle truppe orientali, che si trovavano ancora in Italia dopo la campagna del 394 contro Eugenio e Arbogaste. Stilicone dovette lasciarle andare, indebolendo così il proprio esercito, ma si mise d’accordo con alcuni ufficiali per far eliminare il suo pericoloso avversario.

Giunte a Costantinopoli, le truppe orientali vennero riunite alla presenza di Arcadio e dello stesso Rufino, che tenne loro un discorso: improvvisamente, però, esse lo circondarono, strinsero le file in una impraticabile muraglia,  sguainarono le armi e lo trafissero da ogni parte, chiudendolo in una sorta di tragica tomba vivente.  Era il 27 novembre del 395. Per dirla con lo storico Edward Gibbon,  se le sofferenze di pochi istanti potessero espirare i delitti di una intera vita, si può affermare che Rufino certamente pagò il proprio debito con la giustizia.

Di questa vicenda siamo bene informati non per merito di uno storico, ma di un poeta, l’ultimo grande poeta della Roma classica e pagana: il giovane egiziano Claudio Claudiano (nato verso il 370 e morto, probabilmente, nel 404), che aveva lasciato la sua Alessandria per venire in Occidente e che, innamoratosi della lingua e della cultura latine, divenne il cantore ufficiale delle gesta di Stilicone e della grandezza romana.

Claudiano è stato, insieme a Rutilio Namaziano, il più cospicuo rappresentante, in ambito letterario, della cosiddetta rinascenza pagana fra IV e V secolo; la sua opera poetica è facile e fastosa, ma non si esaurisce in una semplice imitazione o in un riecheggiamento di Ovidio e di Stazio, bensì vive di vita propria e non è priva, a tratti, di squarci di scintillante belleza, intimamente pervasa da un senso vivissimo del contrasto fra luce e ombra, fra delitto e giustizia, fra bene e male; in questo senso, il suo mondo poetico-morale è stato paragonato a quello di Ammiano Marcellino.

Così, dunque, Claudiano narra il drammatico agguato in cui perse la vita Rufino, nella sua invettiva «In Rufinum» (II, 348-417; da: Luciano Perelli, «Antologia della letteratura latina», Paravia, Torino, 1973, pp. 618-20):

 

«A breve distanza dalla città, verso mezzogiorno, si stende una pianura; dalle altre parti la città [di Costantinopoli] è circondata dal Mar Nero, che lascia libero soltanto uno stretto passaggio. In questi spazio all’armata vendicatrice, splendente nella divisa di guerra, dispiegò i suoi reparti; la fanteria sta dalla parete sinistra; i cavalieri si sforzano di calmare le loro cavalcature impazienti di slanciarsi alla corsa, serrando i freni. Alcuni agitano fieramente i pennacchi dei loro elmi, e si compiacciono di far vibrare i tremolanti colori sulle spalle che la corazza ricopre e modella; le flessibili lamine d’acciaio, connesse con arte, sono animate dalle membra che esse rivestono. LO spettacolo è formidabile; diresti che si muovano delle statue di ferro, e che il respiro degli uomini faccia una sola cosa con quello del metallo. I cavalli sono rivestiti di uguale armatura: minacciano con le fronti bardate di ferro, e levano i fianchi ferrati sicuri dalle ferite. Ciascuno sta al posto assegnato: misto di timore è il piacere per chi li guarda, e il timore è congiunto all’ammirazione per la bellezza; cessato ogni spirare di vento i vessilli variopinti restano immobili placando le loro spire.

L’imperatore saluta per primo gli onorati vessilli; lo segue Rufino, astuto nel rivolgere allocuzioni con cui soleva ingannare tutti, e loda la devozione del loro braccio, chiamando ciascuno per nome, e annuncia che al loro ritorno troveranno i figli e i padri incolumi. Quelli, mentre fanno a gara molte richieste con simulati discorsi, si preparano a distendere lunghi cordoni alle sue spalle, ed a congiungerne le estremità in cerchio senza che Rufino se ne accorga: lo spazio comincia a restringersi, e le ali riavvicinandosi accostati gli scudi a poco a poco si piegano con una linea curva. Così il cacciatore irretisce con una lunga linea di accerchiamento le verdi balze; così il pescatore spinge verso la spiaggia i pesci sorpresesi, e rinserra le rade maglie delle sue reti,  e unisce le aperture dei bordi. Gli altri sono esclusi dal cerchio: Rufino tutto preso dalla sua ambizione non sa ancora di essere circondato, e afferrato il manto dell’imperatore lo rimprovera di indugiare troppo: salga sulla coma della tribuna, lo proclami partecipe dello scettro, associato al trono. Allora ad un tratto sguainano le spade, e un grande grido scoppia dall’alto: “Anche a noi, o creatura abominevole, anche a noi sperasti di poter imporre le catene della schiavitù? Non sai di dove ritorniamo? Dovremo tollerare di ubbidirti come sgherri, noi che restituimmo agli altri le leggi e la libertà? Due volte soffocammo la guerra civile [sotto la guida di Teodosio, contro gli usurpatori Massimo ed Eugenio], due volte varcammo le Alpi. Tante guerre ci hanno insegnato a non servire a nessun tiranno”.

Rufino divenne di ghiaccio: nessuna speranza di fuga; da ogni parte brilla all’intorno la fioritura delle irte spade; serrato a destra e a sinistra rimase incollato al terreno, e sbigottito alla vista della cintura delle punte di ferro. Come una fiera, che da poco ha lasciato i monti aviti, ed esule dai profondi boschi è condannata al servizio dell’arena, in preda al turbamento si accascia; un uomo in faccia a lei la eccita con le sue grida, e poggiando un ginocchio a terra protende lo spiedo: quella è impaurita dal frastuono, levatasi in piedi guarda le scalinate del teatro, e stupisce ai fischi dell’immensa folla.

Fra i soldati uno più pronto e ardito balza avanti con la spada sguainata, e terribile nella voce come nel vibrare il colpo dice: “Con questa mano ti assale, con questa ti colpisce Silicone, che tu ti illudevi di cacciare; con questa spada lui, per quanto lontano, ti trafigge le viscere”. Dette queste parole, con un meritato colpo gli trapassa un fianco. Felice quella mano, che per prima si imbeve di un tale sangue, e delibò il castigo del mondo stanco! Ben presto tutti lo trafiggono con le aste, e dilaniano le membra ancora palpitanti; su di un unico corpo intiepidiscono tante lance, e ciascuno si vergogna di ritornare con l’arma non intinta di sangue. Alcuni strappano i rapaci sguardi e gli occhi ancora spiranti vita; altri si portano via le braccia troncate; chi taglia i piedi, chi scuote la spalla troncando i legamenti; chi taglia la curva linea della spina dorsale infranta, chi squarcia il fegato, chi le fibre del cuore, chi le animanti cavità dei polmoni. L’ira non trova bastante spazio, né vi è luogo per lo sfogo degli odii. Compiuto il massacro soltanto allora viene abbandonato, e il cadavere sparso sulle punte delle picche va in putrefazione.»

 

Claudiano è noto soprattutto per la sua rivisitazione dell’epos virgiliano e ovidiano nei poemetti mitologici incompiuti «De Raptu Prosperpinae» e «Gigantomachia»; ma è significativo il fatto che le sue doti emergano ancor più nei componimenti d’occasione - epitalami, consolati dell’imperatore Onorio e le due guerre condotte da Stilicone contro Gildone e contro Alarico -, nei quali, a dispetto del contesto celebrativo, i suoi esametri assurgono non di rado ad autentica altezza d’ispirazione e di vigore poetico.

L’invettiva intesa alla “damnatio memoriae” di Rufino è una delle meno note al pubblico, ma, nel suo genere, è un piccolo gioiello: splendida è specialmente la prima parte, con la descrizione delle truppe e della cavalleria, le armature scintillanti e i pennacchi al vento, che sembra anticipare l’atmosfera di un torneo medievale; ed estremamente efficace il contrasto, nella seconda parte, tra la folle iattanza del prefetto, talmente accecato dalla smania del potere da non accorgersi della sua fine imminente, e il graduale, minaccioso avvicinarsi dei soldati che gli fanno cerchio intorno e d’improvviso lo assalgono con furia incontenibile.

Le ultime immagini sono decisamente macabre e non prive di sadismo; in esse il poeta cortigiano sembra voler donare al suo alto protettore la gioia crudele di vedere il corpo smembrato del suo nemico innalzato sulle punte delle lance, quasi a saziarne l’odio lungamente covato; e non è un bello spettacolo.

Stupisce la feroce franchezza con cui Claudiano, per bocca degli uccisori di Rufino, attribuisce esplicitamente a Stilicone l’ordine dell’assassinio; verrebbe da pensare che sia stata una grossa imprudenza e forse proprio questa ostentazione della responsabilità stiliconiana nei fatti del 27 novembre 395 giocò la sua parte nella decisione della corte di Costantinopoli di far dichiarare il generale vandalo “hostis publicus”, nemico pubblico.

In effetti, per un momento poté sembrare che Stilicone avrebbe colto l’occasione per chiudere i conti con l’Oriente e marciare egli stesso sul Bosforo, alla testa del suo esercito; il pretesto non mancava: fare la guerra ad Alarico; ma Eutropio, il nuovo favorito di Arcadio, convinse il suo sovrano a reagire con estrema decisione a una simile eventualità, bandendo Stilicone dalla “pars Orientis” e vietandogli di procedere contro Alarico (che, infatti, verrà da lui circondato nel Peloponneso, ma poi lasciato andare).

L’uccisione di Rufino, in sostanza, fu un delitto inutile, perché non servì a rimuovere l’ostacolo che si frapponeva fra Stilicone e il controllo di Costantinopoli, ciò che avrebbe segnato una nuova riunificazione dell’Impero.

Invece, di fatto, la divisione fra le due “partes”, quella di Arcadio e quella di Onorio, che avrebbe dovuto essere solo temporanea, divenne definitiva; e lo stesso generale vandalo avrebbe visto crollare il suo sogno di rafforzare almeno la “pars Occidentis” con la collaborazione dei Visigoti di Alarico, perché, caduto in sospetto di Onorio, o piuttosto dell’aristocrazia senatoria, verrà condannato a morte e decapitato, nell’agosto del 408.

E, scomparso lui, la via di Roma resterà aperta e indifesa davanti ad Alarico.