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Camminare, una rivoluzione…

di Mario Grossi - 17/01/2012


Ci sono due mode imperanti che hanno in comune molto, a cominciare dalla loro definizione che passa per due termini mutuati dall’inglese: downshifting and slow. I due termini sono tra loro concatenati ed hanno dato origine a una cascata di nuove sensibilità che si traducono nel tentativo di creare ex novo, o ritornare, a comportamenti commisurati a uno stile di vita più umano.

Il downshifting, che potrebbe essere tradotto come scalare marcia, è quel moto che permette agli iperattivi colletti bianchi, sempre alle prese con ritmi di lavoro incalzanti, sempre connessi, sempre alla ricerca di maggiori guadagni, sempre in lotta per avanzamenti di carriera, di decidere, a un certo punto, che non vale più la pena di dannarsi in una corsa spesso intrapresa per nulla. Si accorgono, buon per loro, che guadagnare di più, per peggiorare le condizioni di vita, non è poi così cool come immaginavano e che crescere per crescere non aggiunge nulla al loro modo di essere. Abbandonano pertanto la loro vecchia vita e si dedicano ad altro, accontentandosi di meno, per guadagnarsi un’esistenza più a misura d’uomo.

Spesso il loro hobby diventa una nuova professione-gioco. È nata così una pubblicistica che ha prodotto diversi manuali che spiegano come il manager affermato si sia trasformato in skipper, mollando tutto, o come il quadro aziendale si sia riconvertito in guida alpina, passando attraverso una serie infinita di varianti che hanno un epilogo sempre un po’ melenso: il novello scalatore di marce acquista una vita più povera ma assai più piena e felice. Segno questo che i successi fanno sempre cassetta e gli insuccessi, che spesso per il lettore sono assai più interessanti, mai.

Sembra la riedizione attualizzata delle fiabe a lieto fine o dei film americani, alla Frank Capra per intenderci, dove il rosa corona sempre un percorso periglioso e pieno d’insidie.

Lo slow, è strettamente connesso al downshifting perché, a ogni scalare di marcia, corrisponde anche un rallentamento. Così per il food, al fast, consumato velocemente e in modo anonimo e seriale si è opposto lo slow, fatto di lunghe meditazioni alimentari ed enologiche che ci farebbero riscoprire il gusto del mangiare poco, sano, e assaporando cibi frutto del radicamento, della sapienza della terra e di chi la utilizza in modo intelligente. Il tutto, almeno se si presta fede ai programmi delle associazioni che si richiamano a questi principi, a prezzi decisamente non popolari.

Anche per lo slow, l’editoria si è affollata di libri e manuali che ci insegnano la filosofia del mangiar lento, del bere lentissimo, del rimirare immoto.

In queste, che sono ormai diventate delle vere e proprie mode e che tendenzialmente svuotano di significato il modello di vita da cui sono partite, ci si annusa un profumo radical-chic che aveva negli anni dei furenti sessanta alimentato sogni orientali poi svaniti e trasformati sotto i colpi di un’accelerazione mondiale che ha modificato brutalmente tutto.

Sulla scia di questa valanga editoriale, Donzelli ha pubblicato l’ennesimo testo sul tema, Camminare, una rivoluzione scritto da Adriano Labbucci, i cui propositi sono illustrati nelle premesse con un avviso per i lettori che, proprio come lettore, mi hanno lasciato un po’ sconcertato.

Avviso ai lettori. Lasciate stare. Se cercate insegnamenti sul camminare all’ultima moda, con tanto di lezioni, corsi universitari e relativi professori, oppure sul camminare come cura di sé, o infine pagine e pagine di resoconti di camminate che si perdono invariabilmente tra il noioso, l’elegiaco o il paranoico, ripeto a scanso di equivoci: lasciate stare. Questo libro non fa per voi.

Sconcertato come lettore, dicevo, perché è compito proprio del lettore, leggere e cavare da uno scritto quello che ci legge e non quello che lo scrittore vorrebbe che ci si leggesse. Invito pertanto un po’ loffio, quasi un mettere le mani avanti e depotenziare la libertà assoluta che invece il lettore si riserva, pena anche l’incomprensione totale del testo.

L’intento invece, sembrerebbe di capire, è quello di raccogliere, in un saggio, che ha comunque il pregio di essere scritto bene, quei pensieri, quegli interrogativi, che fluiscono liberamente e che sono agevolati proprio dal camminare.

Perché, ed è questo un punto chiave del saggio, il camminare, come altre attività equivalenti (esistono belle pagine sul nuotare, non ultime quelle di Stenio Solinas, o di Jarry e Latouche sul pedalare), è pensiero sotto mentite spoglie.

È un’attività fisica che si trasforma in ragionamento. Il camminare permette di depistare il proprio corpo in un movimento che diventa automatico e si stacca dalla mente che può, con maggiore facilità, percorrere sentieri altri senza doversi preoccupare di comandare gli arti che vanno da sé.

È una sensazione che ho provato da podista amatore (ora riconvertito temporaneamente al camminare per un problema al ginocchio) nelle lunghe corse a ritmo costante che inducono uno scollamento del movimento delle gambe e del respiro, permettendo alla mente di svincolarsi da quella prigione che è il controllo razionale dei movimenti.

È a questo punto che i pensieri scorrono in modo più facile e meno pesante, anch’essi con un andamento deprivato della razionalità di veglia ma potenziati da quel mondo di soglia rappresentato dal preonirico.

Questo il presupposto che permette di far affiorare domande e tentativi di risposte presenti nel saggio.

Di come ci si debba preoccupare, una volta fissato l’obiettivo del nostro camminare, visto che camminare non è mai deambulare senza meta, di non accelerare il cammino, ma di sostare, divagare, immergersi nella strada stessa senza avere fretta di arrivare, perché è proprio il tempo trascorso sulla via che rende, alla fine, carico di significato l’arrivo.

Per fare questo l’autore utilizza la celeberrima e troppo sfruttata, anche se estremamente evocativa, poesia Itaca di Kavafis, che fissa in termini ultimativi il senso del viaggio e quindi del camminare. Di come il sostare e il divagare, per apprendere ancora un po’, sia l’assoluto senso di chi si mette in marcia e di come questo attendere prima di arrivare riempia il nostro animo molto più dell’arrivo stesso, anzi la meta trova spiegazione solo in quell’attesa carica di doni nascosti come di pericoli.

Pericoli che sono un’altra delle caratteristiche che definisce il camminatore. Camminare, mettersi per strada, vuol dire rinunciare alla tranquillità e alla protezione che le quattro mura di casa offrono a chi viandante non è. E metaforicamente interpretano il carattere del camminatore che è disposto a denudarsi dalle sue difese, per offrirsi alla strada e ai suoi pericoli, indifeso ma pronto a recepirne i doni.

Il camminare viene descritto come il gesto più umano ma anche il più radicalmente rivoluzionario. I piedi non mentono, ci dice l’autore, non sbagliando. Basta infatti un abbigliamento comodo e delle scarpe appropriate per iniziare la via. Non occorre un’attrezzatura tecnica particolare come ad esempio quando si vuol pedalare. Camminare è la cosa che s’impara per prima da piccoli a parte il respirare (in questo il nuotare potrebbe avvicinarsi) e viene con naturalezza senza dover ricorrere a particolari insegnamenti.

Ed è, per il mondo che viviamo, anche la più radicale delle rivoluzioni. Camminare, in un mondo che è stato costruito dalla tecnica a immagine e somiglianza dell’automobile e che ha come assoluto categorico la velocità, è il gesto più semplice e in controtendenza che si possa immaginare. E di quanto siamo immersi in una realtà deformata da auto e velocità è bene messo in evidenza dall’autore che cita una novella, anche questa arcinota, di Ray Bradbury in cui il protagonista viene arrestato dalla polizia perché sorpreso nell’insolito vizio di camminare nella sua passeggiata serale, vista come una bizzarria, in un mondo che conosce per spostarsi il solo mezzo meccanico.

Parlando di camminare, l’autore non può trascurare la necessità del paesaggio e quindi non può esimersi dal citare e chiosare diffusamente da un lato Chatwin, visto un po’ come il nume tutelare del camminatore e dall’altro Benjamin con il suo flaneur, il camminatore metropolitano, che si aggira in un altro contesto ma sempre contornato da un panorama.

E qui secondo me si sente un po’ l’odore di muffa che aleggia intorno al saggio, che alterna poche considerazioni originali a molte citazioni troppo “già sentite”.

Su tutte svettano le pagine dedicate all’esperienza di Rimbaud e alla sua fine di camminatore costretto, dall’amputazione della gamba, a una fine stanziale, in un rovesciamento della sua esistenza raminga e in un contrappasso forse più doloroso dell’amputazione stessa.

Ma anche questo fa parte del già visto.

Quello che rimane è l’immagine un po’ sbiadita di un Bignami o, se si vuol essere generosi, di uno Zibaldone dalla caratura modesta, anche se, nelle intenzioni sbandierate nelle premesse, altro doveva essere.

Ed è qui che il lettore s’interroga sul testo e su stesso, pensando che magari ha travisato completamente ciò che è stato scritto, ma non può fare a meno di trasferire onestamente quello che ha provato alla lettura.

Alla fine, dopo tutto questo interrogarsi, alla domanda “perché cammini?” io posso dare una sola risposta, nella maniera più qualunquista possibile, “perché mi va?”.

Non sarà molto rivoluzionario ma corrisponde al vero.