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Rahner e Maritain, cattivi maestri del Concilio?

di Francesco Lamendola - 27/08/2012




 

Karl Rahner e Jacques Maritain sono stati i “cattivi maestri” del Concilio Vaticano II, cioè coloro che, sotto le vesti di una dottrina apparentemente cattolica, hanno introdotto nella Chiesa gravi errori e deviazioni teologici, aprendo la strada a inammissibili commistioni e cedimenti verso le ideologie moderne, specialmente il marxismo, e provocando confusione e disorientamento nelle coscienze e nella vita ecclesiale?

Rahner, chiamato al Concilio da Giovanni XXIII come esperto e divenuto personaggio-chiave di esso, insegnava che la teologia deve compiere una “svolta antropologica” che, a parere di alcuni, implica una vera e propria antropologizzazione del cristianesimo, cioè una sua chiusura in senso soggettivistico: non per nulla vi era il criticismo kantiano alla base di tale svolta. Inoltre sosteneva che, in nome della giustizia sociale, cristiani e marxisti dovevano unire le loro forze per il comune riscatto dell’uomo dallo sfruttamento.

Maritain, dal canto suo, ascoltatissimo da Paolo VI, con la proclamazione di un “umanesimo integrale”, sosteneva che le “schegge impazzite” della verità cristiana, presenti in altre ideologie di tipo laico, prima fra tutte il marxismo, non cessano di contenere un potenziale positivo e che con tali frammenti di verità la Chiesa può e deve dialogare per costruire un cristianesimo che accolga ogni fermento vitale presente nella società: cosa che a molti è sembrata un clamoroso abbaglio (perpetuato dal discepolo di Maritain, Emmanuel Mounier), poiché le “schegge impazzite”, proprio perché tali, non possono considerarsi frammenti di verità suscettibili di un recupero positivo, ma tendenze unilaterali del pensiero che conducono fatalmente ad un vero e proprio stravolgimento etico.

Entrambi, dunque, subivano, in misura non trascurabile, il fascino dell’ideologia marxista, di cui non avevano affatto riconosciuto la natura non solo atea, ma profondamente anti-umana, se specifica della natura umana (e un filosofo cattolico dovrebbe saperlo) è proprio l’esigenza della libertà, nonché l’apertura alla trascendenza e all’assoluto; ed entrambi, con il peso del loro prestigio e con l’influenza culturale che erano in grado di esercitare sul mondo cattolico - Rahner più a livello di élite, Maritain più a livello di pubblico medio -, anche mediante la fiducia pressoché incondizionata da parte dei due pontefici del Concilio, impressero una svolta decisiva che venne salutata dal clamore e dal favore forse non casuali dei grandi mezzi d’informazione, allora come oggi quasi interamente controllati da gruppi e forze tutt’altro che cristiani.

E allora, le domande che non cessano di tormentare la coscienza di molti cattolici, in questo quasi mezzo secolo che è trascorso dal Concilio Vaticano II, sono se la Chiesa, per “andare incontro al mondo”, come allora si usava dire, e per “uscire dalla trincea in cui s’era rinchiusa” (come sosteneva Karl Rahner), non sia venuta un po’ troppo a compromesso con ciò che cristiano non è; e se, con la ricerca, pur giusta, del dialogo con l’altro, non abbia svenduto non solo una parte del proprio patrimonio ideale, il che sarebbe ancora un male rimediabile, ma della stessa verità cristiana, che, per definizione, è eterna e inalterabile e non può seguire mode passeggere o aggiornamenti estemporanei, senza tradire se stessa e quanti vi credono.

Allorché, per esempio, voltate le spalle al tabernacolo con il Santissimo, il sacerdote, durante la messa,  si rivolge ai fedeli e interloquisce con essi come in una assemblea laica, si è rinunciato solo alla forma della liturgia tramandata dalla tradizione, o si è abdicato anche al contenuto? Quando lo “scambiarsi il segno di pace” sembra diventare il momento centrale della messa, in luogo della Elevazione, siamo ancora in presenza di un rito autenticamente, ispiratamente religioso, oppure di un rito mondano, dignitoso finché si vuole, ma spogliato della trascendenza?

Non è solo questione del latino o del canto gregoriano - questione, peraltro, non certo da poco, come la si è voluta presentare - e non è solo questione di dialogare con i non cristiani e con i non credenti: il punto è se tale dialogo debba avvenire sul piano della specificità di ciascuno o su quello di una confusione che mescola e confonde tutto e se, inoltre, debba richiedere necessariamente il sacrificio di secoli e secoli di tradizione, quasi che questa fosse una zavorra inutile e non una modalità di vivere la fede che è divenuta sostanza, perché sentita, approvata e fatta propria da innumerevoli generazioni di credenti, nelle quali erano presenti sia teologi e filosofi di altissima levatura, sia umili uomini e donne che non leggevano libri, ma crescevano le loro famiglie in una autentica dimensione religiosa.

Alcuni si domandano, pertanto, se, con il Concilio Vaticano II, la Chiesa non abbia venduto la propria primogenitura, come Esaù, in cambio di un piatto di lenticchie e se, affidandosi con troppo abbandono alle teorie di alcuni teologi ansiosi di “recuperare il tempo perduto” e di “modernizzare” la cultura e la pratica cattoliche, non abbia sacrificato una parte del tesoro eterno che custodiva, confondendo i tempi della storia con quelli dell’eternità e permettendo che molti fedeli perdessero - sia pure, all’inizio, senza rendersene conto - la consapevolezza ciò che di specifico ed essenziale vi è nella dimensione cristiana: che non è, genericamente, la coscienza dell’amore di Dio per l’uomo, ma la Buona Novella dell’amore divino che s’incarna e si fa storia, pur rimanendo al di sopra della storia, come dice l’evangelista: «e il Verbo si fece carne, e abitò fra noi».

Dunque: Rahner e Maritain sono stati, in questo senso, dei “cattivi maestri”, anche se gran parte del danno è stato fatto non da loro, ma da una semplificazione delle loro tesi, sistematica e interessata, che i mezzi d’informazione laici hanno fatto di esse e che, ahimè, spesso è stata avvalorata e tramandata perfino da libri e periodici di ispirazione cattolica?

È la tesi, fra gli altri, dello scrittore cattolico Eugenio Corti, universalmente noto come autore della trilogia romanzesca «Il cavallo rosso» e apprezzato da molti per la sua schiettezza e mancanza di artificiosità diplomatiche; doti che, se lo hanno praticamente escluso dal giro della grande editoria (perfino da quella di ispirazione cattolica!) e tenuto sotto traccia dall’establishment della critica letteraria oggi dominante, in compenso gli hanno guadagnato il rispetto e la stima di quanti, cattolici o no, non amano i facili compromessi e preferiscono dire pane al pane e vino al vino.

Riportiamo un significativo passaggio della monografia di Paola Scaglione «I giorni di uno scrittore. Incontro con Eugenio Corti» (Milano, Maurizio Minchella Editore, 1997, pp. 121-22):

 

«Il Vaticano II e le sue conseguenze costituiscono un tema ricorrente negli scritti di Corti, che del Concilio non è rimasto spettatore distaccato. Il tempo della sua piena maturità lo ha visto appassionato testimone dell’evento che ha cambiatola fisionomia della chiesa nel ventesimo secolo. A distanza di trent’anni, come giudica quest’uomo di solida fede quel tentativo di rinnovamento?

Eugenio corti riflette a lungo. Dagli occhi traspare - è appena l’ombra di un ricordo - il senso di attesa generato da quell’avvenimento e insieme, ancora viva, l’amara incredulità per quanto è accaduto. Poi tentenna il capo: Certamente lo Spirito era presente al Concilio: questo noi siamo tenuti a crederlo. Il guaio è stato che la conoscenza di quanto si discuteva e si decideva in quelle riunioni veniva trasmessa al pubblico da mass media di impostazione laicista: questi, per raccogliere le notizie, utilizzavano non tanto ciò che dicevano i Padri conciliari, quanto i discorsi di certi loro consiglieri esterni al Concilio, tra i quali imperversava la visione della storia proposta da Maritain. In tal modo i semplici fedeli non sono arrivati a ricevere direttamente i frutti del Concilio, e il popolo cristiano ha subito una massiccia irruzione di modernismo”.

Per lo scrittore, all’inizio della confusione c’è l’adesione acritica di troppi alle teorie del filosofo francese Jacques Maritain, alla sua visione di una “nuova cristianità”, che avrebbe dovuto comprendere anche i comunisti e i laicisti a motivo delle verità, delle virtù e dei valori cristiani (sia pure “impazziti”, cioè capovolti) presenti nel loro bagaglio culturale.

Ricorda: “Già negli anni precedenti il Concilio, la cultura cattolica giovanile aveva preso una ‘cotta’n straordinaria per le idee contenute nel famoso libro “Umanesimo integrale” di Maritain (personaggio che lo stesso Paolo VI vedeva con molta simpatia). È da lì che sono nati i guai nel popolo, mentre in parallelo, nell’ambito della teologia,l i guai sono nati dalla predicazione  di personaggi come Karl Rahner, invano contrastati dal filosofo padre Cornelio Fabro.

Le conseguenze di tali sbandamenti, secondo Corti, sono tuttora operanti tra i cristiani: “Dopo che diverse persone sono insorte per sbarrare la strada a tutti quegli errori, il mondo della cultura cattolica si è spaccata in due: purtroppo la parte deteriore è sostenuta dalla generalità dei mass media (che non sono in mano ai cristiani e hanno una eroe risonanza). È evidente che questa frattura non può essere superata conciliando a forza due realtà che non possono convivere. Chi ne ha l’autorità deve pronunciarsi in modo chiaro per un ritorno alla coerenza.»

 

Questa, dunque, la tesi di Eugenio Corti; non è detto che la si debba condividere, ma è doveroso chiedersi se è essa sia fondata, storicamente e teoricamente, oppure no; e, per chiederselo, non è necessario condividerla e neppure, riteniamo, essere cattolici, ma semplicemente essere liberi da pregiudizi e disposti a riconoscere la coerenza e la linearità del pensiero altrui.

Noi siamo dell’avviso che essa contenga un nucleo di verità che ci sembra difficile mettere in discussione; e la cosa appare certo più evidente oggi, che, a quasi cinquant’anni di distanza, certe passioni si sono smorzate, di quanto non lo fosse allora, quando soffiavano fortissimi i venti ideologici che sarebbero sfociati, di lì a poco, nella stagione del ’68.

Era la stagione in cui molti preti, don Milani compreso, facevano propria l’analisi, il linguaggio e lo stesso atteggiamento mentale dei marxisti, riguardo alle questioni sociali; in cui molti seminaristi sognavano Che Guevara e Camilo Torres; in cui i cosiddetti preti operai, peraltro assai bene intenzionati, nel loro sforzo di portare Cristo dentro le fabbriche si lasciavano sedurre da schemi ideologici che nulla hanno a che fare con il cristianesimo e confondevano il piano della fede con quello della politica militante e arrabbiata; in cui, per farla breve, una buona parte del mondo cattolico viveva un autentico complesso di inferiorità nei confronti della cultura marxista, rispetto alla quale si sentiva responsabile di quietismo e di attendismo.

Il marxismo, dopo la seconda guerra mondiale, appariva circonfuso di gloria: era stata l’Unione Sovietica, più di qualunque altra nazione, a distruggere il drago nazista; erano stati i Sovietici a liberare Auschwitz; mentre Pio XII aveva “taciuto” davanti al genocidio degli Ebrei, così come la Chiesa cattolica continuava a tacere davanti a tante violenze e a tante ingiustizie. Il patto fra Hitler e Stalin, in questo quadro ideologico, veniva semplicemente rimosso; così come venivano rimossi i “gulag” sovietici, nei quali erano morte più persone che nei “lager” nazisti; così come veniva taciuto, o minimizzato, l’apporto decisivo del “timido” (o peggio) Pio XII alla salvezza di migliaia di Ebrei romani, italiani ed europei.

È comprensibile che molti cattolici, anche in buona fede, abbiano subito un tale ricatto ideologico, si siano vergognati là dove non c’erano ragioni di vergogna, abbiano cercato di stabilire un dialogo e perfino una collaborazione con il marxismo, ideologia benemerita che aveva fatto così progredire le sorti dell’umanità, di contro a secoli di immobilismo cattolico o, peggio, di collaborazionismo con i poteri tirannici della politica e dell’economia; anche se va detto che la confusione colpì in misura assai maggiore gli intellettuali, i filosofi, i teologi, in parte lo stesso clero, che non la massa dei laici, ossia delle persone comuni (benedetta superbia di chi ha letto molti libri e può sfoggiare numerosi diplomi di laurea!).

Un po’ meno comprensibile, forse, è che chi ha avuto quasi cinquant’anni di tempo per riflettere su quella ubriacatura, non sia stato capace di smaltirne i fumi. Oggi una buona parte della cultura cattolica non solo non ha fatto ammenda di quell’abbaglio, ma continua a menarne vanto. Un esempio per tutti, la rivista «Rocca» della Pro Civitate Christiana di Assisi: verbosa, supponente, smaccatamente autoreferenziale e tuttora infatuata di cattivi maestri come Giulio Girardi, fondatore dei “Cristiani per il socialismo” e antesignano della teologia della liberazione.

Se poi, dalla cultura, passiamo alla politica, possiamo vedere facilmente che i sedicenti sostenitori del pensiero sociale cattolico sono, ancora e sempre, i figli e i nipoti di quella generazione, di quelle ambiguità, di quei clamorosi abbagli; i quali, senza aver mai fatto la minima autocritica, portano avanti, in pieno terzo millennio, lo stesso disegno di allora: una sorta di catto-comunismo più o meno mascherato (ma neanche troppo). Come se la soluzione che, già allora, si dimostrò disastrosa e fallimentare, potesse andar bene oggi, in una realtà politico-sociale tanto più ardua e complessa…