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Sono passati dal me ne frego d’opposizione al me ne frego di tutto. Anzi, me frego tutto

di Mattia Feltri - 19/09/2012



La mirabile di sintesi è di uno che ci è cresciuto in mezzo: «Sono passati dal me ne frego d’opposizione al me ne frego di tutto. Anzi, me frego tutto». Potrebbe finire qui la storia della destra romana arrivata al Campidoglio (con Gianni Alemanno nel 2008) e in Regione (con Renata Polverini nel 2010) dopo un’esistenza ai margini politici ed esistenziali. Un’occasione irripetibile rottamata da sé in una gestione non indimenticabile della cosa pubblica e nello spettacolare e impadellato saccheggio dei denari regionali. Lo chiamavano sistema laziale poiché sindaco e governatrice provengono dai ranghi missini, e c’era qualcosa di particolarmente evocativo - i colli fatali e paccottiglia varia - e particolarmente affascinante nella rivincita dei fuoriusciti dalle catacombe, grazie anche a Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Ma se davvero era un sistema, e i dubbi abbondano, era un sistema basato su una persona: Andrea Augello.

Cinquantuno anni, prodotto del Msi, senatore del Pdl, gran galantuomo, gran conoscitore della capitale e della politica, Augello è stato il superbo organizzatore della campagna elettorale di Alemanno e Polverini. Oggi ci va giù con la schiettezza di chi è amareggiato: «Il sindaco non ha dato segnali di discontinuità reale». E sui camerati di merende: «E’ andato tutto ben al di là di quello che potevamo temere, conoscendo i personaggi. È un capitolo che conclude l’illusione di riprendere in mano la faccenda con strumenti ordinari. Ne servono di straordinari, bisogna sospendere il presepe di cariche nel partito, formare una squadra stretta come in campagna elettorale, cercare di giocarsi la partita nel tempo che rimane, se basterà». Non basterà, e lo sa anche Augello sebbene non lo dica. Negli occhi dei romani si riflette una classe dirigente crassa, sventata, famelica, inesperta. «Quelli di sinistra - dicono oggi i ragazzi della destra irriducibile di Colle Oppio sono stati abituati sin da ragazzi a gestire qualcosa, e quando rubano lo fanno con stile, con contegno, e non radono al suolo come abbiamo fatto noi».
La semina era cominciata a inizio anni 90 in una convivenza anche aspra fra destra sociale e destra protagonista, due anime di pretesa durezza e purezza, e fiorita nel più produttivo associazionismo, nelle periferie, all’università. Poi è arrivata la vendemmia, e s’è alzato il gomito. Questo popolo prima emarginato, pervaso di rabbia e senso d’inferiorità, ha dato sfogo a un bulimia monumentale, ha trasformato le occasioni conviviali - cioè la sede dell’affare e della congiura da Giulio Cesare fino a La Russa-Gasparri-Matteoli che si vedevano dal Caccolaro per tramare contro Gianfranco Fini - in una crapula liberatoria. «Sembriamo quelli che uscivano dai lager digiuni da così tanto che s’abbuffavano fino a morire d’indigestione», dice un anonimo ex An. E non è stato nemmeno uno show sfavillante, tutta roba minore, foto su Parioli Poket, ristoranti del viterbese. Non gli pareva vero - spifferano in comune - di ricevere telefonate di amici degli amici che caldeggiavano Andrea Carandini («E’ un piacere sapere che soffre»), uno da cui erano sempre stati snobbati. Un orizzonte semplicemente contenuto fra il senso di rivincita e lo champagne tracannato dalla scarpetta.
«No! Mi rifiuto! Quelli non sono di destra! Col cavolo! Sono solo ladri! Sapete quanto ci soffro? ». L’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ora leader della Destra, se la cava così sebbene Franco Fiorito fosse stato suo uomo. E non importa se lui fu il prequel del sistema Lazio conquistando la Regione, e un prequel dissolto nella storiaccia dello spionaggio ad Alessandra Mussolini. Storace rivendica la bontà (controversa) della sua presidenza, e della Polverini dice che è «un bravissimo governatore e l’altro giorno si è dimostrata tosta. Abbiamo tagliato 20 milioni di spese in poche ore». È convinto sia un segnale sufficiente. Anche per la destra «rovinata da Gianfranco Fini». Su Alemanno il giudizio è sanguinoso: «In quattro anni non si ricorda una sola sua opera degna di menzione». Forse perché il sistema Lazio non è mai cominciato. E intanto la destra romana sta finendo.