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Clima, Doha: ultima stazione o ennesima fermata?

di Gianfranco Bologna - 17/11/2012



 

Ci stiamo avvicinando alla nuova 18° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (www.unfccc.org) che avrà luogo a Doha, dal 26 novembre al 7 dicembre prossimi e, ancora, tantissimi nodi per condurre le nazioni del mondo a sottoscrivere un trattato globale che riduca in maniera importante e significativa le emissioni di gas che incrementano l'effetto serra naturale, non sono affatto sciolti.

La straordinaria lentezza con cui il mondo politico si muove su questi temi che sono centrali per il futuro dell'umanità, è francamente imbarazzante.

E tutto ciò sta avvenendo proprio quando le conoscenze scientifiche che si stanno acquisendo sulla situazione, la possibile evoluzione, gli effetti e gli scenari del cambiamento climatico in atto, non fanno che documentare delle spaventose criticità estremamente difficili da gestire da parte delle società umane.

Proprio durante l'arco di quest'anno, anche per la concomitanza della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno scorso (www.uncsd2012.org) , la comunità scientifica internazionale che studia i cambiamenti globali nel sistema Terra (riunita nell'International Council for Science, ICSU, e nell'Earth System Science Partnership, ESSP, www.icsu.org e www.essp.org) , è intervenuta ripetutamente per fare il punto delle conoscenze sin qui acquisite. Si tratta di interventi che dovrebbero stimolare un'autentica urgenza all'azione.

A Londra, come abbiamo già documentato nelle pagine di questa rubrica, a fine marzo ha avuto luogo la grande conferenza scientifica sui cambiamenti globali dal titolo "Planet Under Pressure. New Knowledge Towards Solutions" ( vedasi il sito www.planetunderpressure2012.net ) alla quale hanno preso parte 3.000 tra scienziati, studiosi ed esperti governativi sui cambiamenti globali.

La Conferenza ha fatto il punto sullo stato del pianeta, sulle conoscenze che abbiamo circa la pressione esercitata dall'intervento umano sui sistemi naturali e sulle proposte operative  da mettere urgentemente in campo per cercare di cambiare rotta ad un modello di sviluppo socio-economico che si è dimostrato palesemente insostenibile.

La Conferenza si è conclusa con il lancio di uno "State of the Planet Declaration" . La Dichiarazione ci ricorda che oggi le ricerche dimostrano che la continuazione del funzionamento del sistema Terra che ha supportato nei secoli recenti il benessere umano e la nostra civilizzazione, è a rischio. Senza azioni urgenti avremo sempre più difficoltà ad affrontare le minacce provocate dallo stato delle risorse critiche dell'acqua, dell'alimentazione e della biodiversità. Tali minacce, ci ricordano gli studiosi, rischiano di intensificare le crisi economiche, ecologiche e sociali creando il potenziale per un' emergenza umanitaria su scala globale.

La Dichiarazione ricorda che l'impatto umano sul sistema Terra è ormai comparabile ai grandi processi geologici su scala planetaria, come ha avuto luogo durante le ere glaciali. Infatti è ormai ben consolidato il consenso scientifico sul fatto che il nostro pianeta si trova in un nuovo periodo geologico, definito non a caso Antropocene, nel quale molti dei processi del sistema Terra e della straordinaria "fabbrica" vivente degli ecosistemi sono ora chiaramente dominati, anche nella loro evoluzione, dalle attività umane (e la conferenza ha lanciato un sito divulgativo sull'Antropocene, www.anthropocene.info ).

I cambiamenti repentini di ampia scala che le ricerche sui cambiamenti ambientali del passato sono state in grado di individuare ci indicano che questi cambiamenti improvvisi possono avere luogo anche in futuro. Questa consapevolezza ha spinto i ricercatori a identificare le soglie e i confini planetari e regionali che, una volta oltrepassati, potrebbero generare cambiamenti ambientali e sociali ingovernabili da parte delle nostre società.

Purtroppo nonostante le sempre più accurate ricerche non siamo in grado di comprendere a fondo questi fenomeni. Ma è certo che molte delle previsioni dell'ultimo Quarto rapporto dell'Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC, www.ipcc.ch) si possono ritenere certamente ottimistiche, come dimostrano tantissimi studi e ricerche pubblicate successivamente all'uscita del rapporto.

Il rapporto predisposto dal Joint Research Centre della Commissione Europea,  tramite il suo Institute for Environment e Sustainability (IES) e la Netherlands Environmental Assessment Agency (PBL), dal titolo ""Trends in Global CO2 emission: 2012 Report" (che è scaricabile dai siti http://edgar.jrc.ec.europa.eu/CO2REPORT2012.pdf e www.pbl.nl/en ), come abbiamo già ricordato in questa rubrica, ha fatto il punto sulla situazione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, principale causa del riscaldamento globale, dovute all'intervento umano.

Il dato complessivo delle emissioni di anidride carbonica riportato per il 2011 è certamente preoccupante: le emissioni globali sono incrementate del 3%, raggiungendo la cifra più alta delle emissioni annuali antropogeniche sin qui prodotta, di ben 34 miliardi di tonnellate.  Nel 2009 si era verificato un declino delle emissioni dell'1% e nel 2010 invece un incremento del 5%.

I maggiori paesi emettitori sono (si tratta sempre di dati del 2011) : Cina per il 29%, Stati Uniti per il 16%, l'Unione Europea per l'11%, l'India per il 6%, la Federazione Russa per il 5% e il Giappone per il 4%.

In Cina il paese più popoloso del mondo, abbiamo oggi una media di emissioni di anidride carbonica pro capite di 7.2 tonnellate. Nel 1990 era di 2.2 tonnellate pro capite, mentre la media di emissioni pro capite nell'Unione Europea a 27 paesi, era di 9.2 ed ora, al 2011, è scesa a 7.5 e, negli Stati Uniti nel 1990 era di 19.7 tonnellate pro capite scese oggi a 17.3 che fanno comunque mantenere il livello di grande emettitore di anidride carbonica a questo paese, per quanto riguarda il dato pro capite.

Ricordo a tutti che la comunità scientifica ritiene fondamentale raggiungere entro il 2050 un livello di emissioni di 1, massimo 2 tonnellate pro capite annue.

Già nel 2009, prima della 15° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici tenutasi alla fine di quell'anno a Copenaghen, 26  tra i maggiori climatologi di fama internazionale e di diversi prestigiosi istituti di ricerca (da Ian Allison a Peter Cox, da Corinne Le Quere a Tim Lenton, da Michael Mann a Stefan Rahmstorf, da Hans Joachim Schellnhuber a Stephen Schneider, purtroppo scomparso nel 2010, da Steven Sherwood a Eric Steig ed altri) hanno reso noto un interessantissimo rapporto, dal titolo "The Copenaghen Diagnosis. Updating the World on Latest Climate Science" pubblicato dal Climate Change Research Centre dell'University of  New South Wales di Sydney (vedasi il sito www.copenaghendiagnosis.com).

Nel 2011 la Climate Commission australiana, coordinato dal grande scienziato Willy Steffen, ha pubblicato l'ottimo rapporto  "The critical decade, climate science, risks and responses" che riassume molto bene le conoscenze ulteriormente acquisite dopo la pubblicazione dell'ultimo rapporto IPCC del 2007.

Tutti gli elementi già documentati in questi rapporti che riguardano il continuo incremento delle emissioni di gas serra (ben confermato, ad esempio, dal rapporto del Joint Research Centre sopra citato), l'incremento delle temperature globali della superficie terrestre, l'accelerazione dei fenomeni di fusione, come quelli della banchisa artica nel periodo estivo (che, come ricordiamo ha raggiunto un minimo proprio quest'anno confermando un trend certamente inquietante), delle coltri di  ghiaccio polari e dei ghiacciai montani in tutto il mondo (dall'Himalaya alle Ande), l'intensificazione degli eventi meteorici estremi, la crescita del livello dei mari, i rischi di danni irreversibili nel caso di mancate azioni di riduzione delle emissioni, con le forti possibilità di oltrepassare i cosidetti Tipping Points (i punti critici) dei quali più volte ci siamo occupati in questa rubrica, si sono aggravati con il passare degli ultimi anni.

Le ricerche che sono state successivamente pubblicate non hanno fatto che confermare queste preoccupazioni. Ma la cosa più rilevante che sta emergendo e che, nonostante tutte le nostre conoscenze avanzate in merito, la dimensione di punti critici, effetti soglia, situazioni di sorpresa stanno diventando una drammatica realtà quotidiana con la quale dobbiamo fare i conti e che sono certamente molto difficili da prevedere, anche se ormai appaiono sempre più chiari i trend che ci aspettano.

L'ultimo libro del grande scienziato Jim Lovelock, il padre della teoria di Gaia, uscito da poco (" Gaia, ultimo atto", Felici editore) presenta certamente riflessioni interessanti da questo punto di vista.

Inutile che vi dica che, come sta frequentemente accadendo nelle ultime produzioni di Lovelock e nelle sue forti prese di posizione, ho trovato francamente deboli le parti del volume più applicative sul cosa fare per cambiare rotta,che riguardano la sua ben nota posizione favorevole al nucleare (anche se si comprende che il volume, la cui edizione italiana è stata pubblicata con il supporto dell'Enel, è stato scritto prima dell'episodio di Fukushima, ma credo che, in ogni caso, Lovelock non abbia cambiato parere in merito) ed una sua analisi della dimensione culturale dei movimenti verdi che presenta alcuni aspetti stimolanti, ma che poi sembra perdersi in maniera generica senza conclusioni che siano risultate a me chiare.

Ritengo utile chiudere con alcune sue interessanti citazioni.

«Ma, come sappiamo, modifiche piuttosto piccole nella composizione dell'aria o della natura della superficie terrestre possono avere grandi effetti. Se la Terra diventasse una palla di neve riflettente, la sua temperatura superficiale sarebbe di - 24°C, straordinariamente fredda rispetto a ora; ma per lunghi periodi nel passato è esistita addirittura anche con temperature tropicali nelle regioni polari. Soltanto 14.000 anni fa, eravamo in un'era glaciale in cui la  glaciazione talvolta si estendeva tanto a sud fino a raggiungere le Alpi in Europa e quello che oggi è San Louis in Nord America. Sembra che la Terra sia in grado di esistere per lunghi periodi con una vasta gamma di differenti stadi climatici. Gli stadi instabili, freddi o caldi, sono fatti accertati della storia e possiamo spiegarli con discreta sicurezza. Quello che non conosciamo molto sono i dettagli del movimento, diciamo, da un'era glaciale a una interglaciale come quella di adesso. Questo movimento sembra essere iniziato con un piccolo aumento del calore ricevuto dal Sole dovuto a una leggera modifica nell'inclinazione della Terra e dell'orbita, ma ci deve essere stata una notevole intensificazione attraverso un feedback positivo che ha permesso che ciò si verificasse velocemente».

«Se fossimo solo 100 milioni sulla Terra, potremmo fare quasi tutto quello che vorremmo senza causare danni. Con sette miliardi, dubito che qualcosa di sostenibile sia possibile o potrà ridurre, in modo significativo, la combustione dei fossili: con "in modo significativo" intendo abbastanza da poter arrestare il riscaldamento globale. Sette miliardi di persone che vivono come noi facciamo, e aspirano a farlo, sono troppe per un pianeta che prova ad autoregolare il proprio clima».

«Che vi piaccia o no, il problema  siamo noi - e come parte del sistema terrestre, non come qualcosa di separato o al di sopra di questo. ... L'unica conclusione che possiamo trarre dal clima in cambiamento e dalla reazione delle persone è che ci è rimasto poco tempo per agire».