Noi siamo noi!
di Roberto Pecchioli - 24/07/2025
Fonte: EreticaMente
Marcello Veneziani ha espresso la fatica, la stanchezza e finanche l’angoscia di impegnarsi, scrivere, pensare, obiettare, in un mondo che non riconosciamo più, che non ci piace, non ascolta e che rinunciamo a comprendere. All’ intellettuale pugliese ha risposto uno scienziato, Franco Battaglia, noto per le sue battaglie contro i talebani del clima, esortando Veneziani a non cedere allo sconforto, poiché il suo sarebbe il disagio di chi si sente solo, l’unico a difendere, come il tenente Drogo, la svuotata Fortezza Bastiani. Non è così: chi ha scelto una certa barricata ha messo nel conto insulti, bugie, isolamento. Il problema è più profondo e lo ha colto con lucidità un’ altra personalità di rilievo, Ettore Gotti Tedeschi. La stanchezza, lo scoramento, la percezione di inanità della battaglia deriva dall’estendersi del male, dalla vittoria apparentemente inarrestabile di visioni della vita incompatibili con cuore e ragione, che dominano l’Occidente in fuga dalla vita, dalla realtà, dalla verità. Il male di vivere sta nel Male che tracima da ogni lato.
Torna la lezione inascoltata di Nietzsche: “la volontà di verità, che ci sedurrà ancora a molte imprese arrischiate, quali domande ci ha già proposto, questa volontà di verità”. Sì, è la sete di verità l’unico movente che non fa smettere di pensare, agire, urlare. Anche se tutti, noi no! cantava un inno di battaglia. Finché avremo respiro non gliela daremo vinta. Perché abbiamo ragione, perbacco. Se ci siamo seduti dalla parte del torto non è perché gli altri posti erano occupati, come scrisse Brecht. Alzavamo a denti stretti con le lacrime agli occhi la bandiera della verità contro il male, contro il tempo, contro il gregge e i suoi pastori.
Ci vuole coraggio, un pizzico di follia e di autolesionismo per continuare a lottare e contrastare il mondo alla rovescia. Viene voglia di chiudersi in casa sognando una muraglia circondata da un profondo fossato popolato da coccodrilli. Esci e ti trovi non nella tua città, nella terra che ami e ritenevi tua, ma a Rabat, a Mombasa, a Guayaquil, a seconda del quartiere. Entri nel bar o dal parrucchiere e sei a Pechino; dovunque facce, modi di vivere estranei. Ma estraneo è chi guarda stranito e straniero, esule senza essersi mosso. Non ci hanno mai chiesto se eravamo d’accordo a scomparire, come popolo, lingua, cultura, etnia.
Una vecchia canzone francese si domandava “que reste-t-il de nos amours”? Nulla, non resta nulla dei nostri amori. Veneziani lo sa e ne soffre come noi. Eppure non si cede neppure un metro, perché noi siamo noi e abbiano ragione contro vento e marea. Il testo di Charles Trenet diceva così “stasera il vento che batte alla mia porta mi parla di amori morti davanti al fuoco che si spegne. Stasera c’è una canzone d’autunno nella casa che trema e pensa ai giorni lontani“. La mia generazione è ferita ma, come Enrico Toti, lancia ancora la stampella contro il nemico. Avevamo una patria e non c’è più, come lo Stato che la incarnava. Avevamo il fortilizio della famiglia e oggi vediamo macerie, solitudine, inversione. Eravamo credenti e oggi siamo oltre l’ateismo, nel tempo dell’indifferenza spirituale, della gelida assenza di Dio, di qualunque Dio.
Amavamo la bellezza e viviamo nel trionfo del brutto. Bruttura e bruttezza si confondono mentre trionfa “ciò che serve”. Oltre un secolo fa, all’inizio della crisi di un mondo in procinto di andare in frantumi nel massacro della Prima Guerra Mondiale che distrusse gli imperi e consegnò l’Europa all’irrilevanza, il poeta Camillo Sbarbaro coglieva con la sensibilità degli artisti il senso di ciò che intravvedeva. “Camminiamo io e te come sonnambuli. /E gli alberi son alberi, le case sono case/, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, / soltanto quel che è./ La vicenda di gioia e di dolore /non ci tocca. Perduto ha la voce /la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto./Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso“. Quel disincanto fa sì che vinca l’indifferenza; il mondo è un deserto ma la vicenda di gioia e di dolore ci tocca, eccome. Perché siamo vivi, perché la rassegnazione è la prova della sconfitta accettata senza battersi.
Che cosa dovremmo pensare aprendo la finestra sul deserto? Ogni giorno ha la sua croce, due, tre, mille croci sempre nuove. Ora sappiamo dell’esistenza della “madre intenzionale”, la lesbica la cui compagna ha partorito un figlio concepito con metodi zootecnici artificiali ma ha diritto al congedo di “paternità”. Avete letto bene e probabilmente non vi fa alcun effetto. Siete figli di questo tempo, pensate che va bene così; se lo dice la legge ogni obiezione è rimossa. Non vi sfiora il dubbio di essere presi in giro, di essere destinatari di immense menzogne? Perché credete al potere? Lo stesso che manda a processo chi ci difende dai violenti e accusa di omicidio i militari italiani testimoni di una tragedia del mare. Gli invasori – chi entra in casa mia senza consenso si chiama così – sono morti, ma il processo non è a chi li ha portati – scafisti, finanziatori, promotori, sfruttatori dell’immigrazione – ma a chi non ha potuto salvarli secondo la legge del mare. Ladri, assassini, rapinatori, spacciatori girano indisturbati perché così vuole la legge – i magistrati applicano estensivamente norme votate dal parlamento – ma Gianni Alemanno è in galera da sette mesi per un reato – traffico di influenze – pressoché impalpabile. Un nuovo orientamento giurisprudenziale esclude la recidiva per i ladri che rubano somme modeste. Ricorda la battuta su quella ragazza che era incinta, ma solo un po’.
Ci annoiano sino all’estenuazione con la favoletta della democrazia, ma un musicista russo non può esprimere la sua arte in Italia in quanto “collaborazionista” di Putin. Totalitarismo più ignoranza, giacché collaborazionista è lo straniero che aiuta il nemico, non un russo che sostiene la sua Patria. Non si può parlare di genocidio a Gaza per non incorrere nel delitto di antisemitismo, ma il cardinale Pizzaballa evoca apertamente Satana dinanzi al terribile spettacolo della città distrutta, affamata dai paladini del santo Occidente le cui sanzioni non raggiungono Tel Aviv. La nostra è una civilizzazione assassina e insieme suicida. Non la bandiera arcobaleno, ma l’insegna nera con teschio e tibie dei pirati è il nostro autentico simbolo. Purché chi muore sia qualcun altro.
Noi ci limitiamo a uccidere i non nati e prestissimo anche i neonati, mentre il suicidio assistito e la morte di Stato – l’assassinio che farà più ricche le assicurazioni e darà respiro alla previdenza – è ormai sdoganato nella coscienza (coscienza…) di massa. Volontà di potenza e il suo contrario, tutto frullato insieme in un veleno che infetta anima e corpo. Nietzsche il pazzo, colui che annunciò la morte di Dio con gli occhi sbarrati, enumerava le quattro forme della volontà dell’animale umano: volontà di falsità, di crudeltà, di voluttà, di potenza. Aveva ragione, ma chi ascolta i filosofi al tempo della chatbox di Intelligenza Artificiale e della mistica dei diritti, della comodità, dell’assenza di limiti. Eppure andiamo avanti a testa alta, noi che siamo noi e abbiamo ragione, da soli o in scarsa brigata, un po’ per non morire e molto per non darla vinta a chi ha ridotto un popolo a energumeni/e tatuati creduloni che pagano il caffé con lo smartphone, convinti di essere liberi. Inutile spiegare loro che appartengono a una generazione di schiavi: i muri della caverna, abbellita da lustrini e cotillons, sono il mare aperto in cui navigano armati di dispositivi elettronici.
La sfida è tra chi pensa, soffre e vive e chi si lascia vivere, ostaggio del suo tempo. Forse non è vero che siamo oltre l’ateismo: dilaga uno strano politeismo in cui ciascuno fabbrica il dio che preferisce. Il nuovo idolo è l’autopercezione: io sono ciò che mi sento di essere. Un gatto, una drag queen, un palo della luce. Ancora Nietzsche, compagno di pazzia: “interpretazione, non spiegazione. Non c’è nessun fatto concreto, tutto è fluido, inafferrabile, cedevole”. Se proprio lo volete sapere, io penso seriamente che , nonostante tutto, siamo “noi, pochi felici “ (we, happy few di Shakespeare nell’Enrico V) gli unici ancora vivi. Noi siamo noi e “ loro” non sono nulla, figurine alla deriva in corsa verso fugaci sollievi. Allegro, Marcello Veneziani: tu sei vivo, senziente e pensante. E se cerchi su Google we happy few la risposta non è il verso di Shakespeare, relegato nella seconda o terza pagina, ma un videogioco in cui un gruppo di persone tenta disperatamente di mantenere una falsa felicità in una realtà distopica attraverso l’uso di droghe. Noi siamo noi, loro sono loro, il nulla dipinto, il disegno trompe l’oeil su una parete scabra, la confezione senza contenuto. Se le nostre facce, le nostre parole, idee, scritti non piacciono alla plebe desiderante che ci circonda, che si girino dall’altra parte. Non credendo in niente, sono loro i veri infelici.
Con tutta la nostra sofferenza, il cuore spezzato e la speranza abbandonata, noi restiamo ancora uomini e donne vivi, veri, liberi, pensanti. Nessuna tristezza, il viaggio prosegue. Cantiamo alla rovescia (tanto il mondo è al contrario) Ho visto un re di Dario Fo, maschera geniale, premio Nobel perché anche la letteratura è capovolta : sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa bene al re, fa bene al ricco e all’intellettuale. Diventan tristi se noi ridiam.