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La grande offensiva israeliana

di Giacomo Gabellini - 24/11/2012

Fonte: statopotenza


Nei primi mesi del 2012, dinnanzi ai membri, appositamente riuniti, della potentissima lobby ebraica dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu affermò solennemente: «Nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo. In quanto primo ministro di Israele, non permetterò mai che il mio popolo viva nell’ombra dell’annientamento»[1]. Come se non bastasse, nel corso della medesima riunione, Netanyahu ha rievocato lo spettro della Shoah leggendo alcuni passaggi di una lettera, risalente al 1944, attraverso la quale il Dipartimento della Guerra statunitense aveva declinato l’offerta dei caporioni sionisti internazionali relativa al bombardamento di un tratto ferroviario che conduceva al campo di concentramento di Auschwitz. Rievocando lo spettro della Shoah, il primo ministro israeliano intendeva evidentemente stigmatizzare la “mollezza” di Barack Obama accusandolo di portare avanti un linea politica analoga a quella propugnata dai suoi predecessori, che non avrebbero fatto abbastanza per impedire lo sterminio degli ebrei. Il primo ministro israeliano inscenò poi uno spettacolo analogo in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2012, presentandosi dinnanzi ai delegati di tutto il mondo con in mano un manifesto raffigurante una bomba a palla con una miccia accesa. Netanyahu, atteggiandosi a maestrino intento ad educare gli scolari radunati per ascoltarlo, estrasse un pennarello e tracciò una linea rossa corrispondente ad un presunto “punto di non ritorno”; il limite che le Nazioni Unite dovrebbero impedire all’Iran di superare «prima che completi l’arricchimento nucleare necessario a fabbricare una bomba»[2].
Appare tuttavia assolutamente paradossale ed indifendibile la posizione su cui va arroccandosi il governo di Tel Aviv, che si arroga il diritto di lanciare accuse e non troppo velate minacce verso un Paese firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, come l’Iran, in veste di rappresentante dell’unica nazione dell’area del Vicino e Medio Oriente a disporre di un arsenale nucleare che, a differenza dell’Iran, non accetta le ispezioni dell’International Agency for the Atomic Energy (AIEA). Il primo a stracciare il velo dell’ipocrisia calato su questa faccenda dai vertici israeliani fu il tecnico nucleare Mordechai Vanunu, che nel 1986 scappò dalla centrale di Dimona in cui lavorava per rivelare che Israele era in possesso di un arsenale nucleare segreto, nonostante le autorità di Tel Aviv avessero ripetutamente smentito le voci che circolavano a questo riguardo. Tale gesto di audacia costò a Vanunu il sequestro a Roma da parte di alcuni agenti del Mossad, che il 30 agosto 1986 lo rapirono e lo trasferirono in un carcere israeliano dove rimase per i 18 anni successivi. Nel corso di un’intervista rilasciata nell’ottobre del 2005 a una giornalista svizzera, Vanunu rammenta: «Da nove anni lavoravo al centro di ricerche in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Poco prima di lasciare quel lavoro, nel 1986, avevo scattato delle fotografie all’interno dell’impianto per mostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per fabbricare bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materia fissile venivano prodotte, quali materiali erano utilizzati e quali tipi di bombe venivano fabbricate»[3]. Alla domanda relativa al movente di questa azione, Vanunu rispose: «Se decisi di farlo, fu perché le autorità israeliane mentivano. Si profondevano, ripetendo che i responsabili politici israeliani non avevano nessuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire a un solo fine: fabbricare bombe nucleari. Si trattava di quantità importanti: ho calcolato che all’epoca – nel 1986! – avevano già 200 bombe atomiche. Avevano anche cominciato a produrre bombe all’idrogeno, molto potenti»[4].
Vanunu non rappresenta, tuttavia, una voce isolata nel deserto. L’autorevole rivista militare britannica “Jane’s” stima in circa 400 testate l’arsenale nucleare israeliano, il cui punto di forza è rappresentato dai missili balistici a lungo raggio Jericho III, capaci di raggiungere obiettivi a 9.000 km di distanza, e soprattutto dai Jericho II, missili a medio raggio dotati di motore a propellente solido, lunghi 14 m, pesanti oltre 26.000 kg, capaci di coprire quasi 3.000 km di gittata e installabili su veicoli in movimento oltre che su silos. Tuttavia è il missile Shavit – sviluppato sulla base tecnica del Jericho II – a costituire l’asso nella manica di Israele, che pur essendo stato utilizzato da Tel Aviv per lanciare in orbita i satelliti Ofeq, potrebbe ipoteticamente essere impiegato per trasportare testate nucleari ad una gittata vicina ai 10.000 km, il che ne fa – al pari del Jericho III – un vettore strategico capace di estendere la capacità offensiva di Israele a vaste zone dell’Africa e all’intera area territoriale del Vicino e Medio Oriente. Il Popeye rappresenta invece una fase preliminare di missile aria – terra (installato sui caccia F-151 Ra’am e F-161 Sufa, in dotazione all’aeronautica israeliana) da cui è stato sviluppato ilPopeye Turbo, missile da crociera a testata nucleare lungo 4,8 m, pesante 1.360 kg, dotato di sistema di guida a infrarossi e capace di coprire una gittata compresa tra i 200 e i 350 km. Numerose fonti riferiscono che tale missile sia stato successivamente adattato ai lanciasiluri da 650 mm di cui sono dotati i sottomarini Dolphin (fabbricati in Germania), lunghi quasi 58 m con 1.900 tonnellate di dislocamento in immersione. Forte di un simile arsenale e rassicurato dalle potenti alleanze internazionali, Israele può permettersi di non aderire alla Conferenza, indetta dall’ONU, per la creazione di una zona mediorientale libera da armi nucleari, cui partecipa invece l’Iran. Può continuare a produrre una quantità di plutonio vicina ai 950 kg all’anno, sufficienti a fabbricare svariate bombe di potenza analoga a quella sganciata dalle forze aeree statunitensi sul Giappone il 6 e il 9 agosto 1945. E’ nelle condizioni di produrre anche trizio, isotopo radioattivo dell’idrogeno utile per fabbricare armi nucleari di nuova generazione come le mini-nukes, da utilizzare negli scenari bellici più ristretti. E’ infatti probabile che Tel Aviv abbia recentemente fatto ricorso a questi particolari ordigni per bombardare la Striscia di Gaza, dove i continui raid compiuti dagli aerei marchiati dalla stella di David hanno provocato la morte di oltre un centinaio di palestinesi. L’operazione “Pillar of Defense”, volta ufficialmente ad assassinare l’esponente di Hamas Ahmed al-Jabaari, è caratterizzata per un’intensità minore rispetto a “Cast Lead”, sferrata del dicembre del 2008, ma risponde ai medesimi obiettivi strategici. A livello strettamente israelo-palestinese, Tel Aviv intende sospingere definitivamente Hamas dalla parte del Qatar e della Fratellanza Musulmana d’Egitto (non a caso Israele ha riconosciuto il ruolo di mediatore a Mohamed Morsi) “generosamente” finanziata da Doha, eliminando le frange interne al movimento islamico palestinese (come quella di Ahmed al-Jabaari) che ancora sostengono Siria, Iran ed Hezbollah.
Sul più ampio scenario internazionale, “Pillar of Defense” va inserita nel particolare contesto generale in cui si è svolta. L’operazione è stata sferrata il 14 novembre, il giorno dopo la conclusione di “Austere Challenge 2012”, una grande esercitazione missilistica condotta dal duo Stati Uniti-Israele e finalizzata ad approntare una rappresaglia, prevedente l’uso di armi nucleari, a «un simultaneo attacco siriano e iraniano»[5]. E tale esercitazione è complementare rispetto a “Eager Lion”, altra esercitazione diretta da Washington nell’ambito della quale un nutrito contingente di forze statunitensi si è recato lungo il confine occidentale giordano allo scopo di creare una “zona cuscinetto” in aperta funzione antisiriana. Queste operazioni condotte simultaneamente da Stati Uniti e Israele hanno generato una manovra a tenaglia che mira, in tutta evidenza, a soffocare la Siria in ottemperanza al duplice obiettivo di colpire implicitamente l’Iran e di indebolire considerevolmente l’influenza che Damasco è in grado di esercitare sul Libano.
Il fine ultimo perseguito da Tel Aviv è quello di minare la stabilità del Vicino e Medio Oriente, mantenendo alta la tensione generale senza perder d’occhio il problema iraniano, così da creare un surriscaldamento tale da rendere la situazione incandescente. A quel punto basterebbe una piccola scintilla per provocare un’immane incendio che rinfocolerebbe il confine indo-pakistano e la polveriera caucasica, riaccendendo i conflitti latenti tra Abkhazia, Ossezia del Sud, Georgia, Nagorno-Karabakh, Armenia ed Azerbaigian. Uno scenario da incubo.



Note: 
1. “Huffington Post”, 8 marzo 2012.
2. “Il Manifesto”, 2 ottobre 2012.
3. Autori vari, Sionismo e imperialismo, Aginform, Roma 2006.
4. Ibidem.
5. “Il Manifesto”, 16 ottobre 2012.