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Chiude il "Manifesto"? Ma la "sinistra" è già scomparsa da decenni...

di Marino Badiale - 05/12/2012

Fonte: il-main-stream

La crisi del “Manifesto” è arrivata ad un punto particolarmente acuto, con la rottura fra l'attuale redazione e alcuni personaggi storici del giornale, come Rossana Rossanda, Marco D'Eramo, Joseph Halevi. Non abbiamo ovviamente titolo per intervenire in queste specifiche vicende, delle quali sappiamo solo ciò che si può leggere sui giornali. Possiamo intuire che, come sempre in questi casi, sono in questione nodi che avviluppano assieme dissensi politici, problemi economici, intolleranze caratteriali.
Al netto di tutto questo ci sembra però che una considerazione si possa fare con molta tranquillità.
La crisi attuale del “Manifesto” è solo l'ultimo episodio, speriamo definitivo e conclusivo, del fallimento di un'intera strategia politica e culturale, che caratterizza da decenni il gruppo che ha dato vita al giornale, tanto da definirne la stessa identità. Il gruppo del “Manifesto” si è infatti sempre pensato come la coscienza critica della sinistra, come l'avanguardia culturale di una sinistra radicale che cerca compromessi di alto livello, favorevoli ai ceti subalterni, con la sinistra moderata, e in tal modo cerca di spostare in senso progressivo gli equilibri politici. Ora, si potrebbe discutere a lungo se tutto ciò avesse senso in un tempo lontano, diciamo negli anni Settanta: ma non vogliamo iniziare qui questa discussione, quindi concediamo al gruppo del “Manifesto” il beneficio del dubbio, per quanto riguarda i suoi primissimi anni di vita.
Quello su cui non è più possibile il minimo dubbio è il fatto che una tale strategia ha perso ogni senso, ogni possibilità, ogni aggancio con la realtà, e si è ridotta ad un vaniloquio onirico. E questo non da ieri o l'altro ieri, ma da venti o trent'anni.

 Non esiste più nessuna sinistra emancipativa, né moderata né radicale, che cerchi di difendere i diritti e i redditi dei ceti medi e bassi, e di ampliare la democrazia. Le scelte politiche di ciò che attualmente si chiama “sinistra” non sono “errori” o “ritardi” che possano essere illuminati e corretti dalle superiori capacità analitiche di qualche intellettuale. Sono la logica e chiara conseguenza della trasformazione della sinistra (e della destra) in un gruppo di funzionari dei ceti dominanti, addetti a mettere in opera politiche ferocemente antipopolari costruendo il consenso dei ceti medi e bassi, o controllandone il dissenso. E tutto questo, ripetiamolo, non da ieri o ieri l'altro, ma da venti o trent'anni. In questa situazione, un gruppo come quello del “Manifesto”, che crede ancora di avere di fronte quella  sinistra emancipativa che nella realtà è scomparsa da decenni, ha necessariamente un ruolo del tutto negativo: quello di avvolgere i suoi lettori in una cortina onirica che nasconde loro la realtà di cosa sia diventata la sinistra. Se le cose stanno così, la crisi del “Manifesto” ci sembra la dimostrazione del fatto che sono sempre meno le persone che hanno bisogno di questo tipo di oppiacei. Questa crisi è dunque un buon segnale, il segnale di un possibile risveglio, di una possibile presa di coscienza. D'altra parte, non si può pretendere che chi ha vaneggiato per vent'anni possa adesso rimettersi a ragionare, e non si può pretendere che il gruppo del “Manifesto” possa finalmente cominciare a capire e a farci capire la realtà. L'unico esito ragionevole e giusto della crisi ci sembra allora la chiusura definitiva del giornale. Se questo dovesse succedere, non mancherà da parte nostra una prece e un pensiero commosso, ricordando quando, del “Manifesto”, eravamo lettori giovani, pieni di fiducia e speranza.