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Diciamo addio all’era dei bamboccioni

di Claudio Risé - 05/12/2012

Cosa si aspettano i nostri (troppo pochi) giovani? Capirlo potrebbe aiutare il Paese ad uscire dallo stallo e malessere in cui si trova.
Chi, come genitori, educatori, terapeuti, è a contatto coi più giovani, può individuare con una certa chiarezza alcuni elementi comuni, presenti fra di loro e piuttosto nuovi rispetto alla generazione precedente. Uno è il rifiuto di ogni atteggiamento paternalista da parte dei “grandi”. Questi ragazzi si considerano persone, e sanno cosa ciò significa.
C’è – spesso – la consapevolezza di non sapere molte cose, e a volte la curiosità di conoscerle. Ma ancora più forte è la coscienza della propria dignità.
Dal punto di vista psicologico, la loro situazione è diversa da chi li ha preceduti 10 o vent’anni fa. Questi oscillano meno spesso tra depressione e trasgressione, i due poli degli adolescenti a cavallo del millennio. In compenso sono piuttosto stabilmente “arrabbiati”, in modo meno isterico ma più costante.
Gli adulti devono stare attenti a ciò che dicono, a come lo dicono, e soprattutto a ciò che fanno.
Possono perdere il loro prestigio in un batter d’occhio: la “rottamazione” è sempre pronta, in agguato, per tutti loro.
Questa sensibilità al probabile “imbroglio” dei vecchi, considerato sempre possibile da ragazzini cresciuti tra gli scandali, fa sì che, per la prima volta dopo decenni di disinteresse per la politica, i giovani ora ricomincino ad occuparsene, non lasciandone il monopolio a quelli tra loro che poi vogliono fare “carriera” nello Stato. Anche se, poi, naturalmente, faticano ad individuare dei punti di riferimento, e mantengono comunque (a quanto parrebbe), una certa distanza critica a portata di mano.
La maggior parte di loro, in ogni caso, si considera “fortemente danneggiata” da come la generazione dei loro padri ha esercitato il proprio potere.
Si tratta di un fenomeno molto diverso dalle proteste, spesso prevalentemente ideologiche, inscenate dai giovani dagli anni 70 in poi. I ragazzi di oggi danno molto spesso l’impressione di avere a disposizione una calcolatrice virtuale sempre pronta a conteggiare quanto un qualsiasi adulto che tenti di impartirgli lezioni, abbia loro sottratto in termini di pensione, possibilità di avere un posto di lavoro, tenore di vita, serenità familiare, valutazioni di solito assenti nei movimenti dal 68 in poi.
Quasi tutti, infatti, stanno uscendo dalle trappole delle ideologie (marxiste o liberiste), con le quali i “vecchi” – dicono – li hanno derubati da una partenza equa nella corsa della vita.
Gli unici riferimenti, più pratici e esistenziali che ideologici, hanno un sapore libertario, con un retrogusto di pacifica anarchia.
Incominciano così a pensare che la libertà dovranno conquistarsela da soli, agendo direttamente, ma senza costruire strutture partitiche o piani particolareggiati. Semplicemente agendo come se si fosse già liberi, come se lo Stato non esistesse.
Un riferimento diffuso tra chi di loro ne cerca (ma non sono molti), non è un politologo o un economista ma un antropologo, David Graeber, ex docente a Yale (autore del recentissimo “Rivoluzione. Istruzioni per l’uso”).
Graeber, tra i protagonisti del movimento “Occupy Wall Street”, sconsiglia vivamente di perdere tempo a “distruggere lo Stato” borghese, proponendo piuttosto di vivere “come se lo Stato non esistesse”.
C’è la percezione della crisi provocata nelle tradizionali strutture statuali dai grandi fenomeni contemporanei (globalizzazione, trasformazioni tecnologiche), nei confronti dei quali recuperare libertà e orientamento. Forse, il bamboccionismo è ormai alle spalle.