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La democrazia tirannica

di Claudio Martini - 05/03/2014

Fonte: main-stream

Premessa dei giorni nostri
In una repubblica parlamentare la figura del presidente del consiglio eletto semplicemente non esiste. Tuttavia, questa verità ha che fare con la costituzione formale: la costituzione materiale, da vent'anni a questa parte, è ben diversa. Tutto il discorso politico dell'ultima generazione è improntato al presidenzialismo; e l'ultimo arrivato, Renzi, fino a una settimana fa era il più presidenzialista di tutti. Ecco perché l'avvicendamento Renzi-Letta appare a grandissima parte dell'opinione pubblica come palesemente illegittimo; e la sfacciata incoerenza del neo-premier certo non ne aiuta l'immagine.
Ma i renziani (scusate, i renzini) hanno pronta la risposta. Qualche giorno fa Aldo Cazzullo ha dichiarato "Renzi non sarà giudicato da come sarà andato al governo, ma da cosa avrà fatto una volta al governo". Altri ripetono più o meno questa formula: "anche se ora ci possono essere dei dubbi tra gli italiani, quando faremo le cose giuste ci ringrazieranno". Ora, questo può anche essere vero. Chissà. Ma se portiamo alle estreme conseguenze il ragionamento arriviamo a esiti piuttosto inquietanti.

L'elaborazione antica
I greci annoveravano nel loro lessico politico una parola di origine asiatica, tirannia. Nel contesto in cui era nata, la parola tiranno designava semplicemente un capo; il signore di una città, per la precisione. Molto tempo dopo, tiranno divenne sinonimo di un altro vocabolo greco, despota. Ma in un periodo intermedio tiranno non aveva una connotazione negativa, valutativa, bensì tecnico/analitica. il termine non alludeva alla qualità del governo del soggetto tirannico, bensì al modo in cui questi era arrivato al potere. Se questo modo era in contrasto o in deroga alle regole ordinarie per l'acquisizione delle cariche pubbliche si parlava di tirannia; dopodiché il governo del tiranno poteva anche essere illuminato, saggio, tollerante. Non era nemmeno necessario che la presa del potere fosse violenta; bastava che fosse illegittima, irregolare, al limite irrituale.

L'elaborazione contemporanea
Franco Russo,  molto opportunamente, ha collegato tra loro le modalità di funzionamento dell'attuale governance europea e il concetto di "working" e "output" "democracy", da contrapporre alla "input" o "voting" "democracy". La prima espressione potrebbe tradursi con "democrazia dei risultati"; la seconda con democrazia "della scelta", o "delle regole". Si tratta in realtà di due criteri distinti per valutare la legittimità dell'azione di un governo (in senso lato: vi può rientrare anche il mandato del Presidente della BCE, come vedremo). La democrazia dei risultati adotta un approccio conseguenzialista, e ritiene legittimo quel governo che riesce a conseguire i propri fini istituzionali. La democrazia delle regole adotta un approccio deontologico, e ritiene legittimo quel governo che nasce ed opera in conformità a norme che consentano ai cittadini di influire sulle grandi scelte politiche. Il primo criterio è sostanzialista; il secondo formalista. È agevole notare come il primo dei due criteri schiacci l'elemento della legittimità su quelli dell'efficienza e dell'efficacia. A quanto pare questa concezione è propria di Mario Draghi.

La tirannia democratica
I moderni politologi sembrano avere qualcosa in comune con gli antichi greci: entrambi ammettono che potrebbe rivelarsi "buono" quel governo che si forma in spregio alle regole precostituite. Tuttavia, i moderni politologi (e i politici che leggono i loro libri) fanno qualcosa di più: ritengono che l'approccio conseguenzialista sia quello decisivo, con buona pace di ogni deontologia democratica. Nei casi più estremi affermano senza mezzi termini che la "output democracy" può senz'altro sostituire la "voting democracy": l'operato della BCE, per esempio, può essere considerato rispettoso della democrazia, ma non perché Draghi debba rispondere del proprio operato ai cittadini, bensì in quanto la BCE produce una buona gestione della politica monetaria europea. Questa concezione spesso si accompagna ad un'altra, anch'essa assai diffusa tra gli studiosi: quella del ritorno delle élites. I problemi del mondo moderno sono troppo complessi per essere gestiti da profani. Il ruolo dell'elettore, dunque, è di scegliere il tecnico giusto: anzi, di scegliere i tecnici, evitando di farsi attrarre dalle sirene del populismo.
Queste due concezioni hanno entrambe un piccolo difetto. Non tengono conto del fatto che la bontà di certe scelte politiche e amministrative non è mai in re ipsa: non è mai oggettiva. Dipende dalle valutazioni che quelle scelte susciteranno: le quali saranno condizionate dalle opinioni, dalle ideologie, dagli interessi (sopratutto)... Ecco perché le regole formali sono importanti: servono a istutuzionalizzare il confronto pacifico tra idee e interessi diversi. In poche parole, se un governo fa scelte buone o cattive lo decidono gli elettori, che sanno da sé stessi qual è il loro bene. E se gli elettori sono tanto intelligenti da riuscire a distinguere tra scelte buone e scelte cattive, così come tra personale adeguato o inadeguato, allora non si capisce perché non dovrebbero essere in grado di gestire la cosa pubblica da loro stessi, senza ricorrere ai tecnici e alle élites. Negare tutto questo è negare la possibilità della democrazia, e avallare una forma di tirannia.

Conclusione
L'intera operazione che ha preparato il governo Renzi è ispirata alla "output democracy": l'irregoralità dell'operazione stessa verrà sanata dai buoni risultati che Renzi riuscirà a centrare. Esattamente il ragionamento che sorreggeva l'operazione Monti. Questo modo di fare politica è perfettamente coerente con lo spirito del tempo, e con le sensibilità diffuse a Bruxelles. Dovremmo dunque abituarci ad essere comandati da tiranni democratici. Tuttavia, c'è chi pensa che questa non sia una scelta obbligata.