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“Ivi sarà pianto e stridor di denti”

di Giuseppe Gorlani - 06/04/2014

 


 

Viviamo semi-soffocati dal cascame politico, culturale e spirituale della Storia, la cosiddetta modernità o post-modernità. Molti sedicenti intellettuali cercano di difenderla; non lo fanno solo per denaro, semplicemente sono stati lobotomizzati dallo scientismo imperante e non lo sanno. Nelle loro balbuzie effrenate sciorinano madornali idiozie, spacciandole per affermazioni geniali. L’importante è non contrapporsi allo pseudo-pensiero dominante. Non si tratta infatti di pensiero in senso eminente, bensì di una parodia dello stesso suscitata da avidità, ignoranza, conformismo, paura, istinti, passioni. In nuce essa ruota intorno al pregiudizio, del tutto irrazionale e anti-tradizionale, secondo il quale all’uomo scientifico – e alla società che su di esso si è sviluppata – sarebbe dato progredire illimitatamente.

Scrive Pier Paolo Dal Monte nel suo eccellente libro L’allucinazione della modernità: «Il secolo appena trascorso è stato dominato dalla favola del Progresso e della Crescita senza fine dell’universo artificiale costruito dagli uomini. Tutte le ideologie che hanno fatto la propria comparsa, negli ultimi duecento anni, ovvero le diverse utopie “progressive” che hanno apparentemente assunto differenti aspetti (democrazia e diritti umani, liberazione dell’uomo in una società di uguali, controllo dei mezzi di produzione da parte delle masse, supremazia della razza) non sono state altro che epifenomeni di questo mito e, pur nella loro apparente diversità, furono accomunate dalla religione universale del progresso tecnico e della crescita materiale».1 Evidentemente qui il termine “mito” viene usato nella sua accezione sottilmente negativa di illusione, di costruzione astratta priva di fondamento o di racconto irrazionale che fa leva sulla credulità.

A proposito di corbellerie – che però l’uomo scarsamente dotato di riflessione autonoma scambia per enunciazioni geniali –, nel film The wild blue yonder di Werner Herzog, prima si demolisce con argomenti inoppugnabili la possibilità dei viaggi spaziali,2 poi, come un coniglio dal cappello di un prestidigitatore, si fa spuntar fuori uno scienziato, cinese o giapponese, che parla di “matematica del trasporto caotico”, trasporto che potrebbe avvenire attraverso “tunnel caotici” radicati nel chaos in cui si integra il sistema solare e l’intero universo. Lo scienziato conclude la sua disanima affermando: «In futuro, usando la teoria delle stringhe, avremo tunnel più potenti che ci permetteranno di andare oltre lo spazio temporale e quindi sulle stelle e in altre galassie. Alla fine tra le galassie invece di pianeti ci saranno solo tunnel».

Gli astronauti di cui narra il film: «Sapevano che potevano usare questo portale come tunnel del tempo. Era un percorso difficile e ci voleva pazienza. Ogni astronauta, a turno, doveva passare in questo tunnel, così facendo si dissolveva in particelle e poi in luce pura. Una volta tornati nel loro mondo, gli astronauti dovevano assembrarsi e riassumere un aspetto umano».

L’apice della corbelleria sta nella pretesa di corpi, non si sa da quali “io” abitati, che si dissolvono “in particelle e in luce pura” per riassumere in seguito sembianze umane.  Abbiamo qui un chiaro caso di confusione tra la sfera fisica, quella sottile, e quella causale o addirittura metafisica (nel qual caso utilizzare termini come “dimensione”, “stato” o “sfera” risulterebbe inadeguato). Dissolversi nella luce ed indi ritornare in un corpo equivale a tratteggiare un percorso iniziatico, in cui necessariamente l’aspirante alla reintegrazione consapevole nella Realtà procede attraverso il Silenzio, ovvero oltrepassa la condizione mentale ed esistenziale (ex-sistere: apparire, uscir fuori dall’Essere) dell’“io” corpo-mente, per risvegliarsi a Quel che È: l’Io ultimo, il Sé, l’Atman-Brahman. Si tratta in buona sostanza del “gioco” (lila) divino per il quale l’Atman sembra separarsi da se stesso e ritornare a se stesso. Esprime bene tale prospettiva sul Mistero Ananda K. Coomaraswamy quando, in riferimento al matrimonio sacro tra uomo interiore ed esteriore, Sacerdotium e Regnum, maschile e femminile, sostiene: «Tutto ciò implica che quello che chiamiamo il processo del mondo e una creazione sia soltanto un gioco (krida, lila, paidiá, “dolce gioco”) che lo Spirito gioca con se stesso, come la luce del sole “gioca” con tutto quanto illumina e vivifica senza essere alterata da questi contatti apparenti».3 Nessuna scienza matematica o fisica potrà mai palesare la Gnosi sovra-mentale; anzi, in quanto aspetti del pensiero umano – che non sono nemmeno i più rarefatti ed elevati –, anch’essi devono essere esauriti e tacitati, come tutto il resto, d’altronde.  

È altresì un grave errore oggettivare il chaos, quasi fosse una specie di formaggio groviera, pieno di buchi-tunnel. Semmai il chaos sarà l’Immanifesto, l’Essere ineffabile, nirguna, senza qualificazioni, che si può solo additare, ma del quale non si può dire nulla di definitivo.

A questo punto riteniamo pertinente citare un celebre sutra upanishadico: «In cieche tenebre si addentrano coloro che venerano l’ignoranza; e in tenebre ancora più profonde di quelle coloro che, invero, si compiacciono della conoscenza».4 Riassumiamo quanto aggiunge Sri Shankara nel suo Commento (bhashya): venerare l’ignoranza, che è opposta alla conoscenza, significa perseguire attività finalizzate; ma compiacersi di una conoscenza soltanto rituale, concernente ingiunzioni e proibizioni, che permette di ottenere “vari oggetti relativi” è ancor più straniante. Ovviamente, il grande acarya leggeva il sutra dal punto di vista apicale della non-dualità vedantica, secondo il quale anche la sottilissima scienza rituale è ignoranza, poiché trattiene all’interno della sfera relativa, duale.  Il “compiacersi”, tra l’altro, implica la sussistenza di una presunta separatezza dell’“io” dalla consapevolezza di essere Quello.

Nel Liber viginti quattuor philosophorum,5 che raccoglie ventiquattro definizioni di Dio, la XXI dice: «Dio è la tenebra che rimane nell’anima dopo ogni luce». Il Commento aggiunge: «Ma è dopo aver deposto tutte queste forme [le idee delle cose presenti nell’anima] che l’anima contempla la divinità. [...] E l’intelletto nell’anima si ottenebra, poiché non riesce a sostenere quella luce increata. E così, quando si volge a se stesso, dice: “Ecco, io sono nelle tenebre”». Questa definizione è collegata alla XXIII che recita: «Dio è colui che la mente conosce solo nell’ignoranza». «E questo è il vero ignorare: sapere ciò che Dio non è, e non sapere ciò che è», si legge nel Commento. Le “tenebre”, l’“ignoranza” si riferiscono alla cessazione di ogni attività mentale ed equivalgono al Silenzio che fa da spartiacque tra la dimensione manasa e quella metafisica. Gettare un ponte tra le due è caratteristica precipua della buddhi, l’intelligenza superiore, che non si esprime attraverso il comune pensiero razionale-analitico, per quanto sofisticato, ma attraverso l’“esperienza” diretta della com-prensione illuminativa, sede in cui si intuisce la non-dualità.

Dalla visione del film in questione – a cui, tra l’altro, si devono riconoscere pregi estetici e poetici –,6 lo spettatore sprovveduto trae l’impressione conclusiva che la scienza positiva (che non ha nulla da spartire con la scienza di cui Dante nel Convivio assevera: «è ultima perfezione della nostra anima») possa tutto. Ecco come si foggia e alimenta la religione fasulla della scienza. In netta divergenza con simile utopia, la visione tradizionale dell’India mette l’uomo identificato nei veicoli fisico e mentale (annamayakosha, manomayakosha) di fronte alla concretezza della sua totale appartenenza alla Terra. Egli la può trascendere ed abbandonare solo sub specie interioritatis, passando ad un diverso stato coscienziale7 e cioè al vijnanamayakosha, guaina fatta di discernimento, o all’anandamayakosha, guaina fatta di beatitudine, o all’ineffabile Liberazione (moksha), oltre tutti gli stati. Immaginare che si possa adire da vivi ad altri mondi (loka), senza morire all’identificazione nel manas dicotomico per poi svegliarsi nella sacra discriminazione (vijnana) o nell’intelligenza e nella beatitudine super-conscie (buddhi, ananda), è fantasia infantile.

A questo riguardo ci sembrano assai appropriate le seguenti parole di Dal Monte: «Il pensiero moderno, in genere, scambia le proprie illusioni per realtà e considera la realtà un’illusione». E ancora: «Il pensiero calcolante, incarnato dalla scienza positivistica, nega dogmaticamente ogni conoscenza metafisica, ma questa negazione è tautologica, visto che le scienze fisiche (per definizione) non si occupano dell’ambito metafisico anzi, così facendo, essa diventa, a propria volta, metafisica, perché tale negazione non può essere confermata né contraddetta dal metodo sperimentale. Alla fine si scopre che lo scientismo basa le proprie certezze e le proprie asserzioni su postulati metafisici, il che appare un notevole esempio di assenza di consequenzialità logica da parte di un sistema di pensiero che nega qualsiasi metafisica».8

Abbiamo dunque – aggiungiamo noi – un sistema epistemologico, eccedente il proprio ambito, che difende l’accostamento logico alla conoscenza in nome di premesse inattendibili e non assume una siffatta anomalia in modo consapevole, con l’intento di riconoscere i propri limiti, sottomettendosi al Silenzio che lo sovrasta, bensì finge di ignorare tutto ciò per trattenere l’ente nella Ruota del divenire samsarico, offrendo la chimera di una potenza mentale sconfinata.    

Tornando al discorso sul pensiero, bisogna ammettere, di contro al proliferare di falsi intellettuali, che esiste una decisa minoranza di intellettuali autentici, dediti al pensiero profondo. Va sottolineato, però, come costoro si debbano immergere in siffatta attività con grande cautela e spesso persino in modo velato, perché, a dispetto della tanto proclamata libertà democratica, ci sono certi argomenti tabù circa i quali non è consentita la benché minima autonomia di ricerca e di espressione. L’Olocausto, per esempio, deve essere affrontato nella più stretta osservanza della vulgata dei vincitori (che su di esso, in quanto “male assoluto”,9 fondano prosperità economica e superiorità politica), pena la prigione e il ludibrio.10

Sin dall’inizio del Kaliyuga le cose sono quasi sempre funzionate in modo analogo; due fatti tra mille: conosciamo la dottrina catara attraverso le note spregiative e deformanti degli inquisitori che la perseguitarono e distrussero; quando Alessandro il Macedone, il cui nome fu esecrato dagli iranici per secoli, conquistò la Persia appiccò il fuoco al palazzo achemenide di Parsa (Persepoli), nella cui biblioteca si custodivano le sacre Scritture di Zarathushtra incise su pergamena a lettere d’oro. A quanto pare l’uomo occidentale, dopo aver forzato il passaggio dal mythos al logos, nella convinzione di aver compiuto un notevole balzo in “avanti”, non può fare a meno di rinchiudere la Realtà entro soffocanti definizioni: etichette provvisorie propalate alla stregua di dogmi da imporre al mondo intero, interpretazioni anguste che escludono tutto ciò che non contengono, ambizioni di dominio o pregiudizi spacciati per visioni obiettive.

L’omofobia, il “femminicidio”, l’immigrazione, le differenze tra le razze (pur  nella pari dignità), la critica allo scientismo diventeranno presto argomenti pericolosi, anzi lo sono già; così pure l’evasione fiscale, non importa se perpetrata per pura sopravvivenza. Per contro, la pedofilia verrà presto depurata del suo volto ripugnante; la menzogna e lo strozzinaggio, camuffati da “ragioni umanitarie”, saranno virtù; l’assunto per il quale lo sterminio di popoli civili da parte di certi Stati siano da considerarsi abominio mentre invece, se perpetrati da altri, debbano essere reputati azioni giuste e benefiche (genocidio dei Pellerossa, Hiroshima, Fallujah, Striscia di Gaza, ecc., docent)11 verrà imposto come espressione di intelligenza al servizio di una civiltà “superiore”.  

L’importante è alienare l’uomo da ogni ispirazione tradizionale e dalla propria più intima, nobile capacità di riflettere, sottoponendolo ad un radicale lavaggio del cervello. Si insiste a parlare di “valori”, ma solo retoricamente, perché di fatto i contemporanei brancolano nel vuoto di ideali e significati e sono lì lì per precipitare irrimediabilmente.

Scrive Jean Marquès-Rivière nella sua introduzione a Vers Bénarès – La Ville Sainte: «Vi è qualcosa di tragico nel nostro tempo e, sebbene un certo ottimismo ci tranquillizzi affermando che il tragico fu presente in ogni epoca, credo che questo sia eccezionale. L’Occidente vuole ritrovare i propri valori; li ha perduti. Ma poiché è gonfio di orgoglio, vuol credere di possederli sempre da qualche parte e che li farà saltar fuori un giorno dalla scatola. Non ammette mai un fallimento [...] Fintantoché la nostra formazione cartesiana ci farà credere all’“oggettivo”, sarà sempre così. Solo il “soggettivo” potrebbe modificare notevolmente le cose, perché saremmo messi davanti a noi stessi e non vi sarebbero altro che “individui”».12

È luogo comune ormai sostenere che la nostra sia diventata una società caratterizzata da uno sfrenato individualismo; ci si consenta di dissentire: la nostra non è una comunità di in-dividui, consapevoli di Sé – ovvero coscienti della coincidenza tra l’originalità di ciascuno e l’universalità –, bensì di fantasmi disposti a compiere le azioni più turpi pur di preservare la propria inconsistenza.

Nel panorama attuale, votato all’autodistruzione (fa eccezione la Russia, il cui attuale orientamento, non privo di ombre, concede alcune buone speranze), tornano molto convenienti quegli intellettuali – magari dotati di vasta cultura e di talenti artistici – che contestano e stigmatizzano con stile raffinato l’establishment, pur senza mai sfiorare i tabù del tipo sopraccennato, né gettare un ponte tra la speculazione pura e l’agire quotidiano o, se vogliamo, tra macrocosmo e microcosmo. Essi valgono quali prove di “libertà”. Sono i maîtres à penser dell’oggi: mentre giocherellano a biasimare il Sistema o a dissezionare insegnamenti filosofico-spirituali, avallano e confermano la deriva presa dall’Occidente. Deviano ed esorcizzano le istanze essenziali di comprensione dei lettori, placano rabbia, sdegno e aspirazioni al sublime, ma chiudono tutte le vie di fuga dalla prigione o, meglio, negano ogni possibile soluzione alla follia spacciata per normalità. Promuovono l’“io” omologato, “statale”, l’“io” dei sedicenti “diritti”, ma reprimono l’io dello svadharma,13 l’io-persona, dotato di coscienza, autonomia pensante e responsabilità.

Citiamo una volta ancora Dal Monte: «Viviamo in una società apparentemente libera, nel senso che, nei nostri cosiddetti sistemi democratici, non esistono autorità realmente coercitive (come quelle che vigono nei regimi totalitari), che negano apertamente la libertà mediante misure repressive evidenti, rendendo così i propri sudditi consapevoli di vivere in un sistema illiberale. Nei paesi dove vige la democrazia e il libero mercato gli uomini si illudono di condurre la propria esistenza in una confortevole libertà e, in questa illusione, non si accorgono della costrizione “invisibile” che li induce a comportarsi così come ci si aspetta da loro. [...] L’invisibile totalitarismo che permea la nostra società fa sì che gli apparenti conflitti che sorgono nell’ambito del sistema, si svolgano sempre all’interno dei confini tracciati dalla sua ideologia».14 E l’acuto Carmelo Bene: «Il diverso è omologato. Qualunque Stato, soprattutto democratico, repubblicano, contempla il diverso, non lo trascura affatto, cerca di sovvenzionarlo se gli riesce».15

Vedere il mostro nella sua concretezza è vietato. Si può fare o pensare qualsiasi cosa purché la supremazia della democrazia (che si sta rivelando una tra le forme più riuscite di totalitarismo) e lo spettro del progresso illimitato non vengano messi in discussione. Molto ben considerata invece è la spiritualità “moderata”, solipsistica e sostanzialmente adharmica ed anti-sapienziale. Si fa credere a volte di contrastarla, ma in definitiva la si favorisce. Anche qui all’uomo è vietato addirsi allo svelamento della Realtà ultima o, quanto meno, ad una identità tradizionale (svadharma). Non sarebbe più un buon schiavo, né un efficace produttore-consumatore. Alle più genuine richieste di soddisfazione spirituale si replica con succedanei. Per esempio lo pseudo-tantrismo o le dottrine impersonali buddhiste o hinduiste, debitamente stravolte, servono egregiamente allo scopo. Tali dottrine – che nella loro autenticità valgono quali vie di Liberazione e di Illuminazione provvidenziali – diventano, se snaturate, efficaci strumenti di ulteriore imprigionamento nell’ignoranza principiale (avidya).

Il Tantrismo, qualora neghi ogni pregio all’ethos, al dharma, alla devozione, alla morale o ad un adeguato iter di purificazione, annullando superficialmente la discriminazione tra prospettiva esoterica ed exoterica, rende tutto lecito e consegna alla parodia della libertà; il Buddhismo e l’Advaitavedanta occidentalizzati, nella pretesa di rendere accessibile a tutti la via diretta e di togliere all’“io” o alla “persona” ogni valore, sia pur di grado relativo, inferiore, aprono le porte al nichilismo e ad un consumistico carpe diem permeato di disperazione: a che pro prendersi cura dell’esistenza se questa è “nulla”o non più di un semplice abbaglio?

La “nuova spiritualità”, disordinatamente sincretista, strizza inoltre l’occhio allo scientifismo, adottandone alcune espressioni: oggi è diventata di uso corrente “salto quantico”, che in ogni caso rimanda a variazioni numeriche, quantitative e quindi è ben distante dalla metánoia, intesa quale capovolgimento qualitativo del pensiero. In riferimento ad autori quali Douglas Hofstadter, Fritjof Capra ed altri, Ivan Illich, citando il pensiero di Maurice Berman, scrive: «Ognuno di loro, sebbene con parole differenti, collega un diverso insieme di concetti connessi con la teoria dell’informazione e crea pertanto un sistema di riferimento puramente formale, astratto, decorporizzato, che viene identificato con ciò che accade nella propria mente. Questa condizione mentale, per Berman, si può adeguatamente definire “sogno cibernetico” […] Berman ritiene che il sogno cibernetico conduca alla sua più matura espressione la logica della scienza meccanicistica degli ultimi trecento anni».16  

Quanto sopra vuole invitare alla prudenza nell’identificare le attuali teorie scientifiche con le vette della spiritualità orientale. Innanzitutto lo “scoprire” cognizioni “nuove” riguarda soltanto l’aspetto oggettuale del mondo, giacché, in un’ottica metafisica, nulla prova che l’uomo non sapesse già Tutto da sempre; e poi, andrebbe ridimensionato il pregiudizio per il quale l’umanità sarebbe soggetta ad un costante miglioramento. Persino in ambito musicale, il musicologo Jacques Viret ci informa che, rispetto ai tempi antichi, non vi è stato alcun progresso, ma piuttosto un decadimento, un impoverimento; tant’è che i rari segni positivi ai quali oggi possiamo volgerci ci vengono da quelle avanguardie “minimaliste” protese al recupero della sapienza melodico-armonica arcaica.17

Incidentalmente, a proposito del diffondersi di un auspicabile, ma improbabile mutamento radicale del pensiero, Raphael nota in una sua bella Prefazione alla Bhagavad-gita: «D'altra parte, se la vera Rivoluzione (metánoia) per i più non può attuarsi, allora si lasci che il ciclo si volga inesorabilmente al tramonto perchè da una "catastrofe" imposta dal "Cielo" non può non rinascere un'epoca purificata ed illuminata. Dopo il tramonto vi è sempre l'alba, e l'umanità non è la prima volta che subisce questa alternanza di tenebra-Luce. Chi è fisso nel Principio che è e non diviene non ha nulla da temere; di là da ogni sentimentalismo borghese vi sono necessità cosmiche  che sanno rimediare alla cecità di enti che hanno preferito la tenebra alla Luce, la morte all'Immortalità, il non essere all'Essere».18

Persino le religioni rivelate sono state pressoché in toto stravolte e banalizzate, dunque rese inoffensive. La loro funzione originaria di orientare secondo coordinate di ascesa graduale è stata soppiantata da emozionalità moralistiche, funzionali all’egualitarismo imperante, privo di sapienza e discriminazione.

L’enfasi che oggi si pone sul dialogo interreligioso è un segno dei tempi. Lao Tzu direbbe: Quando si insiste sull’urgenza del dialogo, non si fa altro che tentare subdolamente di affermare come preminente una determinata posizione egoistica inficiante la comunicazione-armonia. Esemplificando: l’hindu, il taoista, il buddhista, il cristiano o l’islamico possono fare o dire quello che vogliono, purché non si contrappongano ai dogmi dello scientismo imperante. Un certo blando folklore tradizionalista è ammesso, non la Tradizione, da interpretare nel senso di trasmissione di principî immutabili. I parchi naturali vengono retoricamente incoraggiati, ma è drasticamente proibito all’uomo di vivere in comunione con la natura, in semplicità, rifiutando o limitando l’uso del denaro e ignorando la perversa ora legale. Si elevano giuridicamente gli animali al rango di “persone” – salvo il torturarli e sterminarli laddove fa comodo –, ma si abbassano gli uomini al livello delle bestie da soma, a parte quelli che detengono le leve del potere, i cui ego ipertrofici pretendono di porsi al centro di tutto.

Nella sfera religiosa stiamo assistendo ad un movimento oscillatorio senza soluzione di continuità che dall’estremo del reputare di detenere il monopolio dell’accesso al Divino passa alla negazione di ogni differenza ed identità. In tale reductio ad unum, in cui si confondono orizzontalità e verticalità, leggiamo la volontà di promuovere la violenza omologatrice connaturata al mondialismo. È troppo impegnativo evadere dai luoghi comuni per evocare equilibrio e sintesi nell’eterno presente, pur preservando le diversità. È troppo oneroso uscire dalla prigione degli schemi e aspirare alla saggezza oltre la mente – che i buddhisti chiamano Prajnaparamita –, attraverso il silenzio. Ci si riempia pure la bocca di “libertà”, purché non la si viva.

La conoscenza mentale non è che il riflesso proiettato da un raggio di sole sull’acqua increspata; la conoscenza sovrasensibile è quella che si ottiene risalendo il raggio sino al sole. La prima è incerta e opinabile e non può essere assolutizzata; la seconda è per identità, indicibile, non dualistica e pregna di certezza senza oggetto.

Yajnavalkya, Rishi a cui viene attribuita la stesura dello Yajur Veda “bianco”, rivelatogli dal Sole per il tramite della sua sposa sotto l’aspetto di una giumenta  (vadava) del colore dell’oro, risponde ad alcune domande di Maitréyi circa le difficoltà dell’uomo di unirsi a Dio, sostenendo che oltre ad una postura stabile, bisogna anche disciplinare il respiro. Da un respiro irregolare, infatti, derivano il dubbio e la paura e da queste il cedimento al ciclo delle nascite e delle morti. Il prana, egli sostiene, è il nome del raggio di sole presente in tutti, ma di cui presto ci si dimentica. «È indispensabile ritrovare questo raggio in noi stessi affinché esso ci indichi la via che dobbiamo seguire nel nostro percorso verso Aditya, il Sole».19 Del prana si può dire anche, citando Sri Shankara, che esso: «svolge la funzione del respiro proprio in quanto è manifestato dalla luce della coscienza che è il Sé; pertanto Quello è anche il “prana del prana”».20

Un simile sapere non è certo caratteristica precipua dell’Oriente; in Dante, ad esempio, “il ben dell’intelletto” viene chiaramente indicato quale raggio di Luce divina che unisce l’uomo a Dio: «Io veggio ben sì come già risplende / Ne l’intelletto tuo l’eterna luce» (Paradiso, V, 7,8). Il denominatore comune tra il prana e l’intelletto dantesco è la Luce. Osserva Titus Burckhardt nel suo saggio La “Divina Commedia” espressione della saggezza tradizionale: «Per Dante la dignità primordiale dell’uomo consiste essenzialmente nel dono dell’“intelletto”, che non è la mera capacità di pensare, bensì quel raggio di luce interiore che unisce l’anima con la fonte divina di ogni conoscenza».21

Alle perigliose acque mentali ineriscono i concetti, per loro natura instabili anche quando appaiono solidi; al fuoco noumenico inerisce il Mito, il dire ritmico dei Rishi, degli Yogin, degli Avatara o dei Vati, capace di trasmettere significati inesprimibili e di ispirare il ritorno alla propria natura ultima. I concetti hanno una portata ascetica soltanto quando vengono umilmente usati per smascherare i loro stessi limiti. Significativamente Nagarjuna parla dell’abhidharma, la spina dorsale della dottrina buddhista, sia Hinayana che Mahayana, come di un “errore utile”. I Miti illuminano dall’interno, si adattano a tutti i tempi e, pur cambiando nella forma superficiale, periferica, in essenza non cambiano mai poiché scaturiscono dalla Presenza ad un tempo trascendente ed onnipervadente, sia in senso spaziale che temporale. Essi valgono quali auto-rivelazioni dell’Essere, pure forme dei principî universali, emanazioni dirette della forza (shakti) divina. Il già citato Coomaraswamy lo conferma autorevolmente: «La validità del racconto mitico si situa al di fuori del tempo e dello spazio, essa vale ovunque e sempre [...] Il mito è la più perfetta approssimazione della verità assoluta esprimibile con parole».22

Oggi conduciamo le nostre esistenze travagliati da un marasma di concetti ed è questa la ragione per la quale il mondo vive nell’incomunicabilità più esasperata, incapace di decifrare il linguaggio sapienziale dei Miti. Laddove c’è incomprensione reciproca, impermeabilità ad influssi sapienziali, inettitudine a praticare quel che si comprende, ci sono di necessità frustrazione, menzogna e violenza, ossia scarsa fiducia in se stessi, a cui si tenta di rimediare invano con la presunzione o con un impiego arbitrario e spropositato della forza.

Basta dare una semplice occhiata ai giornali, a internet, alla televisione, ecc., per essere assaliti da migliaia, milioni di parole, nozioni, definizioni cozzanti le une contro le altre. Di là dalla maschera ghignante dell’“Universo Tecnico”, l’occhio illuminato dal Soma scorge un vero e proprio inferno: «ibi erit fletus et stridor dentium».23

Shakespeare, il cui sguardo sapeva scrutare nelle tenebre, termina Re Lear con le seguenti parole: «The weight of this sad time we must obey; / Speak what we feel, not what we ought to say».24 Pur senza rifiutare le direttive che ci porge l’alta saggezza shakespeariana, sappiamo tuttavia come, secondo le dottrine dello Shivaismo tantrico, meditare in luoghi orridi e spaventosi, nei cimiteri o nei più svariati inferni, circondati da bhuta, dakini, pishaka, preta, sia pratica purificatoria oltremodo favorevole allo svelamento dell’Illuminazione-Liberazione: le bende della brama cieca, dell’attaccamento ad un divenire che non È mai Qui, della stupidità viscerale di immedesimare con la felicità il possesso degli oggetti o il successo «su questo grande palcoscenico di pazzi»25 si dissolvono al tocco della Dea (Shakti-devi) pietosissima nella crudezza del suo insegnamento.26 Perciò, pur prendendoci cura per l’indispensabile della vita fenomenica, si può esultare virilmente anche nell’oscurità. La tigre-mente può essere cavalcata; anzi, come per Shiva, Maestro degli asceti e Signore dei Tre Mondi,27 essa può diventare un confortevole drappo su cui sedere. La mente si agita, viene e va, se la si fissa attentamente si placa e persino svanisce; la Presenza del Fuoco-Sole, coincidente con la nostra più riposta identità, non ci abbandona mai.

 

Note

 

[1] Pier Paolo Dal Monte, L’allucinazione della modernità, Editori Riuniti, Roma 2012, pp. 20, 21.

2 Veramente esauriente e sintetica risulta la spiegazione circa l’impossibilità dei viaggi spaziali: «Usando il combustibile convenzionale, intendo quello per gli endoreattori, per accelerare del trenta per cento la velocità della luce non basterebbero tutti i serbatoi della terra o delle Montagne Rocciose. Servirebbe la massa dell’universo visibile ad occhio nudo: la terra, il sole, il sistema solare, la via lattea, tutte le stelle della nostra galassia e quelle delle galassie confinanti». Con la velocità massima sin’ora raggiunta di 55.000 miglia all’ora, dopo 38.000 anni si sarebbe percorso solo il quindici per cento dei quattro anni luce separanti il nostro pianeta da Alpha Centauri, la stella più vicina sulla quale vi sono 2.000.000 di gradi di calore. E dire che sul finire degli Anni ’60 l’ennesimo plagiatore televisivo così sproloquiava: «Abbiamo raggiunto la Luna, fra pochi anni raggiungeremo Marte, poi Venere e presto esploreremo tutti i pianeti del sistema solare, preparandoci a procedere oltre. A questo punto si tratta di scegliere se vogliamo restare piccoli uomini in un grande universo o diventare grandi uomini in un piccolo universo». Quale misera tracotanza! Come se la questione essenziale per l’essere umano si riducesse al diventare grande o piccolo (rispetto a che cosa?) e non piuttosto a svelare la propria verità essenziale.

3 A.K. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Rusconi Edit., Mi 1973, p. 42.

4 Brhadaranyaka Upanisad con il Commento di Sankara, a c. del Gruppo Kevala, 4.4.10, Ed. Asram Vidya, Roma 2004.

5 Il libro dei ventiquattro filosofi, a c. di Paolo Lucentini, Adelphi, Mi 1999.

6 Affascinante è la fusione tra musica, immagini, colori. 

7 Nella sua opera La mitologià Indù e il suo messaggio (Ediz. Mediterranee, Roma 2013, p. 55), Jean Herbert, chiosando la tradizione secondo la quale esistono molteplici mondi, scrive: «Osserviamo d’altronde che i mondi, pur apparendo a noi sotto l’aspetto di formazioni fisiche, non lo sono che a titolo secondario. Nei primordi, sono stati di coscienza».

8 Op. cit., p. 407.

9 Rileviamo l’assurdità della locuzione, dato che non può esistere qualcosa di “assoluto” al di fuori dell’Assoluto.

10 Non si pretende qui di negare o di revisionare alcunché, ma semplicemente di notare come, inevitabilmente, le proibizioni e le coercizioni alimentino, invece di spegnere, i sospetti circa la correttezza delle versioni storiche ufficiali. Sul piano razionale, l’imposizione non è un argomento accettabile. Perciò il revisionismo o il negazionismo dovrebbero essere demoliti dalla riproposizione paziente di documenti dalla comprovata validità e con argomenti scientifici, non con inammissibili provvedimenti penali. Le persone intelligenti sanno che le idee represse alla fin fine esplodono, portando a risultati assai lontani da quelli che ci si era prefissi. Tuttavia, proprio in questi giorni anche l’Italia, accettando il diktat di forze esterne, ha sancito che una semplice opinione o una ricerca storiografica, per sbagliate che siano, debbano essere ritenute reati passibili di prigione. E tutto ciò in nome della libertà e della civiltà, la più alta che il mondo abbia mai conosciuto. In un articolo intitolato Negazionismo e il complesso di colpa della destra (fonte: Rassegna Stampa di Arianna del 17/10/2013), Costanzo Preve sostiene che tale forma cruenta di repressione-rimozione – applicata unicamente nei confronti del negazionismo – sia da imputarsi ad un senso di colpa dal quale i popoli europei vorrebbero liberarsi: «Sia chiaro che io non auspico assolutamente provvedimenti giudiziari di alcun tipo. Sarebbe ovviamente la fine di ogni giornalismo, anche di quello onesto e scrupoloso, ed è meglio subire una manipolazione semantica perfidamente nascosta che attivare terribili giurie penali ed amministrative. Ma allora perché fare eccezione con l'infondato (e talvolta ridicolo) negazionismo storico? È evidente che la menzogna si difende con la verità, che alla lunga è sempre più forte della menzogna, ha migliori argomenti e dispone di migliori prove e documentazioni. Bisogna evidentemente ricorrere al complesso di colpa, che si manifesta sempre con forme contorte di rimozione. E la rimozione non è mai una buona consigliera». Sempre sulla stessa Rassegna del 17/10 compare però un articolo, puntigliosamente documentato, di Umberto Bianchi, Il caso Priebke. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, che propone un quadro ben più tremendo e drammatico e probabilmente più consono alla natura dell’uomo attuale: «Rimane, amaro, il senso della beffa verso la memoria delle vittime di questa e di tutte le rappresaglie dell’ultima, ingiusta, guerra mondiale, le cui tragiche vicende sono state strumentalizzate per fini che, con la giustizia, nulla hanno a che vedere».

11 È noto come a Fallujah e, durante l’operazione “Piombo fuso”, nella Striscia di Gaza, siano state usate contro popolazioni civili inermi armi terribili al fosforo bianco e bombe all’uranio impoverito. Nulla ci vieta di immaginare che anche altre armi chimiche sconosciute siano state utilizzate a mo’ di esperimenti. E che cosa staranno sganciando gli Alleati (Italia compresa) dai cieli dell’Afghanistan? E che cosa conterranno le scie biancastre che deturpano la nostra volta celeste? Non ce lo diranno mai, ma, se si vuole essere realisti – sulla base di una spassionata conoscenza dell’uomo –, si pensi al peggio.

12 Jean Marquès-Rivière, Verso Benares – La Città Santa, Ediz. PiZeta, San Donato (Mi) 2009, pp. 7, 8.

13 «Il dharma inerente alla natura propria di un essere; il dharma individuale quale “frazione” inserita in quello universale e a cui deve essere ricondotta», Glossario Sanscrito, a c. del Gruppo Kevala, Ediz. Asram Vidya, Roma 2011.

14 Op. cit., pp. 254, 255.

15 Da un’intervista del 1995 ad Otranto.

16 Da L’alfabetizzazione informatica e il sogno cibernetico, in Ivan Illich, Nello specchio del passato, Red 1992, pp. 202, 203.

17 Jacques Viret, La musica occidentale e la tradizione, a c. di A. Colimberti, Simmetria, Roma 2012.

18 Bhagavad-gita, a c. di Raphael, Ediz. Asram Vidya, Roma 2006, p. 36.

19 T.K. Sribhashyam, L’alba dello Yoga, Mursia, Mi 2013, pp. 27, 28.

20 Brhadaranyaka Upanisad con il Commento di Sankara, op. cit., p. 1048.

21 Titus Burckhardt, Scienza moderna e saggezza tradizionale, Borla editore, To 1968, p. 141.

22 Ananda K. Coomaraswamy, op. cit., pp. 19, 26. Sul valore illuminativo del linguaggio mitologico si veda pure: Jean Herbert, op. cit.

23 Matteo, 22, 13.

24 «Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. / Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire», V, iii, 322, 323, traduz. di Agostino Lombardo.

25 «To this great stage of fools», King Lear, IV, Vi, 179.

26 Presso tutte le Tradizioni la discesa agli Inferi è una tappa obbligatoria nell’iter iniziatico. Chi, munito di un seme-scintilla di Conoscenza per identità, osa calarsi nelle latebre interiori, ove giace l’abominazione connaturata all’ignoranza metafisica, sa la condizione dell’uomo decaduto. Conoscendo l’orrore e la miseria dentro di sé, il mystes le conosce pure dentro l’uomo. Allora non potrà più credere che il premio Nobel per la pace sia dato necessariamente ad un anima candida o che le virtù sbandierate ai quattro venti dai potenti di turno siano vere. Vedrà oltre le apparenze, berrà il calice amaro, incontrerà la bruttura estrema senza veli e, appellandosi alla dignità risvegliatasi in lui con l’Iniziazione, si libererà di tutti fardelli per risalire in piena coscienza alla Luce. A differenza di Órfeo, dall’identità polivalente, che, in un mito reso celebre da Virgilio, si voltò attratto dal femminile esterno (o ispirato dagli Dei, affinché l’ordine cosmico perdurasse), egli avrà assunto in sé la dualità e non mancherà di nulla.

27 «Il numero dei “mondi” ammessi dall’Induismo non è fisso; varia sensibilmente secondo il punto di vista da cui ci si pone, nonché secondo il grado di dettaglio in cui s’intende entrare. L’elencazione più frequente ne comprende quattordici. Di cui sette mondi “superiori”, ma nella pratica, per i fini della vita umana così come la conosciamo, se ne considerano solo tre», Jean Herbert, op. cit. La riduzione da quattordici a sette a tre è probabilmente connessa col mito di Saranyu, la sposa di Vivasvat, il Sole, la quale, non reggendo l’intenso splendore del marito, si ritirò nella provincia di Uttara Kuru per praticare tapas, nella speranza che egli lo attenuasse e prendesse una forma dolce. Il Sole allora chiese al padre di lei, Tvashtri (Vishvakarman, l’architetto dell’universo), di togliergli i quindici sedicesimi o i sette ottavi del suo splendore. Sembra che il mito voglia farci comprendere come l’umanità del presente Yuga, ormai privata di tre quarti della sua intelligenza, non sia più in grado di confrontarsi con visioni sapienziali troppo “luminose” e dirette.