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La fine della sovranità

di Carlo Gambescia - 14/05/2014

Fonte: carlogambesciametapolitics







I libri di Alain de Benoist,  prescindendo dalla condivisione o meno delle sue tesi, offrono sempre spunti stimolanti. Nulla a che vedere con i volumi di  mestieranti italiani del "nonconformismo" come Veneziani, Buttafuoco e di altri nani e ballerine della destra "intellettuale" neofascista.  Perfino in raccolte di articoli, sebbene omogenei,  come La fine della sovranità (Arianna Editrice),  il lettore alla fine riceve,  per così dire,  la giusta ricompensa. Naturalmente, la  "resa"  dipende dalla disposizione di spirito con la quale si leggono: i cercatori  di  risposte preconfezionate,  i militanti incorreggibili,  i debenoistiani più debeinostiani di Alain de Benoist,  difficilmente riusciranno  a misurarsi  con  la la natura creativa e dinamica  del suo pensiero,  mai superficiale, sempre in movimento,  di regola vulcanico  ma non meno  rispettoso delle linee di continuità che  sono dietro i fenomeni  politici e sociali.    
Si prenda  ad esempio  La fine della sovranità  che peraltro,  come  osserva giustamente Zarelli, rappresenta «l’aggiornamento e il completamento» del forse troppo  spengleriano -  l'aggettivo è nostro - Sull’orlo del baratro.   Infatti,  anche  in quest'ultima fatica,  crediamo sia possibile scorgere tutta la  vitalità del pensiero debenoistiano.  O comunque cogliere, meglio che nel precedente volume,  la grandissima distanza che separa il pensatore francese  da certo pittoresco demi-monde intellettuale:  dai populisti anti-euro, dai nazionalisti di ritorno, dagli altermondialisti.  Insomma, tra un volume e l'altro,  si scopre  sempre  in  bilancio una plusvalenza concettuale.  E  in questo "saldo attivo"  si rivela  tutta  la forza creativa del pensiero debenoistiano.   Perciò godiamocela subito.    
Euro.  « Uscire dall’euro è la soluzione? […] Noi ci andremmo un po’ più piano. L’uscita dall’euro, permetterebbe certamente una svalutazione, che a sua volta renderebbe possibile un calo “senza dolore” dei costi salariali, ma un siffatto modo di agire ha senso solo se  lo si assume, in modo concertato, al fine di consentire  un ritorno alle monete nazionali, che vada di pari passo con il mantenimento di una moneta comune riservata agli  scambi internazionali» (p. 68). Insomma, sempre una moneta comune servirebbe… 
Stato-Nazione e nazionalismo: «L’impotenza crescente degli Stati definisce quindi la fine del sistema westfaliano dello Stato-Nazione, che faceva risiedere l’autorità politica nel potere statale, attribuendogli il monopolio della violenza legittima  all’interno delle proprie frontiere. La forma territoriale della conquista  e della dominazione è diventata obsoleta» (p. 32).  Quindi, nessun torcicollo...
Altermondialismo: « [I suoi seguaci] sono dei riformisti di fatto - a sinistra si possono citare i nomi di Pierre Bourdieu, Immanuel Wallerstein, Noam Chomsky, Samir Amin, Leo Panitch, Zaki Laïdi, Hubert Védrine, Ulrich Beck, Peter Singer, Joseph Stiglitz, Susan George, Noorena Hertz, Paul Hirst e Grahame Thompson ecc […] . Si oppongono al liberalismo economico, ma difendono il liberalismo societario che non si è mai così ben diffuso come nel capitalismo liberale. Difendono l’ideologia dei diritti dell’uomo come se potessero esistere dei diritti umani indipendenti dall’organizzazione sociale. Si richiamano a valori universali, mentre un valore non ha senso se non nel contesto di una cultura determinata. In sintesi, per riprendere una celebre fase di Bossuet, deplorano le conseguenza di cui continuano a coltivarne le cause» (pp. 109 e  111-112). Perciò, nessuna alleanza con certa sinistra...
Che fare? Secondo il pensatore francese  serve  una critica radicale dell’ universalismo astratto che  tuttora anima la sinistra,  come d’altra parte,  è altrettanto necessaria  una chiara  presa di distanza  dal  particolarismo  folclorico e sciovinista  che  distingue la destra. Di qui,  la ricorrente  idea debenostiana  circa l'  inutilità della «divergenza destra/sinistra, ormai obsoleta»: convinzione  basata sul fatto che oggi la storica dicotomia avrebbe  «lasciato il posto a  una nuova opposizione tra avversari (di destra e sinistra) e sostenitori (di destra e di sinistra) della mondializzazione» (p. 115).
Però -  ecco il punto che non ci trova d'accordo -  potrà bastare il semplice essere contro? Puntando sulla «prom[ozione] del localismo» (p. 114)? Facciamo un passo (teorico) indietro: i processi di scomposizione-ricomposizione sociale, quando non  sono frenati, corretti, deviati o comunque gestiti dall'elemento umano,  tendono a  mantenere   quella  forza  propria inerziale  che li conduce  lungo le linee di una rotta prestabilita.  Perciò  è sociologicamente vero, come scrive de Benoist citando Morin,  che «rivoluzione e conservazione vanno considerate legate l’una all’altra» e che non c’è  conservazione senza rivoluzione e viceversa,  tuttavia è altrettanto vero  che  i processi sociali e politici, per essere gestiti, necessitano del fattore umano:  di  alleanze che possono essere strette solo sulla  base di valori e/o di interessi, culturalmente sublimati e collettivamente metabolizzati.  Alleanze che  però  non sempre  riescono bene... Dal momento che,  per dirla, con quel  simpatico anarchico della canzone di Tonino Carotone,  « è un mondo difficile e vita intensa felicità a momenti e futuro incerto».
Riassumendo:  il localismo è una reazione puramente sociologica,  per così dire, al di là del bene e del male, un fenomeno acefalo e inerziale: segue una sua rotta prestabilita. Di conseguenza, sorge  la necessità di   qualificarlo politicamente.  Qui però  viene il difficile,  perché  il  punto  di  "sutura" tra localismo inerziale  valori e interessi consiste nella "chirurgica"  reinvenzione umana delle tradizioni locali.  Insomma, il localismo, come  il pensatore francese rileva,  andrebbe «promosso» ,  per evitare - crediamo -  che l'inerzia  localista possa  trasformarsi in pura e semplice reazione automatica, acefala,  all'inerzia universalista. Giusto. Tuttavia,  in questo modo, il nazionalismo, anche  reinventato ( o forse proprio perché reinventato) come localismo,  non rischia di  uscire dalla porta per rientrare dalla finestra?  E combinare altri guai?  Non meno gravi di quelli prodotti dall' universalismo?