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Vie di fuga

di Paolo Cacciari - 19/11/2014

Fonte: Comune info


occ

Nella copertina del libro: il toro, simbolo di Wall Street, domato da una ballerina: una delle immagini più utilizzate durante le proteste del movimento Occupy Wall Street

 

Di seguito alcuni stralci di un capitolo del libro Vie di fuga (Marotta & Cafiero) di Paolo Cacciari. Un saggio su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita (in coda l’indice completo). 


Raúl Zibechi riferisce che, secondo il subcomandante Marcos, “le grandi trasformazioni cominciano come minuscoli asteroidi irrilevanti per il politico e l’analista che stanno arriba (in alto, ndt)” [257]. Anche il pensiero femminista è di questo parere. Scrive Lea Melandri: “È attraverso modificazioni conflittuali dell’assetto dei micro poteri che si realizzano i mutamenti più radicali dei modi di vita e dei meccanismi di riproduzione sociale” [258]. Della stessa opinione è Vandana Shiva:

I regimi totalitari e dittatoriali si combattono a partire dalle realtà locali, perché i processi e le istituzioni su larga scala sono connotati dal potere dominante. I piccoli successi sono invece alla portata di milioni di individui, che insieme possono dare vita a nuovi spazi di democrazia e libertà. Su larga scala le alternative che ci vengono concesse sono ben poche. Per converso la realtà quotidiana ci offre mille occasioni per mettere a buon frutto le nostre energie [259].

La democrazia intesa prima di tutto come partecipazione è quindi anche un problema di scala territoriale: bisogna riuscire ad abbassare il baricentro delle decisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità, pratiche sociali dal basso, reti strette civiche solidali, legami di prossimità, comunalità e comunanze [260]. “Una democrazia di persone”, la chiama Manuel Castells [261]. Ne deriva che la “sovranità” va trascinata giù, giù fino a identificarsi nelle condizioni materiali reali, quotidiane delle donne e degli uomini. Non può esserci alcun “interesse generale” sovraordinato che penalizza la vita anche di un solo singolo individuo.


La biblioteca autogestita di Scup (Sport e cultura popolare) a Roma, durante il mercato di economia solidale Ecosolpop.

 

Lo sapevano anche i padri del liberalismo che temevano che la democrazia si potesse trasformare in “democrazia della maggioranza”. Lo sapeva già Socrate: le maggioranze possono commettere ingiustizie gravissime e, persino, “votare” la propria eutanasia [262]. Ma non c’è maggioranza che possa arrogarsi il diritto di calpestare la dignità anche di un solo essere umano. Vanno riconosciuti beni e diritti inalienabili, indisponibili anche al volere delle “maggioranze”; valori incommensurabili, quindi: non mercificabili e commercializzabili.

La prima regola costituente una società democratica dovrebbe essere la individuazione e la messa-in-comune dei beni ritenuti indispensabili alla con-vivenza civile. La politica dovrebbe essere lo strumento con cui ricercare un accordo tra tutti gli individui per la più equa fruizione dei beni comuni. Non solo delle risorse naturali, ma (come abbiamo visto nel capitolo sui beni comuni) anche di quelle culturali e delle norme e delle istituzioni di cooperazione sociale, comprese quelle che regolano i rapporti economici.

Ha annotato Paolo Flores d’Arcais: “La democrazia è una con-divisione, dove il con e la divisione si intrecciano in equilibrio precario. È una comunità politica pluralistica, dunque inevitabilmente divisa da conflittualità etiche, di opinione, di interessi. Che tuttavia convivono” [263]. L’azione per la predisposizione alla “messa in comune” del fare concreto che produce ricchezza è l’elemento determinante di una società democratica. John Holloway si è inventato un verbo: ‘comunizar’ per riuscire ad esprimere il movimento del ‘mettere in comune’ del fare umano. “In qualsiasi società (compresa quella attuale) esiste una convergenza delle differenti attività, un fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di ‘comunalità’, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune”. Nelle relazioni sociali capitalistiche prevale il dominio del denaro e la mercificazione della ricchezza. Ma si possono fare le cose anche in un altro modo, immaginando concretamente “la creazione di un mondo che è nostro” che si costituisce in un processo di un costante ‘comunizar (mettere in comune) [264]. I riferimenti vanno al movimento zapatista delle Giunte del buon governo in Chiapas, alle fabbriche recuperate in Argentina, al movimento delle baracche di Durban Abahlali BaseMjondolo, ai movimenti urbani in Grecia. E così via. Ma è possibile scorgere molte altre “erbe matte” farsi strada nelle crepe sempre più vistose che si stanno aprendo nel vetusto edificio capitalistico, per usare una metafora cara a Holloway.

Anche in Italia le esperienze portate avanti dai movimenti dal basso della cittadinanza attiva – da quelli per i referendum sull’acqua e l’energia, per le proposte di legge di iniziativa popolare sui diritti del lavoro, per creare liste di cittadinanza locali, per la difesa del territorio, della salute e del lavoro [265] – dimostrano l’esistenza alla base della nostra società di straordinarie intelligenze collettive, di saperi diffusi, di capacità di elaborazione di proposte concrete e di disponibilità a sperimentare forme di gestioni condivise, solidali, lungimiranti dei beni comuni. Da qui è possibile sperare in una rigenerazione della politica, in una positiva evoluzione delle forme stesse della democrazia e delle istituzioni pubbliche.



Democrazia disfunzionale

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la truffa/estorsione della crisi economica permanente, perseguita e gestita spregiudicatamente dai gruppi dominanti e dalle corporates per ricacciare le classi lavoratrici in una condizione di maggiore subordinazione, evidenzia i fallimenti delle promesse sostanziali della democrazia rappresentativa: equa distribuzione delle ricchezze prodotte, partecipazione popolare ai processi decisionali, sicurezza sociale e assicurazione delle condizioni di sviluppo umano individuale per-tutti-e-per-ciascuno. Insomma, è entrata in crisi la democrazia come quella condizione generale capace di consentire una libera formazione ed espressione della volontà di tutti gli esseri umani. Più propriamente, si tratta del fallimento della democrazia liberale nata per stabilire un equilibrio tra gli ideali alti della democrazia e gli “animal spirits” del capitalismo. Ha scritto Carlo Donolo:

La forma della democrazia liberale si è dissolta nelle entropie della globalizzazione e della mercificazione globale. […] Non si tratta di deviazioni dalla norma e dalla normalità, ma di caratteri intrinseci non emendabili. In sostanza, per avere nuovi mercati occorre avere non solo meno stato sociale ma anche meno stato di diritto, e bisogna asservire il più possibile la politica alle esigenze della redditività privata [266].

Paradossalmente, da quando le dottrine neoliberiste sono diventate egemoniche, il modello sociale più ammirato e imitato dalle élite al potere è il “capitalcomunismo” cinese. La globalizzazione come teoria dei “vasi comunicanti” comporta il livellamento al basso delle condizioni di lavoro e di reddito delle fasce popolari. In nome del dogma della crescita economica le istituzioni pubbliche vengono “riformate” in “democrazie dispotiche”. Le derive tecnocratiche, presidenzialiste e populiste delle “costituzioni reali” di molti Stati europei e dell’Unione europea stessa, lo stanno a dimostrare. Le norme monetarie di bilancio entrano a far parte dei dispositivi costituzionali. È il trionfo della ragione economica su ogni altro aspetto della vita sociale; delle Ragionerie di Stato sulla ragionevolezza umana. Con ciò si potrebbe sostenere che l’idea democratica è disfunzionale alla riproduzione allargata dell’accumulazione capitalistica. Lo stesso parlamentarismo è considerato una “perdita di tempo” e le rappresentanze politiche sono viste come una pletora da “semplificare”, ridurre e tagliare. Emblematica è la sorte che è stata riservata al Senato italiano.

Davvero illuminante un documento della JP Morgan, uno dei giganti della finanza globale, in cui si lamenta un eccesso di democrazia in alcuni Paesi europei. “Le costituzioni e le soluzioni politiche nella periferia meridionale, poste in essere dopo la caduta del fascismo, hanno una quantità di caratteristiche che appaiono inadatte a un’ulteriore integrazione nella regione”. [267]

È già stato scritto che: “I parlamenti, le elezioni, i referendum, le stesse ‘parti sociali’, sono apertamente denunciati come un intralcio. Il passaggio dichiarato dal regime parlamentare a una società autoritaria è possibile ed imminente.” Poiché: “I veri luoghi di potere e di decisione si spostano in organismi paralleli, segreti e sempre più centralizzati” [268].

È forse giusto e inevitabile che una storia lunga due secoli e mezzo di tentativi di “compatibilizzazione” tra capitale e democrazia finisca così male. La crisi toglie il velo progressista e liberale ad uno sviluppo economico fondato su insostenibili premesse di sfruttamento del lavoro e di saccheggio delle ormai rarefatte risorse naturali. Sta di fatto che la principale impalcatura su cui si regge la “nostra civiltà” politica ed economica (vale a dire la supposta sinergia tra democrazia e mercato) sta cedendo. Ha scritto Guido Rossi: “La democrazia e il capitalismo hanno rovesciato il loro rapporto: il capitalismo ha invaso la democrazia e le leggi ovunque non toccano il potere delle corporation” [269]. La lex mercatoria ha preso il sopravvento. Calano così paurosamente sia il consenso effettivamente espresso dai cittadini-elettori, sia i benefici conseguiti dai cittadini-contribuenti. Nell’era della “democrazia dei consumatori”, lo scambio politico che attraverso il voto si realizza tra il cittadino (che cede ad un rappresentate dello stato “liberamente scelto” la sua quota parte di sovranità popolare) e lo stato stesso, è in perdita secca: nulla di serio viene restituito all’elettore-consumatore. Né sembra realistico pensare che alla fine del tunnel della crisi le cose verranno ripristinate così come le avevamo lasciate nei “trenta gloriosi” anni postbellici del compianto “compromesso socialdemocratico”. Quelle condizioni non esistono più. Nessuno è più disposto a fare credito alla vecchia Europa. Nessun Piano Marshall è in vista. Nessun Paese “sottosviluppato” è più disposto a concedere petrolio e materie prime gratis.

Rappresentanza embendded

Ha scritto Arundhati Roy a proposito del “crepuscolo della democrazia”:

Che cosa ne abbiamo fatto della democrazia? In che cosa l’abbiamo trasformata? Che succede una volta che si è consumata, svuotata, privata di senso? Cosa succede quando ciascuna delle sue istituzioni si è fatta metastasi fino a trasformarsi in una entità maligna e pericolosa? Cosa succede ora che capitalismo e democrazia si sono fusi in un unico organismo predatorio dell’immaginazione limitata e costretta, incentrata quasi esclusivamente sull’idea della massimizzazione del profitto? Viene da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e democrazia [270].

La risposta non può che essere negativa. Basti pensare alla questione fondamentale del finanziamento della politica. Attingendo da diverse fonti [271] ne viene fuori un quadro spaventoso per la credibilità della democrazia rappresentativa a partire dal “modello” americano, rigidamente bipolare e con scelta nominale dei candidati. La “industria dei gruppi di pressione” (le agenzie di lobbying) negli Usa ha un fatturato di 6 miliardi di dollari l’anno e dà lavoro a 35.000 addetti (17.000 accreditati solo a Washington). Alcuni esempi: la NBNA (carte di credito) ha speso per attività di lobbying 17 milioni di dollari in cinque anni. L’industria del legname 8 milioni di dollari e le miniere del carbone 3,4 milioni solo nella ultima campagna elettorale presidenziale. Le compagnie elettriche 20 milioni. I petrolieri 35 milioni. L’industria farmaceutica mantiene un organico di due lobbisti per ogni membro del Parlamento (chissà se anche questi li chiamano “informatori scientifici”?). Le banche schierano una media di 2,4 lobbisti per ogni membro del Parlamento e spendono 600 milioni di dollari per convincere i parlamentari a prendere decisioni a loro favore. Le assicurazioni sanitarie nell’anno della “quasi-riforma” di Obama (il 2010) hanno speso 300 milioni di dollari. Le principali banche di Wall Street, mentre agonizzavano nella crisi finanziaria del 2008, trovavano comunque il modo di versare a Democratici e Repubblicani cifre enormi: 6 milioni di dollari la Goldman Sachs, 5 la Citigroup, 4 la JP Morgan, 3 la Merrill Lynch. E via di seguito. Come si sa, tale disinteressata generosità portò l’amministrazione statunitense ad assumere la decisione di salvare dalla bancarotta il sistema finanziario impegnando i denari dei contribuenti e stampando banconote a rotta di collo (….) Anche le compagnie petrolchimiche europee hanno finanziato alcuni senatori statunitensi scettici sui pericoli del riscaldamento climatico in occasione dell’ultima campagna elettorale di metà mandato: la Bayer ha speso 108.000 dollari, la Basf 61.000, la BP 25.000, la Solvay, 40.000 la Gdf/Suez 21.000, la Lafarge 34.000 e così via. Tutto registrato e trasparente. Con una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti le “persone giuridiche collettive”, cioè le imprese, sono state equiparate alle persone fisiche nella illimitata possibilità di finanziare le campagne elettorali (….) ” [272].

 

In Europa le cose non vanno affatto meglio. A Bruxelles i lobbisti accreditati sono 15.000. Ci sono deputati che si affidano ai loro servizi per scrivere leggi, preparare emendamenti, formulare interrogazioni… ( …. ). Dell’Italia non parliamone. Si stima che i lobbisti a Roma siano 1.200 facenti capo a varie agenzie specializzate di Public Affair Manager, ma non c’è una normativa, né un registro. Affollano le anticamere delle commissioni parlamentari, degli assessorati, delle presidenze. Mancano serie inchieste su quello che fanno. Forse perché c’è meno trasparenza rispetto ad altri Paesi (anche se i bilanci dei partiti, con i nomi dei relativi finanziatori per importi superiori ai 50 mila euro, vengo pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale ogni anno), forse perché le stesse imprese che finanziano i partiti editano anche giornali e televisioni. È evidente che le enormi cifre che le grandi imprese, singolarmente e/o consorziate tra loro in “cartelli”, mettono a bilancio per far vincere le elezioni a questo o a quel candidato, rappresentano dei veri e propri costi di produzione delle merci e dei servizi che contribuiscono a far lievitare il loro prezzo al consumo. Una specie di “pizzo politico” che dobbiamo pagare ogni volta che acquistiamo una merce, che paghiamo un pedaggio autostradale, un ticket ospedaliero, una cartella delle tasse [273]. ( …. )

Insomma, la politica per le grandi imprese rappresenta un “sottomercato derivato” del gran gioco dell’economia. Non mancano comunque gli ingenui che credono ancora di poter scegliere chi votare, magari attraverso primarie e preferenze, come se i candidati capaci di emergere alla luce dei riflettori delle televisioni non fossero pesantemente sponsorizzati. Mi pare quindi evidente che questa democrazia rappresentativa (che fonda la sua capacità di presa sul denaro e sui mass media) è diventata impraticabile dalla autentica democrazia ( ….) Parallelamente al crollo di legittimazione popolare del sistema politico-istituzionale crescono (verrebbe voglia di dire: inevitabilmente) gli interventi di ordine pubblico e l’uso di strumenti giuridici repressivi, compresa la militarizzazione di intere aree dichiarate di “interesse strategico nazionale” [274].

 

 

Note

257 Articolo di R. Zibechi tradotto e pubblicato qui da Comune-info, il 13 gennaio 2014. In un altro articolo, sulle lotte degli abitanti di Córdoba in Argentina, Zibechi scrive: “Sono sempre i piccoli gruppi a prendere l’iniziativa, senza tener conto dei ‘rapporti di forza’ ma guardando solo alla giustizia delle proprie azioni. In seguito, a volte anche molto più tardi, lo Stato finisce con il riconoscere che i critici avevano ragione […] Il punto cruciale, a mio modo di vedere, è il cambiamento culturale, la diffusione dei nuovi modi di vedere il mondo. Come insegna la storia delle lotte sociali”.
258 Lea Melandri recensisce il libro di Miguel Benasayag e Angélique Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2007: “Il ruolo centralizzatore delle istituzioni del macropotere ha contribuito ad alimentare l’idea che le istituzioni siano il luogo a partire dal quale viene diretta la vita di una società”, invece: “Il macropotere non racchiude l’insieme del processo politico e tanto meno sociale”. Per cui: “La tentazione di dare un ‘soggetto’ al movimento reticolare che opera per la creazione di una alternativa, fa la sua comparsa là dove l’analisi si sofferma sulla forza trainante, ‘decisiva’, che possono avere le lotte dei ‘senza’: senza tetto, senza fissa dimora, senza lavoro, strati di popolazione sempre più violentemente messi al bando”. L. Melandri, Chi ricomincerà a lottare? Quelli che sono “senza”, in “Liberazione”, 13 agosto 2008.
259 V. Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 202.
260 Uno dei padri della democrazia americana, Thomas Jefferson, era giunto ad ipotizzare la formazione di “piccole repubbliche” dimensionate al bacino d’utenza delle scuole elementari. Hannah Arendt immaginava una rete di “repubbliche elementari” aperte e disposte a relazionarsi tra di loro. In molti pensano che l’esempio storicamente più alto di democrazia sia stato raggiunto con la Comune di Parigi che Karl Marx così descriveva: “In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale […] è stabilito con chiarezza che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato a un mandat impératif (istruzioni formali) dei propri elettori […] Invece di decidere ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente dovesse rappresentare falsamente il popolo in parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni.” K. Marx, La guerra civile in Francia, in D. Bensaid (a cura di), L’ignoto, Testi e corrispondenza sulla Comune di Parigi, Alegre, Roma, 2011, pp. 136-137. Quasi un secolo più tardi, in Catalonia, dal 1936 al 1937, le milizie antifranchiste, liberata Barcellona, consentirono alla Confederacion Nacional del Trabajo di dar vita ad una esperienza di gestione popolare diretta attraverso una rete di micro poteri diffusi di quartiere e di fabbrica, ispirati alla autorganizzazione del lavoro e della vita civile. Una collettivizzazione senza statalizzazione, senza deleghe e senza partito egemone. Una esperienza che finì per mano degli emissari della Internazionale comunista prima che per i bombardamenti nazi-fascisti.
261 M. Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, Università Bocconi Editore, Milano, 2012.
262 Bisognerebbe tornare alla lettura del fondamentale E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, 1963.
263 P. Flores d’Arcais, Democrazia!, Add editore, Torino, 2012, p. 82. Per l’autore la possibilità di una pacifica convivenza è una “regola minima” di funzionamento della rappresentanza: “una testa un voto”.
264 J. Holloway, !Comunicemos!, in “Herramienta”, http:/www.herramineta.com.ar. Tradotto e pubblicato: Mettiamo in comune, su Comune-info, 3 novembre 2013.
265 Mi rendo conto che sarebbe necessario definire con maggiore precisione da chi è composta la “galassia dei movimenti”. I manuali di sociologia sono pieni di distinzioni utili: movimenti sociali e territoriali, minoranze razziali e sessuali, gruppi di pressione “one issue”, associazioni (di mestiere, del volontariato ecc.). Ovviamente i loro comportamenti sono molto diversi e il loro rapporto con le istituzioni varia di conseguenza. Ma io penso che da Seattle in poi la nozione di “movimenti” (al plurale) sia molto cambiata e che ― per ora ― potremmo intenderla in modo esteso comprendente tutte quelle mobilitazioni e azioni sociali che tentano di praticare l’obiettivo (“problem solving”, potremmo dire) senza necessariamente farsi rappresentare da o delegare ad altri soggetti politici terzi e intermediari vari i rapporti con le controparti, con i poteri costituiti. Faccio quindi mia la definizione che Alessandra Algostino fornisce della “democrazia dal basso”: “Un’espressione collettiva di dissenso e di volontà di cambiamento che nasce ed è praticata al di fuori delle istituzioni, il che, peraltro, se da un lato comporta lo sviluppo di legami reticolari che fanno semplicemente a meno delle istituzioni, dall’altro non nega la volontà di incidere sulle istituzioni, trasformando esse e/e la loro politica.” A. Algostino, La democrazia e le sue forme. Una riflessione sul movimento NoTav, in “Politica del diritto”, n. 4, dicembre 2007. Se, almeno in prima battuta, accettiamo questa definizione larga, possiamo compilare mentalmente un lunghissimo elenco di soggetti che organizzano: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, gruppi di software libero, reti e distretti di economia solidale, microcredito, monete locali, radio e tv di strada, movimenti del reclaming the commons, guerrilla gardening, welfare di prossimità, autogestioni, mutualismo, palestre popolari, cooperative di autorecupero, gruppi di raccolta del cibo scaduto, centri del baratto, eco villaggi, cohousing, mobilità condivisa, ospitalità condivisa, occupazioni e recupero sociale di strutture abbandonate, forni, orti sociali e così via.
266 C. Donolo, La morte annunciata della democrazia liberale, in www.sbilanciamoci.info, luglio 2014.
267 Il testo è tratto da un articolo di Leigh Phillips, JP Morgan alla periferia dell’eurozona: ‘Liberatevi di quelle costituzioni antifasciste e sinistroidi!’, in “Zent Italy”, giugno 2013. “I sistemi politici della periferia furono creati dopo una dittatura e furono definiti da quell’esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista che riflette la forza politica acquisita dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. […]. I sistemi politici della periferia mostrano solitamente diverse delle caratteristiche seguenti: governi deboli; stati centrali esecutivi deboli rispetto alle regioni; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso che incoraggiano il clientelismo politico e il diritto di protestare se sono operanti cambiamenti non graditi allo status quo politico. I limiti di questa eredità sono stati rivelati dalla crisi.” Da notare che l’ex ministro Vittorio Grilli del governo Monti è nel frattempo diventato senior advisor di JP Morgan. Porte girevoli da cui è passato, in senso contrario, Mario Draghi: da vicepresidente internazionale di Goldman Sachs a capo della BCE.
268 M. Pezzella, op. cit., p. 8.
269 G. Rossi, Prefazione a Robert B. Reich, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi editore, Roma, 2008, p. XI.
270 A. Roy, Quando arrivano le cavallette, Guanda, Milano, 2009, p. 8.
271 Fonti varie: P. Barnes, op. cit.; Articoli di L. Napoleoni – N. Chomsky, in “Internazionale”; A. Baranes – M. Cavallito, Dodd-Frank. Uno spettro si aggira per l’America, in “Valori”, n. 94, novembre 2011; M. Ricci, in “La Repubblica”; C. Gatti, I finanziatori invisibili del voto, in “Il Sole-24 Ore”, 30 settembre 2010.
272 N. Chomsky, La democrazia americana in mano alle imprese, in “Internazionale”, 12 febbraio 2010.
273 Davvero istruttivi gli ultimi “scandali” italiani: Mose, Expo, ricostruzione del terremoto dell’Aquila, G8 alla Maddalena, autostrade in project financial, impianti sportivi e via dicendo. Si tratta delle “grandi opere” dichiarate di “interesse pubblico
274 D. Dalla Porta, Una società civile senza protesta?, in www.sbilanciamoci.info, 3 febbraio 2013. A. Algostino, L’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione come case study sulla democrazia e sul dissenso, in www.costituzionalismo.it, fasc. 2/2009.