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Su Naomi Klein e altro

di Marino Badiale - 14/04/2015

Fonte: Appello al Popolo

    


 

 

 
     
 


 
 
    
 
 



 
 
 


 

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Da Appelloalpopolo del 5-4-2015. Riproduciamo l’articolo e due commenti di particolare interesse (N.d.d.)     

 

La realtà sociale e culturale del nostro tempo presenta una strana contraddizione: da una parte l’organizzazione capitalistica della società mostra sempre più chiaramente i suoi limiti, la sua incapacità di assicurare la riproduzione sociale in termini sostenibili nel tempo. Appare via via più chiaro il fatto che il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e che esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici. Allo stesso tempo però, e questo è l’altro lato della contraddizione, questi evidenti indizi di inceppamento dei meccanismi autoriproduttivi dell’attuale organizzazione sociale non suscitano un movimento politico che abbia chiara l’esigenza di superamento del capitalismo e sappia articolare tale esigenza inserendosi nelle linee di scontro che le crescenti complicazioni sociali fanno sorgere. Per usare un linguaggio d’altri tempi, crescono le difficoltà oggettive nella riproduzione del meccanismo sociale capitalistico, ma latitano le forze soggettive che dovrebbero iniziare la lunga e difficile lotta per una diversa organizzazione sociale.

Un piccolo esempio di questi problemi è fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell’ultimo libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein  e da alcune delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi fondamentale dell’autrice è che l’attuale organizzazione sociale non è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti drastici nella società e nell’economia, e in particolare è necessario l’abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è stato dominante negli ultimi decenni.

Ora, qui ciò che conta è naturalmente il fatto che una tesi simile sia sostenuta da una giornalista brava, ma soprattutto conosciuta in tutto il mondo, come Naomi Klein. Un personaggio simile, voglio dire, non è più una semplice opinionista come tanti o tante: quello che dice contribuisce a formare le convinzioni di una parte significativa dell’opinione pubblica mondiale. E d’altra parte, quello che scrive Naomi Klein è anche influenzato dalle evoluzioni dell’opinione pubblica. Basta leggere i ringraziamenti alla fine del libro (riempiono sette pagine, e pochissimi sono quelli strettamente privati) per capire che ciò che scrive Naomi Klein è la sintesi di elaborazioni, esperienze, lotte che vengono da tutto il mondo. Insomma, prese di posizione così nette da parte di un personaggio come Naomi Klein sono indice (insieme effetto e causa) di sommovimenti di grande importanza nella coscienza di settori non trascurabili dell’umanità contemporanea. Parti significative dell’opinione pubblica mondiale sono arrivate a convincersi che vi sia ormai una incompatibilità di fondo fra il capitalismo e il mantenimento di delicati equilibri ecologici, la distruzione dei quali può portare ad una gravissima crisi di civiltà; e che, di fronte ad una situazione “capitalism vs. the climate” (che è il sottotitolo dell’edizione inglese), si tratti ormai di scegliere.

Tutto questo è chiarito, fra l’altro, dal capitolo del libro dedicato ai “negazionisti”, cioè alle varie correnti di opinione, forti soprattutto negli USA, che appunto intendono negare o le tesi sull’esistenza del cambiamento climatico oppure le tesi che attribuiscono il cambiamento all’attività umana. Negli Stati Uniti tali correnti di opinione sono fortemente legate a vari settori del mondo conservatore. Il capitolo in questione è intitolato “La destra ha ragione”, e quello che Naomi Klein intende dire, con questo titolo, è che la destra USA si oppone alle tesi sul cambiamento climatico perché avverte correttamente che esse portano a mettere in discussione i principi del capitalismo neoliberista, e ovviamente è contraria a questo esito. Insomma, la coscienza che le tesi sul cambiamento climatico portano a rivedere profondamente, e in senso anticapitalistico, l’attuale organizzazione sociale, sembra essere sempre più diffusa nel mondo, in tutto l’arco delle opinioni politiche.

Se questo è davvero il senso del libro, è abbastanza chiaro quale dovrebbe essere, di fronte al movimento di coscienza di cui esso è segnale, l’atteggiamento di una forza politico-sociale anticapitalistica, e degli intellettuali che, marxisti o no, fanno riferimento ad una prospettiva di pensiero critico nei confronti dell’attuale organizzazione economico-sociale. Chiunque abbia una intenzionalità anticapitalistica dovrebbe sforzarsi di dare la massima diffusione a queste tesi e dovrebbe cercare di interagire con il movimento di opinione di cui esse sono indice, per aiutarlo a crescere su tutti i piani: sul piano del rigore intellettuale, su quello della capacità di proposta politica, sul piano organizzativo. Mentre sarebbe ovviamente un segno di immaturità politica mettersi a fare i maestri di marxismo che sottolineano con la matita, non saprei se rossa o blu, gli eventuali “errori”.

Faccio solo un esempio: da quanto scrive nel libro non è del tutto chiaro se Naomi Klein ritenga necessario il superamento del capitalismo in quanto tale o piuttosto della forma “neoliberista” che esso ha assunto negli ultimi decenni. Si tratta di una questione un po’ astratta, rispetto all’urgenza dei problemi, ma che non può essere trascurata. La scarsa chiarezza su questo punto potrebbe essere uno di quegli aspetti di ingenuità teorica che spesso hanno i movimenti allo stato nascente. Sarebbe però una ingenuità ancora maggiore quella di un marxista che rifiutasse di interagire con queste tematiche per via di tali insufficienze teoriche. Il compito di una realtà anticapitalistica seria sarebbe invece quello di discutere queste insufficienze, quando emergono, e soprattutto di mostrarne il collegamento con la realtà concreta: di mostrare cioè come il mantenere insufficienze e ambiguità teoriche sia alla fine di ostacolo all’attività pratica.

Quanto fin qui detto non rappresenta, è ovvio, nulla di particolarmente originale. L’intera tradizione politica dei partiti anticapitalisti, socialisti o comunisti, porta in questa direzione: di fronte all’emergere di una contraddizione nel meccanismo di riproduzione del capitale, si cerca di lavorare sulle linee di faglia che in tal modo si evidenziano per farne emergere le potenzialità anticapitalistiche. Rispetto alla realtà descritta da Naomi Klein, questa impostazione porterebbe appunto a quanto dicevamo sopra: un movimento politico-sociale anticapitalistico dovrebbe mettere la questione del cambiamento climatico al centro della propria agenda e cercare rapporti costruttivi con tutte le realtà (forze politiche, movimenti sociali, singoli intellettuali) che si stanno muovendo in questa direzione. Compresa naturalmente la stessa Naomi Klein.

Mi sembra si possa constatare che non è questo ciò che sta avvenendo. Naomi Klein è certo molto nota anche in Italia, il suo libro è stato recensito, e ne sono pure state organizzate affollate presentazioni, con la partecipazione dell’autrice. Non intendo cioè dire che essa venga ignorata. Quello che intendo dire è che mi sembra sia mancata la spinta a inserire tale questione nell’agenda da parte delle poche frange anticapitalistiche residue. Mi è capitato di leggere alcune recensioni piuttosto acide, da parte di intellettuali marxisti o comunque “critici”, il cui contenuto era in sostanza il fatto che l’anticapitalismo di Naomi Klein non appare conforme ai canoni marxisti, oppure che essa non indica un programma concreto per un eventuale movimento politico: come se questo non fosse appunto il compito di tutti gli anticapitalisti, che essi non possono certo delegare ad una giornalista, per quanto brava! Questo tipo di reazioni inducono fortemente il sospetto che l’anticapitalismo delle poche frange rimaste sia un semplice principio identitario inabile al confronto con la realtà, espressione di realtà incapaci di elaborare una autentica prospettiva politica e probabilmente, in fondo, anche scarsamente interessate ad una tale elaborazione. La situazione è dunque questa: da una parte un movimento che si origina da una delle fondamentali contraddizioni del capitalismo contemporaneo, spesso senza avere chiara coscienza teorica della natura del capitalismo stesso; dall’altra realtà anticapitalistiche che avrebbero gli strumenti intellettuali per interagire proficuamente con quel movimento, ma invece lo snobbano, arroccandosi in chiusure identitarie.

È questa la situazione cui mi riferivo all’inizio, parlando del “latitare del fattore soggettivo”. Credo che questo blocco del “fattore soggettivo” sia indice di un mutamento profondo nelle forme di coscienza del nostro tempo, rispetto a quelle prevalenti nel Novecento; e credo che questo mutamento sia la causa vera delle difficoltà di costruzione di una seria forza politico-sociale di resistenza anticapitalista. Su questo dovremo tornare.

Marino Badiale

 

Caro Marino,

non ho letto il libro ma soltanto il tuo articolo e le recensioni che segnali. Tuttavia mi sembra di capire, correggimi se sbaglio, che si riproponga l’ennesimo “movimento globale”, sebbene non, come nel 2001, no-global poi (divenuto) new-global, bensì ecologista, senza peraltro precisare come dovrebbe organizzarsi e agire questo ipotetico movimento.

L’idea, è soltanto una idea o desiderio visto che non sembra esservi una concreta proposta, si espone dunque a queste obiezioni:

1) nella storia non sono mai esistiti movimenti globali. L’internazionalismo è stata al più un’alleanza di movimenti o partiti nazionali;

2) io e te conveniamo che non è costruibile nemmeno un movimento europeo volto allo smantellamento dell’Unione europea, che d’altronde cadrebbe e cadrà quando un partito nazionale di uno degli stati centrali deciderà che è giunta l’ora, per il proprio Stato e il proprio popolo, di mettere fine all’avventura unionista;

3) i movimenti ecologisti nazionali non hanno mai raggiunto livelli importanti in termini di consenso elettorale e quando hanno raggiunto livelli più o meno significativi sono al più riusciti ad allearsi con una o altra coalizione, recando un po’ di verde in uno o altro programma politico;

4) un movimento o partito nazionale che, avendo preso il potere, facesse pian piano – ossia con la lungimiranza strategica necessaria a mantenere il potere per avere la possibilità di attuare altre parti fondamentali del suo programma – sua tale idea, impiegherebbe una quarantina di anni a fare passi significativi nella direzione che segnali, sempre però che riesca a costruire una economia verde che soddisfi la gran parte del popolo;

5) un internazionalismo fondato su questa idea presupporrebbe, dunque, prima la presa del potere in uno stato nazionale, di un partito che ottenesse concreti e significativi successi. In tal caso esso riuscirebbe ad influenzare le politiche di altri stati;

6) un partito che vuole andare al potere negli stati nazionali, può al più collocare il problema ecologico in un spazio relativamente circoscritto della sua agenda. Soprattutto quando, andato al potere, dalla declamazione ideologica si passa ad affrontare i quotidiani problemi di disoccupazione, dell’ordine pubblico e della criminalità, della scuola, dell’università, delle pensioni, della sanità, dell’informazione, dell’organizzazione e ramificazione del consenso, di politica estera, di politica militare, sia pure si spera pacifica (tanto più che si può prevedere un ventennio di continuo aumento di guerre).

Perciò, il dubbio che l’autrice si sia posta sul piano dell’irrealtà e dell’ineffettualità resta. Spetta a lei, comunque, dimostrare che da qualche parte l’idea riuscirà a radicarsi, concretizzarsi e ad assumere caratteri realistici ed effettuali. Marx non fu soltanto un teorico, scrisse anche un manifesto e fu un militante (non un attivista). Vediamo dunque cosa l’autrice saprà fare sul piano dell’azione, oltre a vendere libri tradotti in tutto il mondo, sperando di non essere in presenza dell’ennesima teoria ineffettuale, priva di concretezza e realismo, del tipo di quelle alle quali ci hanno abituati tanti intellettuali moderni, che non hanno avuto alcuna incidenza sulla realtà, pur avendo avuto anni o un lustro o addirittura due di notorietà, rivelatasi ex post assolutamente immeritata.

Stefano D’Andrea

 

Caro Stefano,

probabilmente abbiamo immagini diverse del personaggio Naomi Klein: da quanto dici sembri considerarla una specie di leader politico (non sei l’unico, direi), e quindi le chiedi un programma politico concreto. Per me è essenzialmente una brava giornalista che ci informa sullo stato dell’arte riguardo ai dibattiti sul cambiamento climatico e alle lotte su questi temi in varie parti del mondo. La cosa interessante è che una brava giornalista, senza nessuna preparazione marxista, semplicemente studiando questo problema, è arrivata alla convinzione dell’insostenibilità del capitalismo. Per il resto, sono ovviamente d’accordo con te. Semplicemente, “il resto”, cioè un progetto concreto e sensato di conversione ecologica dell’economia, e l’azione politica per realizzarlo, è compito storico di noi tutti.

Ti segnalo un unico punto di possibile disaccordo fra noi: se è corretto quello che afferma la stragrande maggioranza dei climatologi, non abbiamo quarant’anni di tempo.

Un caro saluto

Marino