A scuola mancano i maestri
di Marcello Veneziani - 07/09/2025
Fonte: Marcello Veneziani
Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza. Credo che la più efficace argomentazione in favore della scuola e della pubblica istruzione sia dell’americano Derek Bok, rettore di Harvard: l’istruzione costa ma l’ignoranza costa di più.
Tra pochi giorni si riaprono le scuole, e quell’enorme bestione malato, ormai da decenni, riprende a muoversi con le difficoltà di sempre. Il problema non sono i ministri, che passano come meteore e lasciano poche tracce sul corpo ferito della scuola, ma i maestri. Già i maestri. Un tempo appena dicevi scuola dicevi maestri. Oggi non più; termine obsoleto, valido ai tempi di de Amicis.
Al maestro, anzi al Magister, dedica sin dal titolo un appassionato pamphlet (edito da Laterza) Ivano Dionigi, latinista e saggista che rivendica la centralità insostituibile del Maestro nella scuola. Già, ma è possibile avere maestri in una società senza eredi, come ho definito la nostra epoca in un recente saggio, in una società e in una scuola che si crogiolano nell’attualità tecno-economica, liberandosi di ogni maestro e di ogni eredità ricevuta e da trasmettere?
Dionigi parte da una citazione di Pascoli che consacrava la scuola a tempio dell’età nuova, fonte della religione della patria e dell’umanità. Una citazione che appartiene non solo a un’altra storia ma anche a un’altra umanità e a un’altra visione ideale della vita e del mondo. Dionigi si appoggia ai classici, integrati da qualche moderno, per rilanciare il ruolo essenziale della scuola in una società in cui vacillano la famiglia e la chiesa, e anche altre agenzie pubbliche – si pensi pure ai partiti – che non sono più in grado di guidare i giovani. La scuola non dovrebbe inseguire la modernità e la tecnologia ma esserne il contrappeso, dice giustamente Marc Fumaroli e da anni lo sosteniamo pure noi.
La scuola non insegna un lavoro ma la capacità di imparare, l’attenzione, i criteri e la visione, e dunque ciò che precede e motiva il lavoro. E il verbo essenziale del maestro resta quello che oggi è espulso dalle scuole e rigettato da molti docenti: educare. E poi insegna a parlar bene per pensare bene, nutrire il senso critico, distinguere i mezzi dai fini, superare il provincialismo del tempo di cui parlava Eliot, ossia lo sguardo limitato solo al nostro presente.
Dionigi ritiene che sia insensato lasciare la politica fuori dalla scuola, perché compito della scuola è fare la polis, formare cittadini. E il guaio dei nostri anni è la separazione tra cultura e politica, tra sapere e potere. Giusto, ma non possiamo dimenticare l’abuso di politica che si è fatto nella scuola, dai tempi del “tutto è politica” alla somministrazione ideologica che ancora perdura nei nuovi catechismi woke e politically correct. Dionigi che proviene dal comunismo ed è stato parlamentare a fianco del Pci, non considera la nefasta politicizzazione della scuola dei decenni scorsi che l’ha peggiorata assai. Sarebbe da distinguere tra l’ideale regolativo di una scuola che formi anche alla politica, e la prassi di questi anni, dove l’ideologia ha mortificato la cultura, l’apertura, il senso critico e ha imposto canoni e censure dettati dal suo spirito partigiano.
Anche l’auspicio di portare il mondo dentro la scuola è ambiguo, può voler dire incontrare la vita, la realtà, la varietà del mondo ma può appiattire la scuola in una goffa imitazione di ciò che accade fuori, o peggio in una subordinazione della scuola allo spirito del tempo e alle questioni del momento che tradirebbe proprio quei compiti educativi e compensativi della scuola rispetto al prorompere dell’attualità e della vita pratica.
Il maestro, è vero, non dev’essere un istruttore e un istitutore ma qualcosa di più, però poi impietosamente domandiamoci: si, dev’essere, ma lo è davvero? Dove sono i maestri che vanno oltre quei compiti e quelle mansioni? Dove si formano, chi li si seleziona? Ci sono maestri dei maestri? Si può prescindere dalla qualità reale e dal livello medio effettivo degli odierni docenti?
Dionigi tocca anche questioni esistenziali e temi filosofici per poi planare nella realtà della scuola assediata dall’Intelligenza artificiale, che può essere – inutile dirlo – una grande e benefica opportunità come una sciagurata sostituzione dell’umano. Dipende come governi la tecnologia, e soprattutto se la governi.
E ripropone la questione necessaria di ritrovare un armonioso equilibrio tra sapere scientifico e sapere umanistico, attraverso il loro reciproco beneficio, per spendersi infine in un elogio della tradizione, che ci pare indispensabile. Ogni scuola si fonda su una tradizione, ogni sapere è trasmissione e dunque tradizione, la cultura e la memoria si cibano di tradizione, la figura stessa del Maestro è colui che raccoglie una tradizione e la consegna ai suoi discenti. Ma anche la massima con cui poi si congeda dal lettore è bella e pericolosa al tempo stesso: voglio che “tu sia quel che vuoi essere” dice Dionigi. Capisco il senso che lui ne dà, di seguire la propria vocazione, avere l’opportunità e la libertà di farlo, riuscire nella vita a realizzare il proprio compito, seguire il proprio demone. Il maestro è colui che dovrebbe metterti in condizione di farlo. Ma oggi quella massima è rivolta esattamente a contrario: a perdere l’io sono nell’io voglio, a non accettare i propri limiti e a coltivare l’egocentrica autoprescrizione: voglio star bene con me stesso. Poi del mondo, degli altri, della tradizione e dei maestri chi se ne frega. L’ego è il nemico della scuola e dei maestri.