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Affrontare il mondialismo (II parte)

di Alain de Benoist - 20/07/2021

Affrontare il mondialismo (II parte)

Fonte: GRECE Italia

La globalizzazione cambia anche la nostra percezione dello spazio e del tempo. Sotto le maglie dei satelliti in orbita geostazionaria, sotto l’influenza di imperi economici che moltiplicano alleanze e fusioni, sotto l’effetto delle «autostrade dell’informazione» che trasportano nei luoghi più remoti del pianeta la stessa sub-cultura globale, il pianeta si restringe. Dominato da monopoli sempre meno numerosi ma sempre più potenti, lo spazio in cui circolano merci, investimenti e capitali si va via via uniformando. D’altra parte, mentre fino ad ora, tutte le società avevano abitato il tempo sia nella successione dei momenti sia nella continuità della durata, questa distinzione viene cancellata. La rivoluzione tecnologica del «tempo reale» (o «tempo zero») accelera la circolazione dei flussi materiali e immateriali, senza possibilità di parametri di riferimento o di prospettiva. Questa compressione temporale fa dell’immediatezza l’unico orizzonte di senso rimasto. Come dice René Char: «Eliminare le distanze, uccide». L’avvicinamento prodotto dalle nuove tecnologie della comunicazione determina lo schiacciamento di esseri e cose, la confusione di forme e momenti.
È dunque una ridefinizione della realtà stessa a cui stiamo assistendo. Internet è un buon esempio. Mentre i media tradizionali si limitano a mostrare ciò che accade altrove, Internet consente ai suoi utenti di trasportarsi virtualmente in questo altrove. L’abitante del sistema McWorld vive così ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo; Internet inaugurando un nuovo modo di vivere, che potremmo chiamare nomadismo elettronico, ma che è anche colonialismo elettronico se osserviamo bene. Nelson Thall, successore di Marshall McLuhan all’Università di Toronto, afferma infatti che «in definitiva, il potere di Internet… è che consente al mondo intero di pensare e scrivere come i nordamericani».
Non è un’esagerazione, quindi, dire che la globalizzazione produce in qualche modo l’abolizione dello spazio e del tempo. L’abolizione del tempo deriva dal fatto che, grazie a tecniche di informazione e comunicazione istantanee, tutto accade e si propaga ormai in «tempo zero»: gli stessi eventi (che si tratti di un attacco spettacolare o della finale di un Mondiale FIFA) sono visti e «vissuti» allo stesso tempo dagli spettatori di tutto il mondo; i flussi finanziari vengono trasmessi istantaneamente da un capo all’altro della terra; e così via. Quanto all’abolizione dello spazio, è dovuta al fatto che i confini non fermano più nulla, per cui nessun territorio ha una centralità particolare.
Al tempo della Guerra Fredda, c’era un confine tra il mondo comunista e quello che allora veniva audacemente chiamato il «mondo libero». Oggi non c’è più una linea di demarcazione. Le informazioni, i programmi, i flussi finanziari, i beni, le persone stesse, circolano sempre più liberamente da un Paese all’altro o sono distribuiti contemporaneamente in tutti i Paesi. All’interno di ogni Paese, la distinzione tra interno ed esterno non corrisponde più a nulla. In passato, ad esempio, la polizia era responsabile del mantenimento dell’ordine interno, mentre l’esercito era responsabile degli interventi esteri. È significativo che oggi la polizia ricorra sempre più frequentemente a mezzi militari, mentre l’esercito sia impegnato principalmente in «operazioni di polizia internazionale». La globalizzazione segnala così l’avvento di un mondo senza esterno. Il neologismo «globalitarismo» è stato inventato per descrivere questo mondo che non ha più nulla al di sopra di esso, questa azienda globale che per natura non è limitata da alcunché. L’avvento della globalizzazione corrisponde quindi alla fine della modernità. La caduta del muro di Berlino, per utilizzare un comodo punto di riferimento, non segnò solo la fine del dopoguerra o la fine del XX secolo, ma ha rappresentato anche l’ingresso nella post-modernità. Nel mondo postmoderno tutte le forme politiche ereditate dalla modernità stanno diventando obsolete. La vita politica non è più solo competizione tra partiti. Il modello «leninista», in cui i partiti cercano di arrivare al potere per attuare il loro programma, è ampiamente superato, poiché lo spazio di manovra dei governi si riduce ogni giorno di più. Gli Stati nazionali perdono sia la loro centralità che la loro legittimità. La loro centralità perché ormai troppo grandi per soddisfare le aspettative quotidiane delle persone, ma allo stesso tempo troppo piccoli per far fronte allo spiegamento globale di problemi e vincoli. La loro legittimità perché, essendo entrati in crisi uno dopo l’altro i crogiuoli istituzionali di integrazione su cui un tempo facevano affidamento (la scuola, l’esercito, i sindacati, i partiti, ecc.), essi non sono più produttori di socialità. Il vincolo sociale viene quindi ricostituito lontano dalle autorità amministrative e dalle istituzioni sovrastanti. La globalizzazione porta a un divorzio tra significato e segno, che si traduce in una desimbolizzazione generalizzata della vita politica. La crisi della rappresentanza, l’aumento dell’astensione alle consultazioni elettorali, la fioritura del populismo e dei nuovi movimenti sociali, sono ancora altri sintomi caratteristici di questo sviluppo.
Si assiste contemporaneamente alla fine degli Stati-nazione a beneficio delle comunità e degli spazi continentali; alla fine delle organizzazioni di massa a vantaggio delle reti; alla fine del modello esplosione/rivoluzione a favore dell’implosione/dispersione; alla fine delle logiche territoriali a favore di quelle transnazionali; al termine dell’individualismo solitario in favore dell’intersoggettività dei gruppi.
Il mondo globalizzato è soprattutto un mondo di reti. Le reti si caratterizzano per il loro carattere «liquido» o fluttuante – tutto è questione di flussi (di moneta, di simboli, di immagini, di programmi), di velocità, di connessioni – garanzia della loro opacità relativa, e non hanno né centro né periferia, il che significa che ogni punto della rete è esso stesso sia centrale che periferico. Le reti creano un nuovo tipo di relazioni sociali «frazionate». Instaurando un legame immediato tra individui che vivono a grande distanza gli uni dagli altri, secondo le loro affinità, le loro opinioni o i loro centri di interesse, creano nuove identità sovranazionali. Le reti oggi sono di tutti i tipi: reti industriali e finanziarie, reti di informazione e comunicazione, reti criminali, reti terroristiche, ecc. Il loro modo di operare è essenzialmente quello della delocalizzazione. Le grandi multinazionali, le grandi corporazioni industriali, i cartelli della droga, i gruppi neoterroristi e le mafie agiscono esattamente allo stesso modo: scelgono i luoghi più adatti alla loro attività e si spostano altrove ogni volta che trovano condizioni migliori.
La modalità di propagazione delle reti è una modalità di propagazione virale, ma anche la logica dirompente dell’universo delle reti è di tipo virale. Il virus elettronico, trasmesso dagli hacker, che infetta una dopo l’altra le reti informatiche, il virus all’opera nella diffusione delle malattie oggi più discusse (AIDS, afta epizootica, mucca pazza), le spore dell’antrace utilizzate come arma batteriologica, le informazioni che portano alla destabilizzazione a catena dei mercati finanziari globali, la predica infuocata che fa il giro del mondo trasmettendosi su Internet, rientrano tutte nello stesso modello paradigmatico.

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La globalizzazione a cui assistiamo oggi non è quello «Stato universale» che Ernst Jünger credeva si fosse formato dalla fusione progressiva della «stella rossa» e della «stella bianca», cioè dalla fusione tra Oriente e Occidente (22). Con la globalizzazione la Terra tende a unificarsi sotto forma di mercato, cioè sotto l’orizzonte della logica della merce e della ricerca di un aumento permanente dei profitti. Questo avvento di un mercato globale è accompagnato da una trasformazione delle mentalità. L’internalizzazione del modello di mercato conferma, nella mente e nei comportamenti, il primato dei valori di mercato. Il modello antropologico ormai dominante è il modello utilitaristico: l’uomo è definito come un individuo interessato principalmente a produrre e (soprattutto) a consumare, come un agente economico che dovrebbe cercare costantemente di massimizzare il suo miglior profitto. Si passa così da una società col mercato a una società di mercato. Ma va da sé che lo sviluppo del commercio non elimina né l’alienazione né il pregiudizio. Non è stata la sinistra «cosmopolita», va sottolineato, ma la destra liberale ad aver realizzato, o permesso, la globalizzazione. Ciò corrisponde alla tendenza laica del capitalismo: per definizione, il mercato non ha altri limiti che sé stesso. L’osservazione che il capitalismo si è dimostrato più efficace del comunismo nel realizzare l’«ideale internazionalista» è quindi solo apparentemente paradossale. Storicamente, il «cosmopolitismo» si è espresso principalmente a sinistra, ma oggi non è la sinistra, ma al contrario i partiti di destra che promuovono più attivamente la globalizzazione. Chi critica la globalizzazione senza dire alcunché sulla Forma-Capitale, farebbe meglio a tacere. La globalizzazione è prima di tutto il risultato della modernizzazione che si concretizza in piani di adeguamento strutturale volti a integrare tutte le società del pianeta nel mercato globale. È una modernizzazione che si presenta come una risposta alla crisi della modernità conseguente all’Illuminismo (23), ma la risposta che essa fornisce consiste solo nella radicale autonomia dell’economia di mercato, nella finanziarizzazione del capitale e, allo stesso tempo, nell’ascesa della tecnoscienza. L’idea generale è che la scienza ci permetterà di capire tutto, la competenza tecnica di risolvere tutto e il mercato di comprare tutto. Non è così. Karl Polanyi aveva previsto che il mercato avrebbe distrutto la società. Eccoci qui. Il «commercio dolce», che secondo Adam Smith avrebbe dovuto pacificare le relazioni umane, ha trapiantato la guerra all’interno stesso del mercato. La dittatura dell’economia, il primato del settore privato nella conduzione della cosa pubblica, porta allo scioglimento del vincolo sociale. L’universo della deregolamentazione generalizzata porta ad un livellamento al ribasso delle culture, tutte ridotte allo stesso denominatore consumistico. «L’occhio senza pregiudizi», osservava Jünger già quarant’anni fa, «è sorpreso dal vasto, sempre crescente conformismo che gradualmente copre tutti i Paesi – non solamente e non tanto come monopolio dell’una o dell’altra delle potenze in competizione, ma come stile di vita globale» (24). «Lo shock contemporaneo della globalizzazione», scrive oggi Philippe Engelhard, «è la conseguenza di un liberalismo universalista che, nonostante le apparenze, odia le differenze. Il suo programma implicito è quello di un’omogeneizzazione del mondo da parte del mercato e, quindi, dello sradicamento sia dello Stato-nazione che delle culture […] Il completamento della società liberale non sopporta le scorie culturali o comunitarie. Il programma liberale massimalista mira all’eliminazione delle differenze, qualunque sia la loro natura, perché sono un ostacolo al grande mercato e alla pace sociale. Infatti, non è solo la scoria culturale ad essere in eccesso, ma il fatto sociale stesso […] La logica della modernità occidentale risiede fondamentalmente nella non cultura universale del mercato totale» (25).
Ma la globalizzazione non è nemmeno l’universalità. Per certi versi è addirittura il suo contrario. Perché l’unica cosa che universalizza è il mercato, cioè una modalità di scambio economico che rinvia a un momento della storia di una cultura ben precisa. La globalizzazione, come si sta svolgendo oggi davanti ai nostri occhi, rappresenta solo l’imperialismo di un Occidente mercantile, un imperialismo interiorizzato dalle stesse persone che lo subiscono. La globalizzazione è l’imitazione di massa dei comportamenti economici occidentali. È la conversione dell’intero pianeta a questa religione del mercato, i teologi e sommi sacerdoti della quale tengono un discorso dove l’unico fine ultimo è la redditività (26). Non è un universalismo dell’essere, ma un universalismo dell’avere. È l’universalismo astratto di un mondo frammentato, dove gli individui non sono più definiti da altro che non sia la loro capacità di produrre e consumare. Il capitalismo si propone così di riuscire dove il comunismo aveva fallito, senza considerare la giustizia sociale beninteso: creare un pianeta senza confini abitato da un «uomo nuovo». Ma questo uomo nuovo non è più il lavoratore, non è più il cittadino, è il consumatore «connesso», che condivide il destino comune di un’umanità senza differenze collegandosi a Internet o andando al supermercato.
«Lo scrittore portoghese Miguel Torga», ricorda Zaki Laïdi, «un tempo definì l’universale come “il locale senza i muri”. Con ciò intendeva dire che i valori dell’universalità potevano essere promossi e difesi solo se, prima, le persone si fossero sentite radicate in una solida realtà locale. Ora, la globalizzazione sviluppa una dinamica opposta. Gli individui si sentono sradicati a causa della globalizzazione, senza potere sulle cose, e di conseguenza si sforzano di erigere muri, per quanto fragili e irrisori» (27). Sul piano psicologico, così come gli Stati stanno diventando impotenti, gli individui oggi hanno ugualmente la sensazione di essere espropriati di sé stessi da logiche troppo potenti, processi sempre più rapidi, vincoli sempre più ingombranti, variabili così numerose che non riescono più a cogliere il livello rilevante della loro azione. Che questo fenomeno avvenga in un momento in cui l’individuo è sempre più solo, abbandonato a sé stesso, in un momento in cui anche tutte le grandi visioni del mondo sono crollate, non fa che accentuare questa sensazione di vuoto generalizzato. «La globalizzazione», dice ancora molto giustamente Zaki Laïdi, «riproduce stranamente il meccanismo freudiano della folla coinvolta nel movimento contagio-panico. Contagio nella misura in cui la globalizzazione sviluppa conformità e uniformazione; panico perché tutti si sentono soli di fronte a logiche che li superano» (28). La globalizzazione sembra un po’ un puzzle di immagini esplose. Non si lega a nessuna visione del mondo, vieta ogni rappresentazione, mentre le autorità pubbliche, che la dichiarano irreversibile, non hanno esse stesse alcun supporto simbolico da offrire di contro a essa. «La radice del problema della globalizzazione deriva dall’interazione tra un mondo senza confini e un mondo senza punti di riferimento […] È questa dialettica tra un mondo senza confini e un mondo senza punti di riferimento che spiega la crisi di senso e che, allo stesso modo, rafforza la nostra percezione di un mondo disordinato» (29).
Pensiamo alla terribile frase scritta da Péguy nel 1914, poco prima di morire: «Tutti sono infelici nel mondo moderno».

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Certo, più la globalizzazione si dispiega su scala planetaria, più generalizza una dialettica che ne rappresenta la principale contraddizione. Nella misura in cui la globalizzazione appare, non senza ragione, come l’imposizione unilaterale dello stile di vita occidentale, suscita quasi ovunque forti resistenze «identitarie». Più la globalizzazione attualizza l’uniformazione, maggiormente potenzia la frammentazione; più attualizza il globale, maggiormente potenzia il locale. Da un capo all’altro del pianeta, le società più minacciate dalla globalizzazione cercano di riaffermare il proprio particolarismo, di riconquistare la propria personalità. Ma è qui che hanno le maggiori difficoltà. Alcune inventano identità da zero; altre cercano con tutte le forze di ricreare un’interiorità fittizia in un mondo dove tutto diventa pura esteriorità. Molte adottano forme di azione convulse, alimentate da frustrazioni di ogni genere, che portano irrimediabilmente all’irredentismo e alla xenofobia. Assistiamo quindi a questo scontro che Benjamin R. Barber ha riassunto con la formula «Jihad contro McWorld» (30). Da un lato, un pianeta in via di standardizzazione, via via omogeneizzato dal commercio e dalla comunicazione globale; dall’altro, raggruppati sotto la comoda etichetta della «Jihad» un insieme di tensioni identitarie, aggressive affermazioni etniche o religiose, che generano guerre civili e conflitti tribali un po’ ovunque (31). La globalizzazione, si potrebbe dire, sta distruggendo e resuscitando le identità collettive con lo stesso movimento. Ma quelle che fa riapparire non sono le stesse. La globalizzazione rimuove le identità organiche ed equilibrate e le restituisce in forma puramente reattiva.
Un tale scoppio di identitarismi convulsivi si può certamente comprendere, poiché è solo la conseguenza, tutto sommato logica, della trasformazione dell’intero pianeta in una società che non ha più un esterno: l’eccesso di apertura porta inevitabilmente all’eccesso di chiusura. La ricomparsa di tribalismo, familiarismo, attaccamento al clan o un esacerbato attaccamento alla propria etnia possono quindi essere interpretati come un disperato tentativo di reagire a una minaccia di espropriazione. Tuttavia, non possiamo approvare queste reazioni che, con i loro eccessi troppo frequenti, si screditano da sole.
Sarebbe molto più corretto considerarle, come fa appunto Barber, come facenti coppia con la globalizzazione. Da un lato, queste due tendenze apparentemente antagoniste si giustificano reciprocamente facendo affidamento sui rispettivi eccessi per imporre eccessi nella direzione opposta: l’aggravarsi delle disuguaglianze derivanti dai vincoli dell’economia generalizzata spinge i più poveri all’estremismo, mentre alla fine delle guerre etnico-religiose il dilagare di McWorld riprende con ancora più forza il possesso delle anime. D’altra parte, per molti aspetti costituiscono solo due forme diverse, quella soft e quella hard, dello stesso fenomeno negativo, poiché concorrono a estinguere ogni forma di democrazia e di partecipazione attiva alla vita pubblica da parte dell’insieme dei cittadini. Quindi gli estremi si uniscono. Già nel 1920, anche il linguista russo Nicolas S. Troubetzkoy aveva osservato la relazione paradossale tra cosmopolitismo e sciovinismo. «E’ sufficiente considerare concretamente lo sciovinismo e il cosmopolitismo», scriveva, «per rendersi conto che non c’è alcuna differenza radicale tra i due, infatti sono solo due gradi, due aspetti di un solo e unico fenomeno» (32). Il cosmopolitismo, aggiunge, nega le differenze nazionali solo sulla base di un’idea di umanità riferita a un modello specifico. Invita solamente l’umanità civilizzata a formare un’unica entità universalizzando il modello di una particolare civiltà, in questo caso la civiltà occidentale, implicitamente considerata come lo «stadio» più completo della civiltà tout court. «C’è dunque», conclude, «un parallelismo totale tra sciovinisti e cosmopoliti […] La differenza è semplicemente che lo sciovinista prende in considerazione un gruppo etnico più ristretto di quanto faccia il cosmopolita» (33). Ma entrambi conoscono un solo e medesimo criterio di giudizio: «Ciò che ci somiglia è sempre migliore di ciò che è diverso da noi» (34).

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Quanto sopra è sufficiente per capire quanto sarebbe inutile cercare di individuare un «direttore d’orchestra» della globalizzazione. Nella misura in cui consiste essenzialmente in una moltiplicazione di reti, la globalizzazione non ha una base, un operatore o un posto di comando centralizzati. La potenza americana, che oggi è il suo vettore principale, in quanto unica grande potenza mondiale, ne rappresenta solo una parte subordinata. Proprio come la finanza o la tecnologia, la globalizzazione opera secondo una propria logica: modello orizzontale, non verticale, «cibernetico» e non azionato o comandato a distanza. La causa dello sviluppo della globalizzazione risiede nella sua stessa esistenza. Il fenomeno della globalizzazione è irreversibile? A lungo termine, nessuna risposta è possibile: per definizione, la storia è sempre aperta. Ma per ora – e molto probabilmente per i decenni a venire – la globalizzazione è chiaramente il quadro della nostra storia attuale.
Da questo punto di vista, dobbiamo stare attenti a non commettere una serie di errori. Uno di questi sarebbe credere che sia ancora possibile sfuggire agli effetti della globalizzazione volgendosi all’interno, chiedendo ilmantenimento delle identità in senso puramente etnocentrico. La «logica del bunker» oggi non è più praticabile, proprio perché siamo in un mondo dove tutto si riverbera su tutto. Perdere interesse per ciò che accade altrove, credere che non ci riguardi, ci impedisce di vedere che invece ci riguarda eccome. Un secondo errore consisterebbe nel porsi in una prospettiva di retroguardia, limitandosi a cercare di rallentare le dinamiche già in atto. I movimenti di destra, da almeno un secolo, hanno fatto delle battaglie perse una loro specialità. Lamentarsi della situazione presente mentre si rimpiange il passato non porta da nessuna parte. Possiamo combattere solo sapendo come è configurato il campo di battaglia oggi – e come sarà configurato domani -, non sognando cosa potrebbe essere o ricordando quello che era una volta. Si tratta di non sbagliare epoca, cioè di essere consapevoli del momento storico che stiamo vivendo. Si tratta di vedere cosa sta arrivando, per determinare cosa sia possibile fare.
Si possono fare altre due importanti osservazioni. La prima è che la natura mondiale della globalizzazione, che è senza dubbio la sua forza, è anche ciò che in qualche modo ne determina la sua debolezza. In un mondo globalizzato, tutto influisce su tutto istantaneamente. Nulla può più fermare la propagazione delle onde d’urto, come vediamo con le grandi crisi finanziarie che, scoppiando in un qualsiasi punto del pianeta creano immediatamente ripercussioni in tutto il mondo. Questa è una fonte di notevole vulnerabilità. La seconda osservazione è che l’estensione delle reti, che costituisce uno dei tratti più caratteristici della globalizzazione, rappresenta anche uno dei mezzi per combatterne gli effetti. Le reti sono un’arma. Permettono ai dissidenti di riunirsi da un capo all’altro del mondo e coordinare la loro azione. È significativo che i movimenti antiglobalizzazione siano essi stessi movimenti globalizzati, come abbiamo visto a Seattle, Genova, Porto Alegre o altrove.
È anche abbastanza chiaro che la crescita incontrollata del capitalismo finanziario non è l’unica via d’uscita dalla crisi che il mondo sta vivendo oggi, e che devono essere sviluppate regole per reagire a tutti i livelli contro le forme che attualmente assume la globalizzazione. Non è impossibile, innanzitutto, tentare di regolamentare i mercati finanziari a livello internazionale. Avanzata originariamente dal professor Tobin, l’idea di imporre una tassa sui movimenti finanziari in valute estere ha già guadagnato terreno. Non è certo una panacea per tutto, tuttavia, una tassa dello 0,05% sulle transazioni globali di valuta estera scoraggerebbe una serie di transazioni speculative a brevissimo termine e frutterebbe proventi pari a 150 miliardi di dollari all’anno, il doppio dell’attuale importo degli aiuti internazionali. Tale somma potrebbe, ad esempio, consentire la creazione di un fondo globale di protezione sociale o di difesa dell’ambiente. Si potrebbero anche immaginare organizzazioni internazionali che gestissero l’economia mondiale in modo diverso da come fanno attualmente, e che avrebbero il compito di imporre la ridistribuzione di una parte sostanziale dei guadagni della globalizzazione a beneficio di coloro che ne sono le principali vittime. Philippe Engelhard propone, da parte sua, la creazione di una moneta globale. Essendo alla base della circolazione finanziaria planetaria il fluttuare delle valute, il ritorno a un loro stabile standard di valore internazionale impedirebbe ovviamente una speculazione che si nutre principalmente di differenze di cambio. Tuttavia, se ammettiamo che «il fenomeno della globalizzazione è visto come la rivincita dell’economico sul sociale e sul politico» (35), è ugualmente ovvio che la risposta alla globalizzazione non può essere solo economica. Si pone allora la questione di saper colmare il divario che vediamo oggi tra la formidabile crescita dell’economia mondiale e il fatto che non abbiamo alcuna forma di organizzazione politica e sociale in grado di arginare questo fenomeno. Se assumiamo come principio che la politica debba controllare e regolare l’economia, potremmo dedurre, dal momento in cui ci troviamo in presenza di un’economia planetaria, che anche politicamente si debba agire a livello globale. In altre parole: una volta che l’economia si è globalizzata, la politica non dovrebbe fare altrettanto? Ma sappiamo bene che uno Stato mondiale è una chimera e che la sua instaurazione, con modalità quantomeno nebulose, solleverebbe ancora più problemi di quanti ne consentirebbe di risolvere (36). D’altro canto, voler contrapporre lo Stato-nazione alla globalizzazione costituirebbe un nuovo errore. Primo, perché la globalizzazione non fa altro che estendere all’intero pianeta un processo di omogeneizzazione che le burocrazie statali hanno già ampiamente svolto in passato a livello nazionale: sta facendo su larga scala ciò che lo Stato-nazione ha già fatto su piccola scala. In secondo luogo, soprattutto, perché lo Stato-nazione costituisce oggi il livello di intervento e di decisione maggiormente paralizzato dalla globalizzazione. Soggetto a vincoli esterni che superano radicalmente le sue capacità (dispiegamento mondiale di poteri economici, trasmissione satellitare di programmi di informazione, commercializzazione globale di nuove tecnologie, gestione dei problemi ecologici, traffico transnazionale, ecc.), lo Stato-nazione non è semplicemente più in grado di affrontare da solo i problemi globali. Far credere che lo Stato nazionale possa ancora decidere sovranamente sull’apertura o chiusura delle sue frontiere ai flussi finanziari; far credere che sia possibile ricostruire una società solidale al riparo di muri che isolerebbero i suoi abitanti dall’esterno del mondo, è solo una visione utopica o una menzogna.
L’ Europa politica e, più in generale, la regionalizzazione di un certo numero di grandi raggruppamenti continentali potrebbero invece costituire un rimedio contro la globalizzazione. Senza essere una garanzia assoluta (perché c’è sempre il rischio che, attraverso gli investimenti diretti, i Paesi interessati si trovino a far fronte alla concorrenza interna di imprese multinazionali esterne alla zona), l’integrazione europea potrebbe consentire di soddisfare le esigenze di mercati sufficientemente ampi costituendo un polo con una dimensione adatta ad affrontare i flussi finanziari globali. L’area economica europea è potenzialmente il primo mercato mondiale in termini di popolazione e livello complessivo di potere d’acquisto. Un’autorità politica europea, che permetta di controllare e coordinare le politiche monetarie e di bilancio, faciliterebbe l’abbandono delle politiche di crescita estroflesse basate su una crescita autoreferenziale, senza rinunciare alla protezione sociale. Allo stesso tempo, la moneta unica (l’Euro) potrebbe essere messa a frutto per ridurre le prerogative del Dollaro, divenendo così un elemento di riconquistato potere e di sovranità. È infatti solo su questa scala che si può sperare di recuperare le possibilità di controllo che gli Stati isolati hanno ovviamente perso. Ma occorre andare verso un’Europa veramente sovrana, dove ogni tappa dell’integrazione dei mercati nazionali sia accompagnata da una superiore capacità di imposizione e di decisione politica, e non verso un’Europa di mercato strutturata come una semplice zona di libero scambio, o verso un’Europa burocratica e accentratrice, basata sull’espropriazione delle autonomie locali. Tuttavia, sappiamo che oggi non è così. Così come sono ora, le istituzioni europee possono essere tanto facilmente un polo di resistenza alla globalizzazione quanto divenirne un vettore. Tutto ciò che per il momento possiamo constatare è che gli atti comunitari vincolanti per gli Stati membri non derivano da alcuna reale sovranità europea (37).
Infine, c’è il livello della vita quotidiana. Rimane il livello locale, che è l’unico in cui gli uomini politici possono ancora vedere gli effetti delle loro azioni. Di fronte alla globalizzazione del commercio, di fronte all’universalizzazione dei segni, di fronte a questa ondata di fondo che cancella tutte le differenze e tutti i valori, resta la singolarità delle forme. Restano le lingue, le culture, resta un legame sociale da ricreare pazientemente nell’esistenza quotidiana. Philippe Engelhard scrive a questo proposito che «la riabilitazione del politico passa, prima o poi, per una ricostruzione del sociale e del culturale, e viceversa. Si deve considerare la cultura non come un dato statico, ma come una tensione creativa, portatrice di senso e di approfondimento dell’arte del vivere insieme» (38). Da parte sua, Jean Baudrillard ha recentemente osservato che «ogni cultura degna di questo nome si perde nell’universale. Ogni cultura che diventa universale perde la sua singolarità e muore. È il caso di quelle che abbiamo distrutto assimilandole con la forza, ma è quello che sta succedendo anche alla nostra cultira con la pretesa di renderla universale». E ha aggiunto: «Tutto ciò per cui si manifesta oggi si manifesta contro l’universale, contro questa universalità astratta» (39).
Per una potenza globale sarebbe perfettamente inutile volersi opporre a un’altra potenza globale. La strategia della rottura consiste, al contrario, nell’opporre il locale al globale, il piccolissimo al grandissimo. Nella postmodernità, i rapporti di forza hanno cambiato natura. Cinquant’anni fa, l’obiettivo di ciascuna potenza era cercare di acquisire risorse altrettanto importanti – e se possibile più importanti – di quelle della potenza avversaria (l’«equilibrio del terrore» dei tempi della Guerra Fredda). Oggi i conflitti si caratterizzano piuttosto per l’asimmetria delle forze presenti, come abbiamo visto ancora una volta, in modo spettacolare, con gli attentati dell’11 Settembre. Il declino degli Stati-nazione sta liberando energia dalla base. Promuove le possibilità di azione locale e, allo stesso tempo, la ricomparsa della dimensione politica del sociale. L’applicazione a tutti i livelli del principio di sussidiarietà, che consiste nel permettere che si elevi solo ciò per cui i livelli inferiori non hanno competenza concreta, sarebbe uno dei modi migliori per porre rimedio all’attuale contenuto della globalizzazione.

Traduzione a cura di Manuel Zanarini

Note:

Cf. in particolare Robert Reich, L’économie mondialisée, Dunod, 1993 ; François Chesnais, La mondialisation du capital, Syros, 1994 ; Jacques Adda, La mondialisation de l’économie, 2 vol. (1 : Genèse ; 2 : Problèmes), Découverte, 1996 ; Samir Amin, Les défis de la mondialisation, L’Harmattan, 1996 ; Anton Brender, L’impératif de solidarité. La France face à la mondialisation, Découverte, 1996 ; Jean-Yves Carfantan, L’épreuve de la mondialisation. Pour une ambition européenne, Seuil, 1996 ; François Chesnais (éd.), La mondialisation financière. Genèse, coût et enjeux, Syros, 1996 ; Elie Cohen, La tentation hexagonale. La souveraineté à l’épreuve de la mondialisation, Fayard, 1996 ; Philippe Engelhard, L’homme mondial. Les sociétés humaines peuvent-elles survivre ?, Arléa, 1996.
Principes d’une critique de l’économie politique.
Op. cit., p. 543.
« La sequenza degli eventi», diceva Marcel Mauss nel 1920, « va nella direzione di una crescente moltiplicazione di prestiti, scambi, identificazioni anche nei dettagli della vita morale e materiale» (« La nation », in Œuvres. 3 : Cohésion sociale et divisions de la sociologie, Minuit, 1969, p. 625).
Op. cit., vol. 1.
Cf. Bertrand Badie, La fin des territoires, Fayard, 1996.
Cf. Charles-Albert Michalet, Le capitalisme mondial, PUF, 1985.
« La liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di capitali», scrive Samir Amin, «l’adozione di tassi di cambio fluttuanti, gli alti tassi di interesse, il deficit della bilancia dei pagamenti americana, il debito estero del Terzo Mondo, le privatizzazioni, determinano insieme una politica perfettamente razionale che offre a questi capitali fluttuanti lo sbocco di una precipitosa corsa agli investimenti finanziari speculativi, evitando così il pericolo maggiore di una massiccia svalutazione del surplus di questi capitali »(«La vera posta in gioco della globalizzazione » (« Les vrais enjeux de la mondialisation », in Politis-La Revue, octobre-décembre 1996, p. 70).
Philippe Engelhard osserva a questo proposito che sono «i popoli il cui sistema culturale è stato meno brutalizzato dalla modernità occidentale o che, almeno, si sono aperti ad esso con cautela, [che] sembrano avere le migliori performance economiche. È il caso del Giappone, ma anche di alcuni popoli del Sud-Est asiatico e della Cina”»(op. cit., p.23).
Suzanne Berger, « Le rôle des Etats dans la globalisation », in Sciences humaines, septembre-octobre 1996, p. 55.
« Mondialisation et démocratie : un point de vue nord-américain », in Marzo-Aprile1996, p. 16.
« Internet et tchador, même combat », in La Vie, 14 novembre 1996, p. 58. Cf. Benjamin R. Barber, Djihad versus McWorld, Desclée de Brouwer, 1996.
Già Marcel Mauss osservava che «un internazionalismo degno di questo nome è l’opposto del cosmopolitismo. Non nega la nazione. La individua. L’inter-nazione è l’opposto di una-nazione sola» (“La nation et l’internationalisme”, testo del 1920, in Œuvres, vol. 3, op. cit., p. 630).
Le grand transformation, Gallimard, 1983.
Bertrand Badie, «Mondialisation et société ouverte », in Après-demain, Aprile-Maggio 1996, p. 9.
Pierre-Noël Giraud, L’inégalité du monde. Economie du monde contemporain, Gallimard-Folio, 1996.
Ian Robinson, art. cit., p. 19.
«Seconde jeunesse pour les comptoirs coloniaux », in Le Monde diplomatique, Aprile 1996.
Op. cit., vol. 1, p. 94.
Ricardo Petrella, in Le Monde diplomatique, Maggio 1995. Su come la globalizzazione riduca i poteri degli stati nazionali, cf. anche Kenishi Ohmae, The Borderless World, Harper Collins, New York 1990 (trad. fr. : De l’Etat-nation aux Etats-régions, Dunod, 1996) ; Vincent Cable, « The Diminished Nation-State », in Daedalus, printemps 1995 ; Kenishi Ohmae (ed.), The Evolving Global Economy. Making Sense of the New World Order, Harvard University Press, Cambridge 1995.
« Mondialisation et société ouverte », art. cit., p. 9.
L’Etat universel, Gallimard, 1962. Jünger ha evocato un’evoluzione che «suggerisce che la differenza tra la stella rossa e la stella bianca sia solo lo sfarfallio che accompagna il sorgere di una stella all’orizzonte. Lascia che salga nel cielo e l’unità si dispieghi» (p. 35).
Cf. Gustave Massiah, « Quelles réponses à la mondialisation ? », in Après-demain, Aprile-Maggio 1996, p. 6.
Op. cit., p. 34.
Op. cit., pp. 199, 250 et 256. Engelhard aggiunge: «Ma poiché le differenze sono inevitabili, quelle della ricchezza, dei talenti o quant’altro, gli individui dovranno diventare assolutamente indifferenziati […] Questa indifferenziazione, che può sembrare per certi aspetti insopportabile, è latente nel paradigma neoclassico che postula l’assoluta separabilità delle funzioni di preferenza dagli agenti. In altre parole, le mie scelte devono essere perfettamente indifferenti da quelle del prossimo, e non confrontabili […] Questa indifferenziazione, che culmina nell’assoluta separabilità delle funzioni preferenziali dagli agenti, è strettamente legata alla negazione del dato culturale. In effetti, qualsiasi appartenenza culturale o comunitaria potrebbe stabilire una connivenza tra le preferenze degli individui del gruppo. Il principio di separabilità verrebbe messo in discussione” (ibid., pp. 251 et 256).
Cf. à ce sujet Philippe Lançon, « L’économie, comme théologie de la contrition », in Libération, 3 Giugno 1996, p. 5.
« Qu’est-ce que la mondialisation ? », in Libération, 1er juillet 1996, p. 6. Cf. anche Zaki Laïdi, Un monde privé de sens, Fayard, 1996 ; « Pour une pédagogie de la mondialisation », in Après-demain Aprile-Maggio 1996.