Al centro di che?
di Lorenzo Merlo - 28/07/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
Se nell’equivoco si assiste al potere e allo scontro di punti di vista differenti, anche la concezione della conoscenza in forma di saperi analitici ne è un esempio.
“Lascia lente le briglie del tuo ippogrifo, o Astolfo
E sfrena il tuo volo dove più ferve l'opera dell'uomo
Però non ingannarmi con false immagini
Ma lascia che io veda la verità e possa poi toccare il giusto
Da qui, messere, si domina la valle
Ciò che si vede è
Ma se l'immago è scarno al vostro occhio
Scendiamo a rimirarla da più in basso
E planeremo in un galoppo alato
Entro il cratere ove gorgoglia il tempo”. (1)
Verità oggettiva
In ambito meccanico, ma anche elettrico e chimico, esiste una prevedibilità certa e condivisibile. Il valore e la potenza di ogni elemento sono certi. Ogni parte è sostituibile da una identica. L’efficienza del sistema è garantita. Ogni composizione che da esso proviene è considerata separata e indipendente da noi. Ai nostri occhi appare così evidente nella verità che esprime, che la consideriamo uguale per tutti, oggettiva.
Meccanica della storia
Il mito, il culto, l’incantesimo dell’oggettivazione del mondo, delle parti della realtà, della realtà intera, sono forze che insistono sui pensieri fino a confezionare la concezione del mondo, della realtà, di noi, del prossimo, così come nelle descrizioni che ne facciamo, nel linguaggio che creiamo.
La condizione del due
Dire io – non a caso anglosassoni e statunitensi ne sono insuperabili campioni –, credere di essere ciò che a esso facciamo coincidere di noi, comporta l’altro, il non io, e la separazione da esso, qualunque cosa sia, dal fotone al cosmo. È la condizione del Due, è il suo impero. Esso comanda l’esistenza umana e contiene – nel senso di limita – il potere creativo, come se avesse in sé una teleologia volta a imporre i saperi e, in questo, a impedire la conoscenza. Un progetto che per essere attuato – basta guardare – necessita di un solo diversivo, il resto viene da sé. Questo consiste nel dedicarsi alle differenze formali, o nel’occultare le identicità sostanziali. Una condizione di partenza, che da un lato comporta l’elezione del proprio punto di vista, la sua difesa costi quel che costi, dall’altro l’impedimento alla banale constatazione che tutti noi siamo mossi dagli stessi pochi sentimenti e poche emozioni. Una pochezza che comporta il ripetersi perpetuo di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Morale e ratione
L’io, il suo culto dell’indipendenza dal mondo, e quello dell’oggettività, rappresentano la matrice della storia di sofferenza che conosciamo. Una storia che, necessariamente, è a sua immagine e somiglianza. Se – o quando – lavaggi del cervello a parte, avremo a che fare con i trapianti dell’io, il soggetto portatore produrrà da qual momento altre biografie e altre storie, esattamente come sempre avviene a mezzo di nuovi dati acquisiti e nuove consapevolezze.
Come se non bastasse, se alla pietanza storica si aggiungono le spezie suprematiste e totalizzanti della morale e della ratione, l’incantesimo diviene giogo, dal quale nessun bovino ha mai creduto di potersi liberare.
Religione della scienza meccanicista
Quando morale e ratione divengono armi d’attacco, in difesa di quello che si crede essere il proprio io, nuovamente ci troviamo davanti allo spettacolo imperituro della presunta superiorità di un io rispetto a un altro, fino al diritto di morte del prossimo, alla negazione della sua identicità con noi, alla predilezione del nostro piacere über alles.
Conoscenza
In un campo di esistenza siffatto, tutto è piegato ad esso, anche la cosiddetta conoscenza. Non è, infatti, condivisa dalla maggioranza quanto assurdo sia che essa coincida con la scienza classica, nella quale si osserva la realizzazione della concezione meccanicista della realtà, di sé, del prossimo. Solo ciò che essa dimostra – “Ma mi faccia il piacere” (Totò) (1) – ha il diritto d’essere vero e reale. Nel dualismo siamo al minimo delle potenzialità creative e di conoscenza, oppure al massimo della loro mortificazione, se non al meglio del loro annientamento.
Entro la bacinella d’acqua, la barchetta della scienza meccanicista naviga indomita credendo di fare rotta sulle terre dello scibile. Ufficiali, sottufficiali, nostromo e ciurma non si accorgono che ogni porto ha la sua verità, non si avvedono, cioè, che il concetto stesso di verità in contesto duale può esistere solo e soltanto entro campi chiusi, che dimenarsi nella storia per trovarne una universale non è altro che fonte di dolore e conflitto. Una svista che non vivono con senso di colpa – come potrebbero? non ne hanno coscienza – ma con diritto all’uso della forza e della sopraffazione nei confronti degli apocrifi non convertiti allo scientismo, nient’altro che una religione.
Il risultato è che l’ovvietà che la verità ha ragione d’essere solo in campi chiusi, regolamentabili, con un linguaggio senza equivoci, tra individui che condividono tutto ciò che vi è all’interno, non è condivisa, non ha spazio nella nostra cultura, non a caso definibile scientista.
L’altra faccia della luna
La scissione, cara a Decartes e ai suoi seguaci, tra noi e il mondo che crediamo di avere di fronte, nonché la riduzione di questo a due dimensioni, cioè alle sue misurazioni, per quanto autoreferenziale, ha goduto di un accredito talmente vasto da poterlo chiamare universale. Le esigenze di routine, stabilità e sicurezza, tutte primarie e necessarie all’ordinamento della realtà, delle società, del mondo, ha fatto dell’uomo un’entità a miopia illimitata.
Chi ne ha fatto le spese è il pensiero magico. Tuttavia, nonostante esso, sebbene entro i ristretti paddok della logica, del razionalismo e del meccanicismo e accompagnato dalla nostra inconsapevolezza di esso, ci muova ancora, non solo non è constatato e quindi riconosciuto nella sua presenza e nel suo valore e potere, ma è denigrato e perseguito.
Ma è salendo sul suo tappeto volante che possiamo considerare come la materia sia energia e come il mondo abbia a che vedere con la nostra interpretazione e descrizione di esso.
Non solo, anche come la realtà nella quale crediamo di muoverci non sia che la decantazione di alcuni, tra gli innumerevoli, elementi, guarda a caso quelli a noi necessari per seguitare a credere in ciò che narriamo. Come magneti con la limatura di ferro, li orientiamo a nostro uso e consumo. Un fatto innocuo, se a quella miopia non corrispondesse anche il diritto razionalizzato – gioco forza – di proselitismo, conversione, obbligo, imposizione, persecuzione, punizione di tutti i magneti-persone d’altro avviso.
Sentire non sapere
La dimensione magica è umana, quindi a portata di tutti, purché nel rispetto della presa di coscienza di una sola condizione, sebbene bicefala: la caducità dei saperi di superficie e l’impedimento alla conoscenza a causa dell’importanza personale come valore irrinunciabile.
La prima appare come diretta discendenza dal piano logico-razionale. Ovvero di quello strato di intelligenza che, come un burqa, ci avvolge e limita. Ad esso fanno riferimento tutti i saperi antropocentrici, genericamente tecnici, che, nel pieno rispetto del criterio analitico, sono andati via via specializzandosi e separandosi tra loro.
Dall’altro lato sta l’idea dell’io indipendente dal mondo, a sua volta figlia della cultura dell’importanza personale.
Privi di tale bicefala consapevolezza la conoscenza corrisponde ad un cumulo ed accumulo impermanente di dati, entità entro cui abbiamo costretto il mondo. Ma questi non sono che le parti di esso che riteniamo di avere scalpellato via dal tutto, senza vedere che lo abbiamo fatto per una conoscenza costretta entro l’interesse personale di un io al centro della realtà.
Fondi di caffé
Con la duplice consapevolezza della vacuità relativa ai saperi di superficie e all’importanza personale, invece, ci si trova ad avere a che fare con la conoscenza relativa al sentire, una modalità che delimita – assai funzionalmente alla conoscenza stessa – il valore dei saperi relativi ai dati linearmente consequenziali, alle misure, alle catalogazioni.
La dimensione magica, da cialtronata di nessun valore se non ciarlatanesco, diventa evidente realtà. Ma anche qui c’è un cancello in forma di consapevolezza. Sì, perché la conoscenza, se non richiede saperi, necessita invece di consapevolezze diciamo stocasticamente, o imprevedibilmente, successive. Conoscere attraverso il sentire allude alla meditazione, alla contemplazione, alla ricettività estetica, alla conoscenza del proprio sé.
V’è una consapevolezza che può svelarci in che termini esiste la dimensione magica o energetica o sottile del mondo, e come questa faccia a meno, per la sua sopravvivenza, del bidimensionale piano cartesiano, dei principi della logica e del principio di causa-effetto.
Essa riguarda il potere ricettivo. In particolare, come questo sia relativo alla purezza, e come questa resti torbida in modo direttamente proporzionale all’accredito che diamo ai saperi di superficie.
Spogliarello
Come la svestizione nello spogliarello o nel belletto rivela la natura originaria, così, emancipandosi dal sapere utile a scuola e nel lavoro, ma inutile nelle relazioni aperte, diviene possibile la liberazione dalle abitudini, credenze e consuetudini della cultura e della storia fantasmagorica, con l’io al centro, scambiata come unica verità.
In contemporanea a tale crescente limpidezza si constata, al pari di come prima si constatava un tavolo o un copertone, il flusso energetico che sempre scorre, che tutto avviluppa.
Nient’altro che forze che agiscono su tutti e che il mago, semplicemente, osserva e, se in purezza da interessi personali, oracola e miracola, in quanto tutto è in lui.
“Vivi una vita, studi una vita e muori scemo” (3)
La conoscenza riguarda campi chiusi, che possono essere detti anche menti. Ossia dimensioni governate dall’impero logico-razionale.
Appena ci troviamo fuori dalla mente, nelle dimensioni non logico-razionali, genericamente dette estetiche, possiamo riscontrare le congetture che la riempivano.
E allora? È il credito che si dà alla mente, quale vascello che ci permetterebbe di solcare i mari della conoscenza, di salpare dalle terre dell’ignoranza l’origine del pasticcio tra saperi e conoscenza. Niente di più positivista, quindi di limitato, di funzionale all’ammiraglio, di opinabile.
La sola conoscenza, se così la si vuole chiamare, è già in noi e non richiede ne studio, né parole. Riconoscendolo, i misteri, ovvero le domande fondamentali, svelano la natura che li ha generati, che è prettamente logico-razionale. Può davvero essere questa dimensione a portarci alla conoscenza?
Riconoscendolo, possiamo vedere che i misteri non sono che rebus, la cui soluzione non si compie a mezzo degli strumenti della mente. Anzi, che proprio quegli strumenti, buoni a manovrare il finito ma inetti a gestire l’infinito, sono proprio l’origine di ciò che non sono in grado di svelare.
“Le religioni sono credute vere dal popolo, false dai filosofi e utili da chi gestisce il potere”. (4)
Note