Alle porte di Tannhäuser
di Lorenzo Merlo - 15/06/2025
Fonte: Lorenzo Merlo
Intorno a noi c’è un muro circolare di confine invisibile, che ci impedisce di vedere ciò che sta al di là. Esso diviene visibile agli occhi della consapevolezza della nostra inestirpabile parzialità. Così, il mondo che sta all’interno, il solo che concepiamo, riempie la vita e i pensieri. In esso, come avviene per la voce dei genitori nei confronti di un bambino, la propaganda risuona e vola sulle emozioni come un’eco ininterrotta. La realtà è fatta. Vestita di giustizia e verità, la gran maggioranza la segue e la sostiene. Ma nel muro c’è un pertugio, nella Bibbia è la cruna dell’ago, ai tempi nostri sono le porte di Tannhäuser. Tutti vi possono passare, una volta spogliati dal conosciuto, liberi dall’arimanico orpello del pensiero unico. Lo ha fatto perfino Cacciari, che non sopporta più il PD.
Non sopporto più i negri. Li amavo fino alla fiducia, ero certo che si sarebbero riscattati dalla sofferenza che li aveva afflitti, e li affliggeva ancora. Pensavo con fede che il mondo in mano loro sarebbe stato migliore di quello colonialista, la cui progenie, dopo aver forzatamente cessato di occuparsi del terzo mondo, con le loro Guineamen opportunamente camuffate, aveva fatto rotta ovunque sul globo, non più benedetta solo dal papa del momento o da qualche monarchia assoluta. Lo aveva fatto, questa volta, nel pieno della legalità in base a norme autoreferenziali, adeguatamente travestite da aiuti umanitari e portatrici di salvezza dalle carestie.
Un protomillisecondo dopo l’elezione del negro più bastardo della terra (1), non a caso incoronato di Premio Nobel per la pace, tutti i negri del mondo non avrebbero dovuto seguitare a esultare, ma prendere coscienza che, ora, erano loro a dover costruire i vascelli, per caricarle di mezzi uomini bianchi e trascinarli incatenati verso le esperienze necessarie affinché capissero, una volta per tutte, che non è possibile dire a cuor leggero – credendo d’essere i portatori del vessillo dell’umanità – andiamo a esportare democrazia.
Invece loro, i negri, al pari delle donne, si sono fatti imbambolare dal modello col naso all’insù, con le scarpe lucide e i gemelli ai polsini. Invece di creare un mondo degno del loro spirito originario, hanno scelto di replicare l’esistente, di seguire le sirene del successo materiale e del potere. Una via di cinismo, senza cuore.
Amavo anche le donne, e nei loro confronti nutrivo la medesima fiducia. C’era luce nelle donne, ma l’hanno gettata per una manciata di sale. Despiritualizzate se non indemoniate, non hanno saputo fare altro che assumere il critrtio maschile e replicarlo.
Eppure, è soprattutto a partire da loro, dalle loro emozioni d’amore, paura e rancore, necessariamente vissute dal nascituro, corpo unico con la madre, che si può interrompere il saṃsāra, o la perpetuazione delle incarnazioni vanesie della vendetta, cioè la storia di dolore che conosciamo.
Il potere delle donne, così come quello degli oppressi, è ¬ esistenzialmente parlando ¬ rivoluzionario. Tradirlo, rinnegando la propria prima missione di generazione della vita, e quindi di dono, è infernale.
Nonostante la longa manus internazional-finanziaria degli ebrei e relativa pessima reputazione, che hanno cercato di mondare con il monopolio – altrettanto odioso – della sofferenza subita a causa del nazismo, non avevo sentimenti di disprezzo nei loro confronti, almeno fino ad oggi. Per la loro prestazione bellica nei confronti di Gaza, Iran e altri della zona, gravemente avvallata dai divanisti dell’Occidente intero non serve andare alla ricerca di aggettivi e definizioni, serve invece sentire un allarme per la domanda che insorge spontanea: Hitler era solo pazzo? Non avevo niente contro i froci e qualunque altra categoria al di fuori della cosiddetta normalità, una delle quali mi appartiene. E neppure contro la parlata americana, e sostanzialmente neppure contro Hollywood. Ora non sopporto più le loro espressioni, né i loro esponenti, componenti e manifestazioni. Non sopporto brand, audience, budget, workshop, manager, business, spoiler, trailer, fashion, nella voce di troppi. Invece di impegnarsi a promuovere il rispetto, hanno agito tecnicamente con il benestare delle leggi, come se gli uomini fossero macchine, e non entità composte d’infinito entro le quali ruotano, cozzano, e si combinano le idee dell’eternità, sfornando risultati che non solo la legge non può prevedere né impedire, ma in grado di scatenare una tempesta della stessa potenza con cui il casotto venne spazzato via a Los Alamos dal test nucleare d’esordio.
A partire dal frammento subliminale, fino al lungometraggio, senza soluzione di continuità assistiamo agli ipocriti messaggi del politicamente corretto, ideologia del pensiero unico, grande seno culturale dal quale negri, froci, giovani, femministe e arcobalenati, tutti corrono a succhiare la loro dose di presunta emancipazione. In quale altro modo chiamare un bene superficiale, ¬foruncolo sulla pelle della storia, ¬vuoto del potere spirituale radicato nel cuore dell’uomo e sinonimo di vita?
Vivere credendosi entità indipendenti, d’essere altro dal cosmo, fondando se stessi su un’idea, nient’altro che un soffio pronto a disperdersi nell’aria, ha un che di commedia, ma anche, e soprattutto, di farsa e tragedia.
Se in questo tempo detto post ideologico si crede di essere salvi dai legacci che le somme ideologie imponevano ai pensieri, come dice la mia amica Giulia, siamo caduti dalla padella di esse alla brace di ideologie assai peggiori, come quella dei diritti individuali, che nulla hanno a che vedere con l’equilibrio e tutto con la tempesta.
Nel turbinare di maya, ottusamente appesantiti dal carico di fuorviante tecnologia, tronfi della specializzata competenza analitica, stupidamente andiamo alla ricerca della storicità del Cristo e di Castaneda, credendo di poterla escludere o dimostrare, come se ciò fosse ragione o meno dell’attendibilità delle loro parole. Intanto, ridiamo di quanto ci hanno lasciato, senza perciò tenerne conto alcuno nel nostro fare. Quindi abbiamo immolato, senza viverne il sacrificio, l’anima del mondo, abbiamo eletto il pensiero analitico e le sue specializzazioni a solo strumento della conoscenza, abbiamo fatto della tecnologia e del digitale un’ara bicefala alla quale prostrarci, con la quale costruire politiche e modelli educativi, abbiamo deciso di amministrare la vita, trasformando in un vero inferno il paradiso che potrebbe essere.
Spegniamo la violenza degli algoritmi, osserviamo cosa viene impiccato dall’intelligenza artificiale, domandiamoci cosa questo tipo di progresso, senza vita né amore, comporti per l’uomo, per la sua identità, forza, creatività e benessere.
Relazionarsi al mondo attraverso l’anonimo, inidentitario e gelido criterio digitale, in sostituzione di quello caldo e variabile analogico, è l’ultima scellerata scelta della vanità umana, che, senza dircelo, secondo quanto visto finora, ci ha portati nel punto mortifero in cui ci troviamo, un territorio arso dalla guerra, coperto da un cielo plumbeo, senza più la speranza di uno squarcio di saggezza.
Sediamoci sul muretto di pixel favorito, e cerchiamo di trovare il senso illuminante di cosa significhi seguire una via con il cuore.
Note
1. Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ansioso di dimostrare la sua fermezza, s’impegna a fare tutto il necessario per ‘vincere’ [la guerra in Afghanistan, nda].
Internazionale, 2009, no. 783, p. 28.
2. “Barak Obama: ‘È arrivato il momento di cambiare’, ha annunciato nel suo discorso dopo la vittoria nell’Iowa”.
[...]
“Quando Obama ha tenuto il suo discorso dopo la vittoria nell’Iowa, si è sentito quasi il clic degli ingranaggi della storia che si mettevano in moto e del suo motore che cominciava a ronzare”.
Internazionale, 2008, no. 726, p. 20.