Aree interne: e se finanziassimo l’anima?
di Gian Luca Diamanti - 22/07/2025
Fonte: Appenniniweb
C’è finalmente un dibattito pubblico sulle aree interne del Paese, anche sugli Appennini quindi. Bene! Il problema però è che, come quasi sempre accade in questi ultimi tempi, si tratta in prevalenza di polemica politica, pro o contro il Governo in carica. Il PSNAI, il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, dicono i detrattori, decreterebbe la morte dei piccoli paesi, concedendo loro al massimo un’eutanasia. È vero, o non è vero? Se si estrapolano dieci righe in un testo di 164 pagine può apparire vero, se si legge il testo intero non è così. Nel frattempo è uscita un’indagine nazionale del Corriere della Sera Economia che parla invece di un’inversione di tendenza, con almeno 100mila persone che sarebbero tornate a vivere nelle aree interne (comprese quelle alpine); ma anche questi dati, si sa, vanno presi con le molle. E poi: i finanziamenti messi sul piatto sono pochi o sono abbastanza? Pochi, sicuramente, secondo chi propone di girare i fondi destinati al ponte di Messina per interventi sulle aree interne. Interventi che poi, a guardare bene, sono sempre quelli dei quali si parla da almeno una quindicina d’anni: più servizi, più infrastrutture, ovvero più sanità, più istruzione, più viabilità, più connessione, più incentivi a chi decide di restare o tornare. Misure fondamentali, ma basteranno?
C’è un problema di base: le aree interne, per noi gli Appennini, non le ascolta quasi nessuno. E ascoltarle non significa solo distribuire questionari ai Comuni, o convocare assemblee tra gli abitanti (che pure sono utilissime); significa soprattutto cercare di capire quale sia l’anima degli Appennini, la loro cultura e il modello di vita che essi propongono, grazie a una storia lunghissima, alla potenza dei luoghi e della natura che conservano.
Se si sta un attimo in silenzio, alzando gli occhi verso le montagne, sopra gazzette ufficiali, comunicati stampa e disegni di legge, magari la domanda viene da sé: qual è la visione? Perché la gente dovrebbe restare o tornare a vivere a Tagliacozzo, a Sassalbo, a Preci ad Aquilonia o a Pentadattilo? C’è un’idea, o sono solo calcoli di soldi da spostare di qua o di là?
Il modello di vita per chi sceglie le aree interne qual è? Che valore ha oggi? E non parliamo solo del valore economico, ma di qualcos’altro. Ecco: in ogni politica per le aree interne occorrerebbe alzare l’asticella, chiarire che a chi torna e a chi resta non si prospetta una vita come quella delle città, ma neanche una way of life residuale. Chi sceglie le aree interne lo deve poter fare con orgoglio e consapevolezza, perché la sua scelta è alternativa e porta verso un’esistenza diversa, più ricca di quella degli abitanti delle valli e delle città metropolitane. Occorrerebbe cioè tornare a capire, a raccontare e a insegnare (anche nelle scuole e specialmente ai giovani, perché no?) che non c’è un solo modello di vita figo, ovvero quello della iperconnessione, dei centri commerciali, della luxury economy, della finanza e similari (e dei loro contraltari: emarginazione, dipendenze, depressioni). Che c’è almeno un altro modello di vita forte, basato sul lavoro, certo, ma soprattutto sulla ricerca della libertà e sul misurarsi con la natura e con la comunità, per modellare il proprio futuro e la propria personalità in maniera un pochino più integrale. La palestra dove esercitare questo modello di vita, stimolante e tutto da costruire per il futuro e anche per la tenuta del nostro Paese, potrebbe essere proprio quella delle aree interne e dell’Appennino in particolare.
Qualche anno fa il presidente del Censis Giuseppe De Rita scrisse sul Corriere della Sera che “se si salva l’Appennino, si salva l’Italia” e queste parole restano sempre di monito, potendo costituire esse stesse l’ossatura di ogni piano strategico. Sono uno stimolo a non dimenticare, a non metter via, a rispolverare e a rammodernare un modello di vita attraverso il quale l’identità e la cultura del nostro Paese si sono formate e forgiate per secoli e millenni.
Nessuno s’illude che una narrazione e un’operazione culturale di questo tipo si possano realizzare nel breve periodo. Ma con una visione più ampia occorrerebbe che perfino il legislatore, a monte (è il caso di dirlo) di ogni elaborazione normativa, iniziasse a considerare questa modalità: pensare cioè di sostenere innanzitutto le persone e i luoghi che hanno costruito e che costruiranno l’identità e la cultura d’Appennino.
E nel frattempo? Nel frattempo c’è il rischio concreto che alcune aree dei nostri Appennini (come prospetta il PSNAI) restino in stato di abbandono. E allora? Allora un legislatore accorto, oltre a pensare di accompagnare la popolazione di quei luoghi sfortunati verso soluzioni alternative, dovrebbe avere come priorità la difesa, anche fisica, di quei luoghi.
Perché questi territori diventeranno sempre più marginali, deboli e fragili, non essendo più presidiati da comunità umane. Aumenteranno, di conseguenza i rischi di disastri naturali (le cui conseguenze si allargheranno fino alle valli) e le occasioni di speculazione, a cominciare da quelle legate alla favola della Green Economy, ad esempio con gli impianti industriali dell’eolico destinati a distruggere in maniera irreversibile il paesaggio montano. Allora chi difenderà questi territori da speculazioni umane e disastri naturali?
Se si ha una visione di lungo periodo dell’Appennino come luogo ideale per offrire al Paese un modello di vita diverso, una diversa cultura, un’identità da ricostruire, occorre, prima ancora di intervenire con finanziamenti e incentivi, difendere innanzitutto a livello normativo, la sua integrità e il suo paesaggio che sono il suo vero tesoro e la sua anima, Un’anima che generazioni migliori della nostra potranno ascoltare e interpretare in futuro, se non la distruggiamo ora.